Il Manifesto - 29.10.97

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Posta & Mail - Sessualità in carcere

Ogni volta che si parla di sessualità in carcere, casca l'asino, anche a sinistra. Infatti, anche il "progressista" Barbera, direttore di Rebibbia, pur sostenendo che non si può parlare di una cella come di un luogo pubblico, pur invocando la privacy (ma Rodotà non ha previsto nulla in materia, riguardo le persone detenute?), non esista a sostenere che, dopo un primo richiamo perché le due detenute smettessero le loro effusioni affettive, avrebbe minacciato di "scrivere".

Nel gergo carcerario "scrivere" significa denunciare o rapportare alla magistratura determinati comportamenti (l'ex-direttore generale Coiro si sarebbe di certo fatta una privatissima risata... e avrebbe archiviato), con tutte le conseguenze pratiche (sospensione dei benefici, delle telefonate e dei colloqui premiali, della riduzione di pena, etc.) e teoriche (possibile processo) che ciò comporta.

Non male per un funzionario democratico e progressista, per un amministratore. E' mai possibile che ogni volta che si affronta il problema dell'affettività in carcere crollino miti, si erigano barriere, riemergano pregiudizi, riaffiori la paura della diversità, di chi è altro da noi? Già, perché non bisogna dimenticare che l'affettività nel carcere è possibile solo tra persone dello stesso sesso. Che, forse, fuori non hanno nessuno a cui siano legate da rapporti particolarmente intensi, profondi, di spessore. Perché non si comincia a pensare che esistono persone omosessuali (e quindi pure i rapporti gay o lesbici), senza dover essere necessariamente travestiti o transessuali, per i quali sono stati istituite apposite sezioni (o ghetti?).

Perché non si comincia a pensare che nella privacy di una cella (ma molti "amministratori" con pudico eufemismo chiamano "stanze": forse per esorcizzare il peso di essere "amministratori" di pene e sofferenze non prescritte, né imposte legalmente, né sentenziate; non è scritto nella Costituzione, non è previsto nell'Ordinamento penitenziario, non si trova in nessuna sentenza - neppure per violenze sessuali - il divieto di avere in carcere rappori umani, i quali implicano inevitabilmente anche quelli erotici-sessuali, e/o rapporti affettivi con le possibili implicazioni amorose che ne derivano.

Ve l'immaginate una sentenza che recita "si condanna l'imputato/a alla pena di anni sei di reclusione, quaranta milioni di multa e interdizione dai pubblici uffici e dai rapporti umani ed affettivi per anni cinque"?), nei rari momenti d'intimità della cella possa esistere, oltre alla masturbazione, il desiderio o la pratica erotica. Molto meglio della sublimazione che conduce sovente a violenze fisiche e, talvolta, anche sessuali (cosa peraltro rarissima, se non del tutti inesistente attualmente).

In fondo la Costituzione e l'Ordinamento prevedono che la pena dev'essere finalizzata al recupero e al reinserimento delle persone ed il trattamento non deve essere afflittivo e contrario al senso di umanità e deve rispettare la dignità della persona.

Che bella umanità e che per rispetto privare le persone della loro sessualità e torturarle inibendo i loro desideri e bisogni più naturali.

Tony Viviani - Pavia

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