Sette - 17.07.97

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Questione giustizia - Le provocazioni di Carlo Nordio

Che male c'è se Maso esce?

La difesa della semilibertà. L'utilità dei pentiti. Le «follie» dei magistrati. La fine di Tangentopoli. Faccia a faccia col pm veneziano. Che del «pericolo» Di Pietro dice…

di Goffredo Buccini

Bozano, Bertoli, magari tra quattro o cinque anni Pietro Maso... non è uno strano Paese quello che si affanna a mettere sotto chiave gli imputati in attesa di giudizio e manda a spasso, in semilibertà, gli assassini conclamati? «Certo, l'ideale sarebbe che si applicasse la carcerazione solo dopo la condanna definitiva. Però ci sono circostanze ... ».

Le solite: pericolo di fuga, inquínamento delle prove..

«Ma no. Queste sono note, sono quelle che diciamo in giro. Quella vera, di cui nessuno parla, è la necessità di placare l'allarme sociale. La gente non tollererebbe che fosse liberato l'autore di un delitto ripugnante. Ormai vede tutto alla tv».

Carlo Nordio sospira, si ferma a vedere l'effetto che fa. Sarà la voglia di cercare sempre il colpo di scena, la mania di risalire la corrente anziché assecondarla, il bisogno di non deludere Churchin che lo scruta benevolo da una cornice d'argento del salotto, ma lui, questo pubblico ministero veneziano poco amato dal Bottegone per le molte indagini sulle cooperative rosse, è cosi: appena vede una tavola apparecchiata, prova la voglia di rovesciarla con una pedata.

La tv, l'allarme sociale, d'accordo. Ma cosa le fa pensare che la gente possa tollerare, invece, che vadano in semilibertá autori di delitti non meno ripugnanti anche se meno recenti?

«Capisco. Però la semilibertà è l'attuazione di un precetto costituzionale che vuole che la pena sia rieducativa».

E lei ci crede alla pena ríeducativa?

«Non ci credo affatto quando la pena è espiata dentro un sistema che ha strutture come il nostro, così inumane. Però credo nel decorso del tempo. Pensi a Cavaliero».

Se lei fosse il fratello di una vittima di Bertoli, se fosse il papà della ragazza che sí díce Bozano abbía molestato...

«Non vorrei sembrare dissociato, ma riesco a distinguere la reazione che avrei come familiare da quella, più ampia e asettica, che devono avere i politici e i magistrati. li bilancio sulle semilibertà è favorevole. Dopo un certo tempo, è giusto correre il rischio, giusto concedere la semilibertà. La libertà è una molla che spinge a comportarsì bene: in generale, naturalmente. Possono poi esserci casi isolati, diversi».

Qual è la malattia più grave della nostra giustizia?

«La lentezza. Che, nel caso della giustizia civile, diventa una presa in giro. E anche nel caso della giustizia penale crea dei bei problemi: a diecì, quindici anni di distanza dai fatti, qualsiasi condanna viene sentita come iniqua, le persone diventano estranee alle esperienze criminali di un tempo».

E anche il caso dí Toni Negri? Secondo alcuni anche lui, una volta tornato, può puntare per esempio a una veloce semilibertà.

«In generale, sono favorevole alla libertà anticipata per chi ha espiato. Non mi pare che sia il caso, invece, di chi si è sottratto all'espiazione e gioca sul decorso del tempo. Ci sono altri modi, per esempio una richiesta di grazia ... ».

Negri sostiene che « si possono risolvere i problemi lasciati insoluti dalla legislazione speciale degli anni dí piombo». Davvero si chiudere la stagione del terrorísmo con un atto di clemenza?

«Distinguiamo. La libertà anticipata, la semilibertà, è un problema di politica giudiziaria. La clemenza, di umanità. Ogni volta che c'è un delitto di cui hanno sofferto dei privati, ogni atto di clemenza deve avere il consenso dei familiari delle vittime».

Ma si può arrivare a un provvedimento erga omnes, generale?

«E' diverso. E il discorso vale anche per Tangentopoli. Ci sono fenomeni così diffusi da non essere gestibili sotto il profilo penale. Pensi all'amnistia fatta da Togliattì dopo la guerra. E' una questione di scelta sociale. Se in Italia tra il '76 e l'81 abbiamo avuto diecimila ragazzi che hanno preso la pistola e poi, quasi improvvisamente, l'hanno abbandonata, significa che non c'era soltanto un connotato criminale. E' giusto porsi il problema, è giusto dare una soluzione politica anche al terrorismo».

Il pentítismo è utile. Ma è accettabile?

«E' accettabile proprio perché utile».

Ormai í mafiosi si pentono due ore dopo l'arresto...

«Non mi piace la parola pentitismo, qui non c'è nessun elemento di contrizione; ma il principio è semplice: chi può dirmi cos'è accaduto in una riunione dove cinque delinquenti hanno deciso un delitto? Solo chi c'era».

Rísultato chí è più criminale, e più infame, viene trattato meglio?

