Franz si è già alzato: "Ce ne andiamo, ma mica in un asilo. Arrivederci, signor azione diretta. Pensi a fare sempre più grassi i capitalisti. Si entra nella macina alle sette del mattino e s'intasca un paio di soldi di salario da portare a casa." "Non fatevi più vedere." "Sta' sicuro, azione-diretta-a-chiacchere, noi non frequentiamo i servi dei capitalisti."
Alfred Doeblin, Berlin Alexanderplatz, 1929
La certezza che abbiamo, in questi tempi, non è certezza di un nuovo stato di cose ma è, molto più problematicamente, evidenza di una transizione che si mostra in fenditure, canali carsici, emersioni di terre nuove.
All'interno del passaggio complesso da un sistema a paradigma fordista ad uno segnato da un paradigma diverso, post-fordista, l'unica evidenza sembra essere la forza della transizione, che si impone.
In tale passaggio gli osservatori più acuti vedono sovrapporsi elementi di persistenza o ricomparsa (ad esempio la diffusione di impieghi a matrice neo-servile o caratteri di lavoro legati all'arbitrarietà delle leggi di mercato autoregolate), ad elementi di anticipazione del futuro prossimo, in esempi che vanno dalla messa al lavoro o alla messa all'opera di una ricca intelligenza collettiva alla generalizzazione della ratio economica sulla totalità dei rapporti sociali tra esseri umani.
Se è vero che queste sono le poste del gioco in atto, quali sono le specifiche linee di forza, i progetti che nei prossimi anni prenderanno forma nella risposta "corale" della Società alla frattura sociale insorgente ? Innanzitutto, è necessario non cedere alle tentazioni che ineriscono ad una risposta etico-valoriale, nelle forme della "battaglia culturale", o ad una giuridico-formale, le quali presupporrebbero egualmente un'egemonia di cui non si intravedono più le soggettività promotrici: la nuova politica che cerchiamo non avrà la forma delle campagne d'opinione, né le forme che la cercheranno somiglieranno ai cosiddetti partiti d'opinione, "leggeri" e spettacolari.
Inoltre, vi è una problematica apertura di prospettive nell'ipotizzare la fuoriuscita dalla crisi. Per la via della lotta alla disoccupazione o, al contrario, sperimentando molteplici interventi contro l'esclusione sociale?
La prima prospettiva, se esclusiva o se perseguita sulla strada della "flessibilità" della forza-lavoro, rischia di non tener conto della riduzione molare del lavoro sociale complessivo che, anche qualora venisse ridistribuito in misura consistente, lascerebbe aperte falle sempre più vaste di non-lavoro o lavoro non strettamente produttivo, le quali non cesserebbero per questo di richiedere un'attribuzione di senso. In breve, è terminata un'epoca che vedeva nel lavoro non solo il luogo della Cittadinanza e dei diritti sociali, ma anche la parte essenziale dei tempi di vita degli uomini e delle donne.
Non in opposizione bensì con la voglia di guidare la prima, la seconda via ipotizza un'azione multiforme che miri a ricomporre la segmentazione della società dell'anomia, la quale non si sviluppa esclusivamente a partire da motivi economici, ma rinnova le proprie forme e viene rafforzata da una "stratificazione di diritto", in cui la coazione di cui sono vittima i singoli e le collettività diviene oggetto di polizia, di sanzione giuridica e non più oggetto della politica (chiari esempi emergono nella segmentazione dei diritti di contratto nel lavoro, dei diritti civili e sociali per i cittadini, immigrati e non, etc.).
Ciò detto, se la lotta alla disoccupazione richiede senza dubbio strumenti legislativi e ribaltamenti strutturali radicali dell'organizzazione del lavoro e delle scelte produttive, le lotte all'esclusione ed alla segmentazione estrema della società richiedono l'accendere e lo sviluppo di nuove soggettività, di nuovi attori in nuovi giochi.
