Lisca nel plesso.

 

di Mimmo Oliviesi Migliori.

Posto il piede in fallo sul grumo del loro lascito, rovinano nell’ambiguo postumo le anime di certuni trapassati e le raccolgo come farei con le icone di flebili pulzelle che s’inerpicano lungo il sentiero del mio iride, prestando l’attenzione d’un istante e soffrendone a lungo. Non sono i migliori ma i più adatti che decidono d’emigrare nell’altrove in cui regna l’annullamento. Sul silenzio della cecità lo spiraglio: pinete umbratili si affacciano sulle zanne affilate della costa. La scorza d’afa è una pellicola che asciuga sul torso odoroso, slittante nel solco che spacca la convergenza dei seni. Rarefatta la via, smarrite le pulsioni: ogni orpello sigillato nel suo tempio. Gravidi veicoli s’arrampicano sul serpe tortuoso con fare solenne. Come processioni costipanti sbocchi solari. Qual altro petalo sottrarrai al tuo personaggio, al collettivo tenero giglio di carta abrasiva?

Miraggio plumbeo sulle cuspidi di larici secolari, sulle ginestre svettate a mazzi. Intingoli arcani decorano trance di siluri boccheggianti: linfa di terre incassate nella culla in cui l’enfio ventre genuflette lo scheletro scuoiato. L’acrobata pallido vestiva la camiciola sbarazzina a mo’ di sudario, la pencolante cravatta dal nodo scorsoio e la duplice ellisse di speranza come lacrime su orbite sprizzanti arsura. Patibolo che aggetta simulacro dal profilo di rasoio. E pose pancratiche sulla segnaletica erotizzante delle parabole cristalline: non si preferisce scorgere in colui che raspa gli ammennicoli imbolati nello scroto la sostanza dell’eroe, ad onta di quella che genera il pensatore, quasi umiliasse un sapido prurito del soma sepolto anziché punzecchiare senza successo la zecca che infesta l’animo?

La fauna ittica tace come tumulata nell’ossigeno che sale, le murene istoriano con dardi il ventre dell’acqua nera. Gli scogli bucano la sacca della notte e l’alba cola lentamente illustrando con l’oro freddo del suo mantello le guglie porose delle falangi di pietra. L’acrobata getta le labbra in tralice balbettandovi con sincera approssimazione alibi postremi: rivela le fauci varicose ruggendo i colpi di frusta che ghirlandano l’epitelio con sibilo vermiglio della materia palpitante. La membrana colloidale filtra risonanze secche restituendole dilatate. Quadrivio in cui convergono le sagome olivastre del suo volto, aperto alla maniera d’una pastasfoglia cartacea sotto le scariche erettili del polpastrello e già l’embrione d’un neonato desio muta arrancando lungo la prospettiva dei lombi nello scaracchio slavato d’una copula onanistica: la macchia che insozza la velleità d’un epilogo asettico. Fuggiva l’avambraccio sull’interezza del suo muscolo come defluisse attraverso le direttrici d’un grand’angolo stuporoso e negando l’appartenenza al corpo di lui. Lungo palmare appiattito in una buccia di moncherino…

L’acrobata palpa l’arto sporcandosene e lo tampona come fosse un idrante: la castrazione del pubere che soffoca dietro i panneggi adiposi del mio essere mutila icone tratteggiate a pastello con la ieratica profeticità del senno di poi.

Il mediatore esterno corrompe il pensiero creativo?

Il pensiero creativo è consaputo da se stesso?

 

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