«Certo. La logica è questa. Ma non ho finito. Vede, per anni noi abbiamo cercato i covi delle Br. Poi, quando un brigatista s'è messo a parlare, ne abbiamo trovati trenta in una notte. Savasta, quando ha parlato, ha fatto prendere 150 persone. Ora, con la mafia, dico: se questo è il principale sistema di lotta, mettiamolo sul piatto.Certo, ci sono delle controindicazioni di immagine».

Come nel caso di Maniero, per esempío?

«E' sotto processo a Venezia, non ne parlo. Ma dì esempi ce ne sono a bizzeffe. Sì, uno più è infame, prima esce. Però c'è da fare un discorso di procedura. Sono inammissibili le confessioni a catena, le bombe a scoppio ritardato dopo 15 interrogatori».

E allora?

«E allora, quando uno decide di collaborare, lo si mette in una stanza chiusa, lui scrive tutto quello che ha fatto, tutto quello che ha da dire. Da quel momento, tutto ciò che dirà dopo, non solo non sarà utilizzabile, ma andrà considerato con la massima cautela. Io non credo tanto che oggi ci síano interrogatori coartati, credo però che il collaboratore capisca benissimo dove gli investigatori vogliono andare a parare, e li assecondì».

La riforma dell'articolo 513, ovvero la non utilizzabilità ín aula di dichiarazioni verbalizzate in precedenza, e quell'ínfame colpo di spugna di cui parla Di Pietro?

«Non è un infame colpo di spugna, è la doverosa riforma di un articolo che confligge con i principi di civiltà giuridica. Però, direbbe Hegel, la tragedia è che in tal caso hanno ragione tutti e due».

Cioè?

«Cioè qui si cambiano le regole nel corso del gioco. Molte situazioni di riti abbreviati e patteggiamenti sono stati accettati dai pm, me compreso, perché i pm sapevano che c'era questa norma. Ora questa modifica a processi in corso viene a scombinare le regole del gioco. Però, e questa è l'altra parte di ragione, è evidente che la riforma va applicata anche al passato. Insomma, l'amarezza di molti è anche la mia: il processo a Bemini e De Michehs lo risolvemmo ín poche udienze, era una specie di processo cartolare e De Michelis si prese quattro anni senza mai vedere in faccia chi l'accusava. Ma dobbiamo avere il coraggio di dire: quella norma ci faceva comodo. La struttura giudiziaria italiana non è in grado di gestire i processi di Tangentopoli. Però lo sapevamo anche prima».

E processi di mafia? D'Alema sembra offrire a Caselli un «doppio bínario» che aggirí la riforma del 513

«Vede, la legge è uguale per tutti: ma a parità di condizioni. Se i cittadini sono d'accordo, non vedo nessuno scandalo in una scelta politica che creerebbe una legislazione speciale contro la mafia, nessuno scandalo in ciò che dice D'Alema».

La corrispondenza processuale tra Dì Pietro e Ghittl ha riaperto la grande questione della contiguità tra pm e gip...

«Non parlo del singolo episodio. In generale le dico che la cosiddetta unicità della giurisdizione ha sempre provocato questa osmosi. Il pm si ritiene anche un giudice e non si rende nernmeno conto che certi rapporti col gip non sono digeribili per gli avvocati. Queste cose le ho fatte anch'io. Non per iscritto come Di Pietro, ma solo perché l'ufficio del gip è a tre metri dal mio: è normale, è stato normale, capisco i colleghi. Però capisco anche che ormai gli altri non ci vedono più come giudici, ma come parti, accusatori. E allora sono favorevole alla divisione delle carriere».

Di Pietro è un pericolo perla democrazia?

«Assolutamente no. Credo invece che alcuni politici lo vedano come un pericoloso concorrente».

Prima di moílre Coíro diceva, pensando agli slogan su «Roma ladrona». «Un ondata leghista pervade la magistratura del nord»

«Non Venezia. Capisco però che paradossalmente Coiro, una delle persone più oneste nella magistratura, ha pagato in tempi brevi un prezzo elevato. Sia in termini professionali, sia perché può esserci un collegamento tra ciò che gli è successo e la malattia».

Esiste un partito delle procure?

«No. Esiste una Anm che, come tutte le organizzazioni di vertice, tutela più gli interessi propri che quelli generali».

L'arresto è un momento magíco, come dice Maddalena?

«Noi non ci rendiamo neanche conto di quanto sia devastante la nostra azione. Sono cose che io vivo con angoscia».

Non esagera a chiedere un esame psichiatrico per i magistratí? «No. Ci sono malattie latenti, che emergono in personalità normali, come la schizofrenia: non si capisce perché un lavoro delicato come il nostro, che intervìene sulla libertà e l'onore delle persone, non debba essere garantito da questo punto di vista. La mia può anche essere una provocazione. Però certi magistrati non danno segni di equilibrio. E sono cose che, tra noi, ci diciamo spesso».

Dica la verítà. Lei non è un furbacchione che ha capito quanto paghi, di questi tempi, fare il controcanto indossando la toga? «No, vede, io vengo da una famiglia d'avvocati. Ho fatto il magistrato perché ci credevo. E ci credo ancora. Se qualcosa non funziona, mi piace dirlo».

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