Il Manifesto - 25.10.97

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Tre uomini in carcere

Contro la stupidità feroce della vita carceraria, dove il tempo si sbriciola in mille futilità, in mille necessità...

PIERLUIGI SULLO - PISA

F ORSE E' PERFINO un sollievo, una volta arrivati qui, nella saletta bianca delle guardie carcerarie, superata la trafila dei controlli e i metal detector e le pesanti porte d'acciaio foderate di vetro antiproiettile, una volta passato il visibilissimo confine tra "fuori" e "dentro", sentirli parlare dei detenuti e del carcere, delle sue follie e umiliazioni, della lotta dei detenuti e dello sciopero della fame che si estende, da Roma-Rebibbia a Pisa oggi, e domani forse dovunque. Adriano Sofri, ironico e diretto, e Giorgio Pietrostefani che borbotta e ride, e Ovidio Bompressi affilato e il collo magro che balla dentro il colletto abbottonato di una camicia bianca; non parlano di sé, anzi sì, parlano di tre detenuti e di altri cinquantamila, come persone che non riescono più a sopportare la stupidità feroce della vita carceraria, dove "il tempo si sbriciola - dice Adriano Sofri - e non è affatto vero che qui per lo meno hai tempo per leggere e scrivere, ci sono le mille incombenze inutili, i 'rapporti', ovvero quando ti rimproverano per cose futili, e gli altri che ti vengono a parlare, non hai idea di quanti mi scrivano dalle carceri, e hai soprattutto il tempo di osservare le miserie, la povertà della maggior parte dei detenuti, la mancanza di tutto".

E' per questo, contro questo, che per il momento digiunano. Hanno cominciato domenica scorsa, prendono solo caffè, tè, e acqua, moltissima acqua: "così puoi resistere a lungo", dice Adriano, poi si volta verso Ovidio, mentre Tano D'Amico fa loro la foto che serve, tutti e tre insieme, la foto che manca, e scherzano su quanto sei alto tu e quanto basso io, e dice al suo compagno, come meravigliato: "Ma lo sai che sono già dimagrito tre chili? Almeno, è quel che dice la bilancia".

Qui, nel carcere, sei "una persona espulsa per giusta causa dalla società - spiega meticoloso Ovidio Bompressi - o almeno così pensa l'opinione, e sei perciò una parte distaccata e disseccata". Lento, lo ripete, come una formula cui ha pensato a lungo: "Una parte distaccata e disseccata". "E' la massima degradazione dell'individuo", aggiunge. Adriano dice: "Siamo stati quasi felici - si capisce che c'è un po' d'ironia - quando abbiamo saputo dello sciopero della fame a Rebibbia. Ecco che partecipiamo di qualcosa più vasta di noi, e abbiamo iniziato uno sciopero della fame che probabilmente avremmo fatto comunque. Ma ora siamo vincolati a questo movimento, di cui, sia chiaro, non vogliamo diventare esponenti; siamo tre detenuti tra altri, che si ribellano a una vergogna, il carcere, che mortifica la dignità umana".

Poveri, malati, soli

Ma la separazione, tra qui e l'altrove, è tale, che parole come queste possono suonare retoriche. Come dice Ovidio, se sei dentro è per qualche ragione, così pensa la gente. E i poveri, i malati, i soli che sono in cella sono perciò più poveri, più malati e più soli. Bisogna farsi raccontare i particolari, per capire. E i tre te li raccontano pazientemente. Il carcere passa una tazza di "caffè" la mattina, un primo caldo e un pezzetto di formaggio a mezzogiorno, un secondo caldo la sera; un rotolo di carta igienica, una saponetta e alcuni sacchetti per i rifiuti ogni mese. Ed è tutto. Chi non ha i soldi per il "sopravvitto" e per comprarsi dentifricio e detersivi per la cella, scarpe e maglioni, le sigarette, insomma per tutto il resto, cioè quasi tutto, ne resta privo.

E se i detenuti sono, come a Pisa e dappertutto, per il 40 per cento immigrati, nella grande maggioranza poveracci o tossicodipendenti, insomma senza un soldo, la conseguenza sarà, come racconta Ovidio, una grandinata di microconflitti tra detenuti poveri, e tra i poveri e quelli che hanno qualcosa. "Dice: gli immigrati non portano le scarpe. Per forza - è Adriano che parla - non le hanno, semplicemente non le hanno". E la seconda conseguenza sarà che "questo è un posto di ospedalizzati coatti, qui siamo tutti malati, più o meno, uno su tre ha l'epatite C e per fortuna che in questo carcere - dice ancora Adriano - ancora somministrano l'interferone, l'unica terapia conosciuta per quel tipo di malattia".

In poche e terribili parole, la situazione è questa: negli ultimi anni la "popolazione carceraria", cioè questo lazzaretto di abbandonati, ha tracimato oltre ogni argine, "perché soprattutto con la custodia cautelare - dice Pietro - si mette dentro gente per reati di ogni tipo e là - gira la testa in una qualche direzione - al giudiziario, si tagliano tutti i giorni, mentre qui al penale, dove sono quelli condannati in via definitiva, è un po' più tranquillo". "Si tagliano" significa autolesionismo: per essere notati, ascoltati, per non "essere partiti", come si dice in gergo, un terribile transitivo che sta per essere trasferiti, nelle celle di punizione o in un altro carcere, ad ogni piccola "mancanza".