Le potenze che interagiscono sulla scena sociale odierna richiedono, quindi, strumenti analitici e categorie adeguate al compito. Una scienza statica del mutamento, che individui i meccanismi di profondità della produzione diffusa e dell'accumulazione flessibile, che divenga un'economia politica adeguata alla crisi; individuando la pluralità di germi di nuova economia che già si mostrano nel cosiddetto lavoro autonomo, nell'economia del non profitto, nei flussi ipercinetici della finanza globalizzata, nelle reti di mutuo aiuto e solidarietà che si oppongono alla cancellazione della "sostanza umana e naturale della società"4.
Accanto a queste operazioni dovrebbe delinearsi un'antropologia del post-fordismo, una scienza dinamica del mutamento, che metta in relazione le figure e gli attori sociali che stanno prendendo forma nella crisi. Uno di tali attori si muove negli spazi confusi che dividono "la sussunzione reale" della complessità umana all'organizzazione del capitale dalle potenze di ibridazione, meticciato e liberazione dalle sue presunte leggi ferree d'autoregolazione.
Il piano frastagliato della società emergente, successiva al fordismo, vede quindi una molteplicità inaudita di attori sorti dall'esplosione dei diamanti del lavoro5, della rappresentanza, del sistema d'azione storica che ha segnato il '900. Il volto cruciale di questa figura risiede nelle nuove produzioni che mettono all'opera le potenze della cooperazione e comunicazione sociali, la forza dell'uso dei saperi e della messa a valore degli stessi rapporti di società.
Interpretati in tal modo, questi territori ancor prima di essere luogo di soggetti innovativi (ad esempio il terzo sistema, qui ed ora, nelle attività di cura o comunicazione) sono essi stessi il terreno avanzato di uno scontro bioeconomico che corrisponde alla cifra biopolitica6 delle lotte degli anni '90. Allo stesso modo, i soggetti multiformi che vengono ad affermarsi nell'economia del non profitto sono cruciali nella transizione in atto poiché muovono beni fondamentali nella valorizzazione del tardo capitalismo: socialità e comunicazione.
Lontana dall'essere un nemico antropomorfo ed antropofago, la globalizzazione è quindi il piano accelerato sul quale sorgono i nuovi sfruttamenti, i prossimi antagonismi ed in cui è già possibile allestire esperimenti che annuncino l'uscita dal capitalismo fordista. &E' evidente che ciò non chiama in causa l'apologia di nessuno dei soggetti odierni di azione economica o politica (cooperazione sociale, associazionismo, attività di comunicazione, etc.), mirando viceversa ad individuare i terreni nuovi e le crisalidi più promettenti, che riscrivano un programma per l'Umanità e contro il Neo-liberismo7.
Se è vero che solo là dove è forte il pericolo può sorgere ad esso una risposta, per immaginare il rifluire dell'economia entro il suo alveo sociale8 crediamo di doverci situare in queste nuove materialità, ipotizzando una nuova figura d'azione economica e sociale. Con qualche difficoltà, possiamo venire a definirla Impresa Sociale/Politica o Agente/soggetto di Economia Pubblica/associativa. Due definizioni che non sono in alternativa, ma che rendono evidenti ancor oggi vaste lacune nella categorizzazione del cambiamento. Tuttavia, allo stesso tempo, evidenziano le due polarità di una futura, possibile macchina unitaria: la prima polarità è rappresentata dal porre un nuovo soggetto di produzione politica, in discontinuità con le forme agenti nell'economia capitalistica; accanto a questa, la seconda pone il campo nuovo - l'economia pubblica e associativa- che dovrà tramutarsi nel piano inclinato dei nuovi esperimenti, nella sua curva d'accelerazione. Ciò che nella vulgata odierna è definito terzo settore o terzo sistema, o imprenditoria no-profit dovrà accompagnarsi strettamente a cenni e perimetri di economia no-market in modo da porre simultaneamente soggettività e piano, immagine e via del cambiamento.
