Il pensiero creativo subodora la fenomenologia dell’estrinseco ed è come se la pianificasse. L’azione creativa è terminale che giace nel sonno. L’atto non discerne le proprie movenze. Omaggiando il nostro ego con le burle di ciò che si obbietta precocemente servendo l’enfasi dell’inattuabile ci ritroviamo sconfitti benché calzassimo un ghigno sul prepuzio della fisionomia, allora e nuovamente quest’oggi. Tesa la mano, stiletta il suo nervo, ché la psiche è un covo di serpi. Il muro è così solido e fuori tutto è in movimento: la forma è la più pura sublimazione di quanto concerne l’equivoco. Impasti saturi di vizio d’una carne malata rimbalzano sui deflettori oculari disfacendosi in rugiada mentre tingono il talamo, spettri di luce anemica riposano distesi sul soffitto dondolando il capo rivolto alle pareti: un soffio empie l’udito e mi soffermo ad annotare sul taccuino del superfluo il quieto brulicare del meriggio domenicale nella cui vescica gastrica liquefanno i pigri insetti scampati all’orgia delle vettovaglie. Celebrare la propria singolarità enucleandone la coscienza è capriccio che paghiamo con i dobloni dell’assimilazione. Me lo insegna questa bocca spropositata e purpurea oscenamente conchiusa tra gli emisferi di natiche non già segnate dall’ansia del divenire. Sì addobbata da aromi funebri che si spandono sui coperchi della carne tremula, come tra le mura d’un fortilizio cedevole, pare bisbigliare di languori che son prossimi a risolversi nel digiuno. Come disegnata dalla danza sinuosa delle ombre l’esile ninfula obliava l’esterno con l’apparato del sonno, delegando l’ambascia del morso che umetta il desiderio, trattenendolo nella gelatina sbocciata sul dirupo dell’inguine, alle gengive della foia prominente. Fraseggi fluivano frantumandosi nel ricordo, mescolando la peculiarità dei sensi come in un mazzo di semi e losanghe: gemma incastonata sul monile cartilagineo di quel corpicino senza grazie. Ma la possente capacità di contenimento suggerita dal feudo delle anche, la rastremazione del busto scheletrico sintetizzato dalla lacca rappresa sui seni stornavano, anziché titillare, la farsa d’un sopruso, infuocando le maglie acquose in cui dimorava l’antefatto d’una prosaica negazione. Siffatta si fece desumere l’ostilità della morsa in trazione dei glutei che l’altrimenti impersonale rassegnazione dell’acerbo crocevia di membra parve raccogliervisi dentro. Clangori di presse si perdono nell’eco spiraliforme del metallo. L’ennesima fenice che s’è agglutinata nel gomitolo di carne tumefatta: l’accessorio viavai di larve incarognite che dimorano nel boccone d’una vivanda scadente, di vermi pasciuti nei trafori endemici di un cadavere, di tarli sepolti nelle anime immobili che alcuni collocano un po’ più in alto…
Le algide fiammelle della memoria bivaccano sul piancito dei trapassati. Quanto marziale e pregno di attesa quel contenitore il dì che lo fagocitò la mia dinoccolata brama di distrazioni: grezzo come il tulle apostolico d’un sacco, tutto di cemento scabro che s’apriva in piaghe sul cotto dei mattoni e deturpato dai mozziconi ritorti delle sigarette. Malta coagulata sulle terminazioni dell’acciaio come sul persuasore irto di sotto il vello mentre scivola sordo al richiamo d’un orifizio, scalando i noduli della schiena, annegando tra i dossi d’un sedere. Sulla pietra imbiancata dalla canicola, sulla cute dei pruni calvi, sull’arenaria nascosta tra gli incavi del tuo corpo si riflette questa polluzione farcita di prepotenze, di supinazioni algebriche sollecitate da una preda sospesa nel bozzolo vinilico dell’immaginazione. E su ogni aberrazione la supremazia d’una palma che legge le istanze della polpa sessuale abbeverandosene fino a che non cala l’ora del letargo, quando la stella ormai fiaccata, dopo averci imbrunito senza risparmio, si spegne, staccandosi dalla vela d’etere, là dietro l’orizzonte dei flutti che s’incuneano rincorrendo la traiettoria sferica. Un uomo sedimenta sulla terra battuta dedicandosi all’infinito, come attendesse d’esservi accolto e intanto percorre con gli artigli le ultime bande di luce prima che vadano a morire nella rifrazione del salgemma. La sua compagna, distesa nella postura dell’incosciente, con il collo come spezzato, non piange, non geme…
Solamente si abbandona al murmure delle pupille, biglie inespressive che rotolano sulle sanguigne marezzature del ventre stilizzato
Liberamente tratto da "Diario ipnagogico": un romanzo da scrivere.