E mentre le carceri scoppiano, cioè, come dice pacato e preciso Ovidio, "funzionano da discarica sociale, in cui finisce tutto quel che la disoccupazione, la povertà, la crisi dello stato sociale provoca, in Italia e in tutto l'Occidente", il governo, appunto, taglia i bilanci. "Meno 30 per cento l'anno scorso, meno 15 quest'anno - enumera Adriano - quasi la metà in meno in due anni. E il primo settore ad essere tagliato è la sanità, ecco perché a Rebibbia digiunano i malati di Aids, tanto sono lì non perché li curino, ma per impedirgli di morire fuori dal carcere. E infatti il personale sanitario è in agitazione". E gli educatori, tre per 295 detenuti a Pisa; e gli agenti di custodia, che, "poveracci - dice Pietro - hanno alloggi quasi peggio delle nostre celle", e comunque sono sempre pochi, pochi.

Dopo tangentopoli

Allora, che si può fare? Secondo Adriano, "solo un brusco calo del numero dei detenuti, dieci o quindicimila in meno d'un colpo, può far ripartire il sistema carcerario in una direzione diversa. Ma non mi pare che questo sarebbe l'effetto della legge Simeone di cui si parla in questi giorni. E d'altra parte, dopo tangentopoli è una bestemmia anche solo parlare di amnistia, per la quale oggi ci vogliono almeno i due terzi dei voti del parlamento, come nemmeno per una riforma costituzionale. Come se in galera ci fossero loro, i grandi corrotti, e non questi poveretti, a cui è stata tolta anche questa concessione, questa grazia periodica.

D'Ambrosio (magistrato milanese, ndr.) ha avuto una buona battuta: ha detto che se si fa l'amnistia verrebbero da tutta Europa, qui in Italia. E be', a parte che le pene, da noi, sono molto più alte che nel resto d'Europa, e per esempio in Francia un reato come quello che ci ha condotti qui è prescritto dopo 15 anni, e noi siamo dentro dopo 25, a parte questo, che io sappia, sono accorsi da tutta Europa solo Giorgio Pietrostefani e Toni Negri".

Ovidio aggiunge che sì, i progetti di legge servirebbero, come servirebbero regolamenti meno assurdi di quelli che proibiscono i libri rilegati e le giacche (mi guarda e dice: "Lo sai che avevo una giacca come la tua? Che nostalgia") e i cappotti, e se li concedono è a seconda della personalità e del tipo di reato, col risultato, dice Adriano, "che magari me ne andrò in giro con un bel cappotto di castorino, in mezzo a gente che trema per il freddo", ecco, se il governo facesse il molto che può fare e il parlamento si sbrigasse, certo sarebbe un bene.

Ma il problema della separazione, dell'essere "distaccati e disseccati", lo si può medicare solo se le associazioni, il volontariato, cioè il modo che la società inventa per difendersi, si allarga anche al carcere. E racconta: "Attraverso il vescovo di Massa e persone legate alla Caritas abbiamo creato, caso unico in Italia, un fondo cassa per i detenuti poveri, e a ciascuno diamo da trenta a cinquantamila lire al giorno; si è sparsa la voce e molti hanno mandato soldi, oggi abbiamo quattro milioni, ma non bastano". (Questo, di conseguenza, è un appello: chi vuole mandare soldi, li può indirizzare a Athe Gracci, via tosco-romagnola 77, Pontedera; per informazioni invece si può telefonare al cercere di Pisa e chiedere della dottoressa Truscello).

Il colloquio è già molto lungo, Tano chiede di mettersi qui e là per fare le foto, Pietro comincia a elencare aneddoti sugli anni settanta milanesi in cui lui compare sempre nella parte del cattivo, e ci ride sopra. Pende una domanda: e voi? Proprio voi tre? "Se avessi un'idea di quel che faremo quando il digiuno di protesta nelle carceri si fermerà, te lo direi, onestamente te lo direi", risponde Adriano. Quel che è sicuro è che tra la metà e la fine di novembre sarà depositata la richiesta di revisione del processo, "e lì vogliamo arrivarci in piedi", aggiunge. Ma nove mesi sono passati, da quando si sono consegnati, e loro sono grati per tutto quello che si è fatto, le 160 mila firme, l'assemblea di oggi a Roma, "ma uscire di qui - dice Ovidio - uscire in ogni modo, è un obbligo verso noi stessi, ed è un gesto di rispetto verso il diritto come dovrebbe essere".

"E' chiaro - conclude Adriano - che andremo fino in fondo in tempi molto brevi". Cade un silenzio, anche le Laika di Tano tacciono. Adriano chiede dello stato di salute del manifesto, ha sul tavolo la copia con la lettera aperta di Rossana Rossanda al presidente della repubblica. Non buono, rispondo, stato di salute non buono. Si apre la porta, i tre si alzano, ci salutiamo. Quando è sulla soglia, Adriano si gira e mi dice: "Resistete".

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