Agente d'ECONOMIA PUBBLICA (nel fine) e ASSOCIATIVA (nei modi relazionali)
Introdurre una definizione, seppur plurale e aperta, porta con sé il rischio di sostantivare un processo che al momento è notevolmente fluido, ricco e non riducibile sotto facili denominazioni. Nonostante ciò, vorremmo intendere questi concetti non tanto come elementi definitori, che determinano consenso o opposizione intorno a sé, quanto come "concetti sensibilizzatori" che, prima ancora di organizzare la realtà siano essi stessi dei fattori "in organizzazione", sensibili a ciò che muta ed informa i processi sociali. Pertanto, intendiamo muoverci attraverso i caratteri che già emergono in molteplici esperienze produttive e politiche, sperimentazioni aperte all'ibridazione delle forme organizzative del cambiamento: ad esempio, organizzazioni di sviluppo ed imprese a base comunitaria, agenzie di scambi di tempo e lavoro tra cittadini basati sulla reciprocità, esperimenti di banche "etiche" e di finanza solidale, rinnovato sviluppo di mutue e cooperative che rilancino il principio ed il diritto all'autorganizzazione dei bisogni non delegandolo esclusivamente alle "professioni" solidali, la rete dei Centri Sociali Autogestiti ed i percorsi di culture e socialità alternative, etc.10
La scomposizione del lavoro post-fordista, pertanto, scompone già oggi radicalmente i fronti sociali del conflitto e solamente tesi assai vicine a quello che Marx definiva Il "Comunismo rozzo" potrebbero auspicare un ritorno esclusivamente ideologico ai conflitti di matrice fordista, alle sue categorie politiche, alla separazione tra le sfere della politica, della produzione e della vita che del vecchio sistema era espressione. Esclusivamente la rozzezza di una critica tradizionalista può interpretare l'area multiforme della cooperazione sociale come la pura e semplice estensione territoriale della fabbrica e delle sue gerarchie di comando: se l'impresa, cosiddetta, sociale non è niente più che impresa capitalistica, a chi spera in un cambiamento radicale della Società non resterebbe altro che un 'improbabile organizzazione della forzalavoro post-fordista, nella forma di COBAS della cooperazione, delle imprese di comunicazione, di cura, etc. - ed i "capitalisti", "la classe" su questo terreno dove li leggiamo? -. Il cortocircuito, che senza dubbio sussiste, tra coinvolgimento e sfruttamento nella cooperazione odierna difficilmente potrà essere risolubile all'interno delle meccaniche di rappresentanza tipiche del fordismo. Molteplici sono gli elementi che rendono il Lavoro nuovo irriducibile al passato; non ultimo il ruolo di partecipazione e co-produzione del servizio che vengono ad assumere gli stessi "usagers", mentre primaria è la sovrapposizione di ruoli e status (operatori che sono lavoratori e "imprenditori" allo stesso tempo, confederazioni sindacali che non rappresentano nessuno e tuttavia avviano contrattazioni con la Lega delle coop. e altre organizzazioni, le quali in ultima analisi rappresentano anch'esse la medesima moltitudine di soci. L'unica strada che può fare chiarezza è la crescita di autonomia: della cooperazione dalle megastrutture nazionali e dei lavoratori da ogni forma-sindacato che ne svalorizzino la forza creativa, conflittuale ma anche "imprenditoriale").
I timori portati dalle "mani sporche", dalla presa sulla proprietà e sulla gestione dell'impresa sociale/politica rappresentano un nodo problematico che non va rimosso, ma assolutamente associato alle chances che questa offre di incidere sulle forme del lavoro, introducendo elementi di liberazione. Non solo: tali esperimenti sono cruciali perché (e solo se) riusciranno a mettere in discussione il mercato libero del lavoro, l'elemento che ha completato la fisionomia dell'economia di mercato, in ritardo su tutti gli altri fattori e nel bel mezzo delle forze dispiegate dell'industrialismo (fino agli anni 1830, in Inghilterra non esisteva un mercato nazionale del lavoro ed il Capitale della prima potenza finanziaria e produttiva di allora era pressoché impotente di fronte ai vincoli sociali e residenziali della forza lavoro!).
