La Stampa - 16.05.98

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Giudice condanna senza prove? "Nessuna colpa"

Corte di Cassazione

ROMA. Si possono passare 17 mesi in carcere con l'accusa di aver violentato una donna, essere assolti con sentenza definitiva e riabilitati dalla Cassazione perché "il fatto non sussiste", per poi scoprire di aver sofferto tutto questo senza poter chiedere alcun risarcimento allo Stato, nonostante le condanne fossero entrambe inflitte "senza prove".

Lo ha sancito la corte di Cassazione con la sentenza 4730. Il caso era quello di Donato D.G. arrestato il 7 febbraio '89 e condannato prima dal tribunale, poi dalla corte d'appello di Milano a 7 anni di reclusione per violenza carnale continuata, violazione di domicilio, ritenzione a fine di libidine, lesioni personali, tentata violenza privata e minacce. Dopo avere scontato 17 mesi i capi d'imputazione furono cancellati nel luglio '90 dalla Cassazione per gravi irregolarità della sentenza di condanna.

Ottenuta l'assoluzione, l'uomo aveva fatto ricorso alla magistratura per chiedere il risarcimento dei danni patiti con il carcere cautelare. Su questa richiesta la risposta della Cassazione è stata negativa. Lo Stato non deve alcun risarcimento perché "l'errore commesso nella sentenza cassata si risolveva non già in una grave violazione di legge - come invocato dal ricorrente - ma in un'errata valutazione delle prove, che non può essere fonte di responsabilità civile".

I giudici, stando a quanto stabiito dalla Cassazione, dunque, sono chiamati a rispondere soltanto se nell'esprimere i propri verdetti non svolgono alcuna attività di valutazione degli atti processuali, ma non se, sulla base di quegli stessi atti, emettono condanne "in contrasto con ogni canone che presiede alla formazione della prova". I magistrati hanno esentato l'uomo dal pagamento per intero delle spese processuali, di solito imputate a chi perde la causa: poiché "sussistono giusti motivi", le spese sono poste a carico della pubblica amministrazione.

La Cassazione ha voluto mitigare il no al risarcimento dei danni servendosi di un'altra sentenza con cui nel '90 giungeva "univocamente alla conclusione ampiamente liberatoria dell'imputato". In particolare, in quel caso, la Cassazione censurò l'assunzione a rango di prova del comportamento processuale dell'imputato come contraria a ogni canone che presiede alla formazione probatoria, e censurò come fantasie le dichiarazioni della parte lesa considerandole "un'induzione meramente soggettiva". [r. cri.]

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