Il Manifesto - 30.12.97
CARCERI MINORILI
GIOVANNA BOURSIER - TORINO
Q UI DENTRO proviamo a dare delle opportunità e qualche strumento a ragazzi che però, contemporaneamente, priviamo dell'elemento più importante nell'educazione di qualsiasi adolescente, la conoscenza e il rispetto della libertà". Sono parole di Nicola Iavagnilio, direttore dell'istituto penale Ferrante Aporti, il carcere minorile di Torino, dove i detenuti, quarantasei giovani tra i quattordici e i vent'anni, sono per un giorno radunati tutti insieme.
Si festeggia anche in carcere il Natale e per questo gli operatori del progetto Argo, volontari quasi coetanei dei prigionieri, hanno organizzato una grande festa e un concerto per ventitre ragazzi e tredici ragazze che altrimenti non si incontrano mai e che oggi, invece, possono pranzare, giocare a calcio, ballare e ridere come, dice qualcuno, "dovrebbero fare tutti i giovani della loro età".
Il Ferrante Aporti è un antico palazzo torinese, quasi di fronte alla fabbrica della Fiat Mirafiori. Si entra attraverso uno sbarramento di vetro blindato, si percorre un corridoio silenzioso dipinto di rosa e bianco e si arriva alla cancellata di ferro che si apre con una grande chiave. Poi si è dentro, "in tutti i sensi", ride qualcuno.
Le celle del maschile e del femminile sono di sopra, "per quattro persone", dice don Domenico Ricca, il cappellano che lavora qui da più di diciotto anni, "da quando - aggiunge - il carcere per minori era tutt'altra cosa". Lo racconta don Ciotti, anche lui qui "per passare una giornata con i ragazzi", senza clamore e senza pubblicità. Ricorda il Ferrante del 1968, "completamente diverso, quando c'erano solo celle, nessuna attività e, con Violante e Caselli, allora giovani magistrati, tentammo di cambiare le cose proponendo il primo progetto per i minori detenuti".
Adesso le celle al piano terreno sono diventate laboratori e aule scolastiche, le porte di ferro sono state dipinte di blu e, nei corridoi illuminati dai neon, sono appesi i quadri dei detenuti: raffigurano bambini, posti lontani, isole, luoghi d'origine. Perché ormai l'ottantacinque per cento dei carcerati è composto da stranieri.
Per questo, aggiunge Iavagnilio, "nelle aule ci sono computer che scrivono in arabo, il giornalino interno del carcere è bilingue e da quest'anno è permesso ai ragazzi musulmani rispettare il Ramadan, con tutti i cambiamenti che comporta nell'organizzazione di un'istituzione come questa. Ma ci proviamo, e impariamo anche noi qualcosa. Gli extracomunitari arrivano in città e in poco tempo, senza grandi alternative, vengono risucchiati nei giri della criminalità. Per questo arrivano qui e sono comunque troppi".
Eddie infatti è algerino, ha vent'anni ed è arrivato in Italia dopo esser passato dalla Spagna, dove raccoglieva pomodori per cinquemila pesetas a giornata che, dice, "non bastavano mai". Adesso aspetta solo di uscire e spera di avere qualche possibilità di studio o lavoro, "come i ragazzi italiani".