Non dobbiamo scordare che nella storia del movimento operaio l'uscita della potenza di classe dal presidio delle fabbriche e delle cooperative; l'abbandono dell'egemonia culturale, organizzativa e simbolica della produzione e dei suoi luoghi si è sempre accompagnata ad un'entrata nella gabbia d'acciaio dello Stato: ed è ciò che può venir evitato oggi, rinunciando ai pregiudizi che impediscono di costruire esperienze sperimentali al medesimo tempo di contropotere e produzione sociale no-profit.
Pertanto, ciò che nel lavoro semi-precario e discontinuo offerto, ad esempio, dalle cooperative sociali rappresenta un elemento di sfruttamento e di coinvolgimento non retribuito, in uno scenario futuro potrebbe assumere ben altri significati. In un'economia fortemente segnata da settori sottratti al profitto risulterebbe chiaro che una sempre maggiore quota di risorse potrebbe esser resa disponibile per finanziare non solo l'economia sociale ed informale ma anche esperienze dirette di autonomia ed autorganizzazione dei cittadini. In virtù di ciò, la quota di lavoro che oggi è sfruttamento o autosfruttamento non retribuito o sottoretribuito potrebbe rappresentare un rifiuto di una tutela generalizzata del denaro sull'attività umana ed allo stesso tempo potrebbe sperare di venir retribuito senza significativi scambi monetari, attraverso analoghi servizi prodotti non diversamente in altri luoghi dell'economia: accanto ad essi si prepara la crescita di scambi mutualistici retti dalla reciprocità anche non strettamente immediata, scambi di beni materiali, relazionali e cognitivi, servizi, tempo, etc.
Il lavoro, di conseguenza, potrebbe venir sottratto parzialmente all'ipoteca del reddito.
&E' evidente che si pone la necessità di spezzare il circolo vizioso che fa corrispondere e coincidere, nei caratteri resistenziali dei nostri anni di trasformazione sociale, la lotta legittima contro la precarizzazione del lavoro ad una difesa, di fatto, del lavoro salariato. Solamente una posizione scarsamente immaginativa calata nel trambusto dei conflitti contemporanei potrebbe sottrarsi all'ipotesi di un'uscita radicale dalla crisi; ciò che potrebbe avvenire espandendo e rafforzando i sistemi produttivi no-profit, leggendo uno strappo estremo nella dialettica capitale/lavoro che ha caratterizzato i trascorsi due secoli della storia occidentale.
Necessariamente, andranno introdotti, forzati e sperimentati i segni distintivi di un no-profit radicale che produce per il cambiamento sociale. I cambiamenti primi dovranno essere portati nella forma produttiva e nell'organizzazione del lavoro, da caratterizzare attraverso elementi di autogoverno e d'autogestione e per mezzo di una democraticità sostanziale dei meccanismi di decisione delle strategie e di allocazione delle risorse. In secondo luogo, saranno indispensabili interventi fiscali che favoriscano l'affermarsi di un'autoimprenditoria no-profit, principalmente frutto dell'autorganizzazione giovanile sempre più segnata, culturalmente e nelle tendenze strutturali, da un rifiuto del lavoro salariato. In ultimo, sebbene sia la pietra angolare della possibile economia del non-profitto, emergerà la necessità di sottrarre tali esperienze produttive al ricatto della libera concorrenza e delle leggi del mercato del lavoro. Dovranno essere "inventati" cenni di nuovo mercato: sociale e solidale, reticolare e comunitario; dando ormai per assodato che il mercato odierno, che ci attraversa, è null'altro che un'istituzione imperfetta, certamente regolabile, che può evolvere; niente più che una figura storica destinata a ceder il passo, già affaticato dalla grande depressione degli anni '870, dal crollo degli anni '20 e '30 del XX, dal keynesismo giunto fino agli anni '70.
