L'Unità - 18.06.97
EDITORIALE - Il carcere non li salverà dalla droga
di GIANFRANCO BETTIN
In questi anni la magistratura ci ha abituati a decisioni oscillanti, che spesso si contraddicono l'una con l'altra. Sempre meglio, si può dire, di una condotta a senso unico, che fino a qualche tempo fa rendeva possibile parlare non solo di «giustizia ingiusta» ma di «giustizia di classe», e di «porto delle nebbie» qualora l'occasione giudiziaria fosse relativa a procedimenti a carico dei potenti di turno.
Oggi non è più così, naturalmente. Anzi, la magistratura è stata fra i protagoni ti assoluti della stagione di cambiamenti che il nostro paese ha conosciuto almeno dall'inizio degli anni Novanta. Sono di questi stessi giorni le verità finalmente rivelate intorno alle strage di piazza Fontana, grazie all'indefettibile impegno di alcuni giudici e investigatori. Così, quando la giustizia torna a deluderci il sapore è oggi più amaro, avendo sperato in una definitivá, rinnovata capacità di misurarsi con i problemi in chiave più razionale e aperta.
Le sentenze emesse l'altro ieri dalla VI sezione penaie della Corte di Cassazione in materia di tossicodipendenza negano drasticamentequesta speranza. Con tutto il rispetto, se l'argomento non fosse serissimo, a volte tragico, ci troveremmo di fronte a un modo comico di ragionare. Cos'altro si può dire della decisione di trattare il passaggio di uno spinello da mano a mano da parte dei consumatori come spaccio se ogniuno dei consumatori non ha regolarmente pagato l'esatta quota di sostanza aspirata? E' evidente che la giustizia non può essere così scema da credere che una cosa simile possa accadere.
Dietro una tale pretesa, dunque, si celaa malapena la volonta di cogliere ogni pretesto per colpire il semplice consumodi droghe leggere, in omaggio a una voga recente che, da settori del Parlamento a settori dell'opinione pubblica, reclama una maggiore severità.
Quanto all'altra sentenza che ha equiparato all'evasione l'uscita di casa del tossicodipendente agli arresti domiciliari in cerca di una dose per combattere la crisi d'astinenza, si colloca chiaramente nella stessa scia repressiva. Con un di più di crudeltà, però, che risulta dall'ignorare così scopertamente la condizione concreta di un soggetto in crisi di astinenza. La sua sola «evasione» possibile sarebbe in realtà quella dal carcere interiore rappresentato dalla dipendenza, un'evasione che andrebbe incoraggiata, sostenuta e non invece impedita impedendo una gestione graduata del percorso di fuoriuscita. Cosìtale inflessibilità ancorché impedire la fuga dagli arresti domiciliari tenderà a precludere la rottura della dipendenza e la riconquista di una libertà interiore preludio a ogni vero cambiamento. Per questo, per il merito e per l'oggetto cui si applicano, le sentenze della Corte di Cassazione dell'altro giorno sono doppiamente deludenti e pericolose.
C'e tuttavia da dire che esse possono prodursi anche perché la materia complessiva della tossicodi-pendenza è ormai preda, da anni, di una giurisprudenza contraddittoria, di messaggi politici e culturali ambigui, di un vuoto, insomma, di innovazione normativa, con una legislazione invecchiata , emendata a colpi di referendum ma su un piano generale rimasto regressivo e carente. E' li che occorre agire e introdurre una capacità nuova di confrontarsi con problemi inediti posti dalle mutate modalità del consumo di sostanze stupefacenti pesanti e leggere, vecchie e nuove. Senza pregiudizi e senza sottovalutazioni come si è cominciato a fare in molte esperienze locali, non solo italiane, e su scala generale nell'importante conferenza nazionale di Napoli.