Sentiamo al proposito una voce del passato, ma importante ancor oggi: "La ripresa delle lotte operaie dopo il 1959 ha riaperto nuove speranze nei militanti e ha aperto nuove possibilità di impegno politico per i lavoratori distaccati dal movimento operaio…Via via che le lotte operaie aumentavano di intensità, crescevano le speranze che esse avrebbero aperto un nuovo "sbocco politico", mutando da un lato i rapporti di forza tra operai e capitalisti, e dall’altro spingendo alla feconda ricerca di una nuova linea politica del movimento operaio. Ma proprio quando le lotte hanno raggiunto il loro culmine, nel 1962, si sono verificati due fenomeni collegati: l’avvento al potere del centro – sinistra, e l’azione di freno e di divisione delle lotte svolta, in modi diversi ma tra loro connessi, dal governo, dalle aziende di Stato, dagli imprenditori privati più avanzati e dagli stessi sindacati.

Questi due fatti hanno bloccato gli sviluppi nuovi che si sperava avrebbero potuto avere le lotte, ma al tempo stesso hanno aperto nuovi problemi di grande portata:

1) essi dimostravano che la presenza di un partito operaio al governo (o nella maggioranza governativa) non rafforzava la lotta operaia, ma anzi la frenava, e chiarivano così il significato reale non solo della formula di centro – sinistra, ma di altre possibili forme di collaborazione tra movimento operaio e forze capitalistiche;

2) con questo facevano nascere la sfiducia non solo nel partito che stava collaborando al governo (il PSI), ma anche nell’"alternativa" offerta dall’altro partito (il PCI), che consisteva pur sempre in una forma analoga di collaborazione, su un programma molto simile (il centro – sinistra allora stava ancora realizzando un programma riformistico avanzato) di cui però facesse parte tutto il movimento operaio, e non un solo partito;

3) la realizzazione, o l’imposizione, di alcune delle riforme che erano il nucleo centrale del programma politico del movimento operaio (nazionalizzazione dell’energia elettrica, riforme fiscali, programmazione, enti di sviluppo agricolo) senza che i rapporti di forza e le condizioni dei lavoratori mutassero, contribuiva a mettere in dubbio la validità di questa linea, e a diffondere la sensazione che riforme e collaborazione governativa fossero concessioni offerte dai capitalisti in cambio dell’ingabbiamento della lotta operaia, e si risolvessero quindi in un sostanziale consolidamento del potere capitalistico (…)" (Quaderni Rossi, lettere dei Quaderni rossi: il PSIUP nell’attuale situazione della lotta di classe).

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La politica, quando diviene istituzione, annulla la libera espressione della alterità. Nel ciclo precedente politica e impresa condividevano una stessa azione di pianificazione della società, condotta da ruoli differenti. Se l’impresa pianificava economie di scala e tassi stabili di accumulazione, lo Stato e i partiti avevano il compito di assorbire la spinta conflittuale e la diversità operaia e far sì che ibridasse la pianificazione complessiva della società, ma senza mutarne il segno. Una certa possibilità di differenziazione era mantenuta, sotto forma di organismi di rappresentanza e politiche di inclusione, allo scopo di svolgere questa funzione di stabilizzazione e disciplinamento delle forze sociali. La politica dunque si rapporta alla società come soggetto, e proprio perché esercita controllo e disciplina. In altre parole, la politica delle istituzioni si qualifica come potere, proprio nel senso dell’esercizio del dominio sui corpi e sulle menti. Questo è evidente ancor oggi, sorta di residuo del passato, nelle regioni e città amministrate dai reduci stolti dello stalinismo, in cui la classe dirigente politica coincide con l’apparato dello Stato, e, riducendo intere società a questuanti, fa dell’amministrazione una scienza del disciplinamento delle pratiche e dei saperi sociali, controllando rigidamente gli accessi alla cultura, alla formazione, al lavoro, alla politica, al reddito. Naturalmente tale opera, in cui sono impegnate intelligenze non lungimiranti ma dall’occhio svelto e furbo, non è fine a se stessa, ma è direttamente funzionale alle esigenze dell’impresa locale e globale presente nel territorio, e della riproduzione del potere della classe dirigente stessa.

Affermiamo che la situazione in queste regioni è una sorta di mostruoso essere parto del peggior passato e del peggior presente (non è casuale che, per esempio, la Regione Umbria si faccia vanto di promuovere una politica di programmazione), perché in realtà oggi è l’impresa il potere reale che usa linguaggi, corpi e luoghi, decidendo unilateralmente cosa debba essere realizzato e cosa in relazione allo stato della competizione di mercato. Il management e la definizione dei budget coprono e si appropriano della funzione politica. Dalla neutralità apparente di un bilancio procede l’assoggettamento di saperi, corpi e comunità. I loro destini e loro vite vengono dirette di fatto dai vertici strategici delle varie imprese o istituti finanziari. Il mercato è il soggetto politico, il moderno principe, ciò che assomma capacità di direzione, potere ed egemonia. La politica istituzionale perde centralità, ma per cosa? Il ruolo che le è riservato nel neoliberismo è precisamente quello di presidio, di vigilanza e di guardia. La politica coincide con apparati il cui compito è reprimere, nel caso di conflitti; di bonificare i territori per l’invasione del mercato, schiacciandoli e asservendoli; di istallare torri di guardia e ronde di vedetta, per controllare che nulla turbi il sereno procedere dello sfruttamento e dell’accumulazione. La politica diviene la metafora della guerra. Essa si rende ri–conoscibile e visibile per le armi di cui è dotata e per la violenza che mette in atto. Non è più partecipazione, consenso o compromesso, ma la spietata arte di sottomettere al potere del denaro.

Eppure, dove c’è guerra e sofferenza, c’è reazione e affermazione di una alterità irriducibile al potere. L’una non si dà senza l’altra, non può esistere dominio senza che si produca più o meno diffusamente l’esigenza imprescindibile di liberarsi. Tanto duramente il neoliberismo cerca di distruggere e dominare, altrettanto forte e decisa è la risposta di chi pretende di scoprire e creare gioiosamente nuovi orizzonti di vita. Dovunque, in ogni direzione immaginabile e pensabile, occhi famelici appaiono scoprendo colori e forme, che sembravano definitivamente oscurati, e ripopolano strade e piazze. Forte ancora è la presa dei poteri sulle popolazioni, ma la crepa profonda che si è creata si sta diffondendo in miriadi di fessure che, con occhio provato e attento, stanno assediando a loro volta le casematte del potere.

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