Concorrenza e mercato del lavoro sono sorti nelle economie contemporanee per scopi ben diversi dal produrre ricchezza e benessere sociali; la competizone, quindi, non solo sussumerebbe l'economia no-profit ai meccanismi di regolazione del mercato odierno; ma, proprio per i caratteri già individuati, ne minerebbe le potenzialità di efficacia ed anche di efficienza (lotte senza esclusione di colpi nelle gare d'appalto, riduzione dei redditi reali ed aumento dei tempi di lavoro senza che vengano corrisposti maggiori servizi o partecipazione agli operatori: ciò è evidente fin alla soglia dell'oscenità per molti lavoratori della cooperazione). Altri criteri di attribuzione delle risorse potrebbero venire delineati. Semplici cenni di proposte possono essere la valorizzazione di un criterio di territorialità, sotto il controllo di organi tecnici o comunitari di verifica, e privilegiare di conseguenza agenzie di servizio sorte nel luogo del bisogno, come risposta autorganizzata ad esso, ricorrendo solo straordinariamente a realtà d'impresa sociale professionali "senza radici". Oggi, quindi, regolamentare il no-profit con un diritto del lavoro più rigoroso sarà necessario ma vitalmente inseparabile da una sanzione legale dei caratteri autogestionari, democratici, non-stratificati di tali organizzazioni, ed in virtù di tali "pregi sociali" si dovrà rendere operante una clausola di preminenza sociale, per cui le imprese autorganizzate secondo un carattere pubblico e non statuale abbiano la possibilità di decidere e muovere risorse pubbliche, di creare spazi ed eventi di autogoverno.
Accanto a ciò diverrebbe conseguentemente inderogabile
darsi la prospettiva di un reddito garantito di cittadinanza, che liberi
le energie dei singoli e delle collettività, che sottragga questi
ai ricatti del bisogno e del reddito. Come afferma efficacemente André
Gorz, "La garanzia per tutti i cittadini di un reddito di sussistenza sufficiente
assicurerebbe il passaggio da una società del pieno impiego (sic!)
ad una società di piena attività, nel seno della quale le
attività che sono motivate, che creano convivialità e legami
sociali e che contribuirebbero all'arricchimento e all'espansione della
vita si vedrebbero riconosciute importanza e dignità sociali uguali
a quelle del mondo del lavoro"14
Imprendere: v. tr. 1. Intraprendere, incominciare. Raro: apprendere, imparare.
Impresa, quindi, principalmente come audacia, fatto dell'apprendere, come avventura potenzialmente conflittuale.
Queste glosse non sono tanto un'esibizione di pedanteria o di vis polemica; sono, al contrario, un invito a guardare ai temi dell'impresa sociale e politica con la mente depurata da pregiudizi insormontabili. Difatti, se è vero che il termine impresa viene oggi largamente inteso nel suo senso economico e privatistico, che indubbiamente nella storia è venuto ad assumere; allo stesso modo non si può negare che l'associare ad essa processi di "socializzazione"- quindi non diretti al profitto con fini individuali - e la caratterizzazione del "non profitto" porta non poche contraddizioni anche entro la sfera economica capitalistica; mentre l'intenzione politica introduce una valenza conflittuale.
E questo è detto restando fermi ad un approccio puramente nominalistico alla questione.
L'industrialismo, ampiamente inteso come la congiunzione tra il nuovo modo di produzione e di relazioni industriali e l'habitus culturale ed ideale dell'homo oeconomicus, ha posto in movimento conflitti e fronti sociali inauditi che hanno innescato sperimentazioni generalizzate, non solo nelle forme politiche di governo del mutamento bensì anche nei modi del produrre e socializzare.
In Italia, più significativamente che altrove, l'assistenza, le "opere di carità", l'autorganizzazione mutualistica anticiparono di gran lunga la nascita di un forte movimento sindacale e l'affermazione di solide e combattive organizzazioni di categoria dei lavoratori.
La convergenza delle esperienze autorganizzate verso l'istituzionalizzazione procedette dapprima attraverso lo spiegamento delle forze del movimento operaio e dello Stato liberale: gli scontri di classe condussero a polarizzazioni che spazzarono via le diversità, le sperimentazioni, le immagini di nuova società. In una prima fase di consolidamento dello Stato nazionale e di prima industrializzazione l'arroccamento prodotto dal conflitto sociale portò l'élite liberale a barricassi nel forte dello Stato, per lo meno fin all'età giolittiana. D'altra parte, il movimento operaio si poneva quale rappresentante di una società ancora largamente contadina, proprio in rapporto a ciò messa radicalmente in pericolo dalla scelta industriale.
Invece, ciò che avvenne durante gli anni che videro estendersi la base del suffragio elettorale fin all'avvento del Fascismo richiama un movimento di inversione delle posizioni, di radicale frattura tra la sfera politica istituzionale ed i campi economici della società. Le forze popolari, in quegli anni in forte avanzata, compirono la scelta di adesione alle dinamiche parlamentari, di istituzionalizzazione e statalizzazione delle mutue e delle assicurazioni sociali, quando la presa sullo Stato sembrava a portata di mano. In questo senso, il modello tedesco segnava la via agli altri movimenti operai europei.
Il Fascismo non fece altro che perseguire con scarsa consapevolezza iniziale ma con grande abilità nei fatti una politica che intravedeva nella società un piano desertico, inattivo ed indifeso, liberato dalle esperienze di presidio ed egemonia sociale e culturale del movimento operaio. Ciò avvenuto, non rimase altro sulla scena dell'interazione sociale che il dominio dei soggetti dell'economia capitalistica e la rete pervasiva di un Welfare autoritario: quello delle partecipazioni pubbliche, della pianificazione autoritaria, della repressione delle esperienze cooperative ed autorganizzate.Attraverso la crescita, in salti e fratture, del reticolo statale, il Welfare chiuse le possibilità di autoposizione della società e portò alla coincidenza di sfera pubblica e sfera politica. In Italia, tale processo fu poco radicale in forza e determinazione, ed in virtù si realizzò una scena spuria ed ambigua che protrae le sue conseguenze fino ad oggi, sia nell'affermazione del Welfare centralizzato che nella contrazione dell'intervento non statale in risposta ai bisogni di socialità e di assistenza sociale. Nel secondo dopoguerra italiano si impose un doppio, vizioso, movimento: costrizione della società civile per l'intervento e il controllo pubblici accanto a limiti dell'intervento pubblico per l'alibi della presenza privata. Un Welfare mutilato si accompagnò paradossalmente alla castrazione delle autonomie sociali e civili.
Lo Stato, la sua conquista, come strumento di emancipazione umana possiede una storia ormai lunga più di un secolo, quasi del tutto coincidente con lo sviluppo del movimento politico e sindacale operaio.
"L'opzione lassalliana" all'interno del movimento operaio ha significato la smobilitazione di esperienze cooperative di carattere fortemente politico in favore di una loro stretta funzionalità alle organizzazioni partitiche del movimento. Parallelamente, per un identico processo, la rete diffusa delle associazioni di mutuo soccorso e dell'autorganizzazione operaia tese a convergere sotto il segno di un processo di sindacalizzazione dell'associazionismo dei lavoratori. Tutto ciò ha liberato grandi potenze politiche nelle linee del conflitto di classe, ma allo stesso tempo ha cancellato altre immagini potenziali di cambiamento.
Il cooperativismo socialista rappresentò la forma di egemonia dei partiti del socialismo nella sfera economica, nelle aree del consumo, del lavoro e del credito. Il mutualismo spontaneamente sorto tra i lavoratori, le loro famiglie, nell'intero cosmo sociale popolare messo in pericolo dall'industrialismo e dall'utopia della società di mercato divenne la fonte del poderoso sindacalismo europeo, nelle sue forme anche divergenti ( dal sindacalismo prevalentemente politico e socialista del continente al socialismo prevalentemente sindacale affermatosi in Gran Bretagna).
La scelta della lotta politica fu determinante, quindi, per il radicamento e l'affermazione delle forze politiche del socialismo; e per essa giocarono un ruolo essenziale le posizioni "gregarie" assunte dal cooperativismo e dall'associazionismo operaio in genere. Ciò volle dire, egualmente, cancellare le esperienze di nuova società e le prefigurazioni di nuove forme di organizzazione del lavoro che tali esperimenti avevano cominciato ad accendere. Tali rotture e scelte di lotta vollero dire imporre Lassalle e la "scalata" allo Stato obliando Fourier ed Owen, la ricerca e l'utopia sociale.
Certo, la scelta tra i due percorsi di questa biforcazione della storia può sembrare equivalente, un momento prima che questa avvenisse, solamente nella nostra visione telescopica, retrospettiva. Forse non poteva accadere altrimenti, né in altro modo poteva decidersi il conflitto che opponeva l'una all'altra tendenza. Ciò non toglie, però, che nell'oggi una comprensione storica ed un istinto politico di trasformazione debbano riprendere in mano proprio quel passaggio dirimente, quelle scelte e tendenze che non emergono semplicemente come caratteri politici e sociali unici e rinchiusi nel periodo in cui vennero ad evidenza. Viceversa, ciò che la visione retrospettiva ha in potenza liberatoria è racchiuso nella riemersione di un'opzione potenziale, di una duplicazione del piano storico-sociale, per affermare che l'unica fine possibile della storia in quanto passato è nelle linee di instaurazione del divenire. La sperimentazione di cui queste pagine sono un auspicio instaura un piano autonomo nel quale la produzione è delegata né allo Stato né al mercato, ma neppure ad una generica e vaga guida da parte della "società civile" delle professioni o ad essa "nel suo complesso", non potendosi individuare nell'immediato adeguate forme di democrazia politica diretta.
La vitalità profonda delle esperienze associazionistiche popolari e operaie del secolo XIX non ha mai cessato di vibrare. Gli utensili da adottare per un superamento del capitalismo nei tempi del post-fordismo sembrano contemplare anche queste forme del fare società, in opposizione alle macchine di Stato e Mercato; ed i pericoli non sembrano essere differenti: posti sul confine tra il movimento e l'esperimento permanenti e l'arresto del movimento, l'irregimentazione delle Autonomie sociali, la disciplina e la dilazione delle gratificazioni per i singoli.
Detto ciò, continua ad esservi un'enorme problema di forme: forme della politica, della produzione, del senso. E può spettare solo ad un vasto esperimento collettivo il compito di avviare una catena di atti risolutivi in questa direzione. L'intreccio indissolubile tra i nuovi status, il nuovo Lavoro ed i nuovi conflitti nel post-fordismo chiede forme organizzative che tengano il passo di questa complessità: forme reticolari e federative che leghino il conflitto aperto alla costruzione quotidiana di senso e nuovo immaginario, la produzione di "merci" vecchie e nuove alle potenze del nuovo Lavoro, anche in ciò non delegando nulla all'impersonalità dell'economia generalizzata.
Questi tentativi di riemersione di possibilità mai completamente esperite, per far schizzare da esse tutto il presente possibile, tornano ai fondamenti della lotta politica. L'inizio cui alludiamo è quello che stringe patti, che fa società, che invita nuove comunità politiche a divenire altro da ciò che sono state. I modi e i piani di questi inizi, plurali e attuali, atterranno probabilmente al metodo della sperimentazione permanente la cui materia prima saranno i rapporti sociali nella loro massima definizione ed intenzione. Un nuovo status, nuovo statuto di una soggettività politica, emergerà dai ritmi della complessità, dall'essere insieme in un progetto politico che non delega al mercato il soddisfacimento dei bisogni essenziali, relazionali; non relega allo Stato il perimetro della discorsività ed i luoghi di produzione di spazi politici pubblici; non limita la definizione di comunità ai tratti etnici, sovrasignificanti, aggressivi delle identità fortemente perimetrate che sorgono nelle nostre città e nelle "regioni" d'Europa.
Un progetto politico che aspetta nuove forme di vita.