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UN’ALTRA IDEA DELLA RIFONDAZIONE

Nel corso dell’estate non sono mancati i contrasti e le divergenze sul futuro del Prc. Molti di noi hanno espresso dubbi e contrarietà sulle ultime proposte del segretario – principio di maggioranza a proposito delle “primarie di programma”; “coalizione democratica”; distinzione tra la liberazione degli ostaggi in Iraq e il ritiro delle truppe; tavolo comune con il governo Berlusconi. Proposte avanzate quasi sempre con interviste sui giornali, spiazzando il partito e inibendo la discussione interna.. Alle nostre obiezioni si è risposto con sufficienza o con arroccamenti. Oppure esigendo da parte nostra la definizione di una precisa linea alternativa. Una richiesta legittima che ci spinge, volentieri, a precisare le nostre idee per il futuro di Rifondazione comunista e la nostra proposta per il dibattito congressuale che, di fatto, è già aperto.


Un’analisi diversa della fase


1. La trappola del “male minore”

Una dominante sembra attraversare la politica internazionale, quella del male minore. Dalla campagna per Kerry negli Usa all’insegna dell’Anyone but Bush (Chiunque ma non Bush) alla necessità di battere Berlusconi affidandosi a Prodi; dall’alone magico che sembra circondare Zapatero alla rinascita dei socialisti francesi, la questione di un’alternativa elettoralmente credibile all’aggressività delle destre sembra impossessarsi del dibattito politico vincolando anche le dinamiche delle sinistre alternative e antisistema. Questa condizione, sotto la quale affronteremo tutta la prossima fase, esprime piuttosto sinteticamente il quadro dei rapporti di forza attuali e indica la connessione esistente tra cinque elementi centrali:
la crisi, sul piano ideologico e del consenso, delle società capitalistiche occidentali che si accompagna alla crescita strutturale dei movimenti di contestazione di cui l’arco di mobilitazioni cresciuto esponenzialmente da Seattle in avanti segna solo la prima fase.
la contestuale insufficienza dell’azione dei movimenti che, ancora privi di vittorie e schiacciati dalla scelta elettorale del “male minore”, incontrano difficoltà nel mutare i rapporti di forza sociali;
la rinnovata pericolosità dell’azione delle destre, diverse tra loro ma unificate dalla gestione bellica dell’attuale fase di globalizzazione capitalistica;
la sostanziale omogeneità al sistema capitalistico delle sinistre moderate, che preferiamo definire liberali:
l’attuale insufficienza della “sinistra alternativa” che non è ancora riuscita ad uscire dalla fase di “minorità” ideale e programmatica, in cui la sconfitta del Novecento l’ha gettata, ma anche a prospettare un progetto politico che contenda alle “sinistre liberali” l’egemonia culturale sul movimento operaio;
E’ in questo quadro articolato che ci troviamo ad agire, scontando una difficoltà obiettiva, un imbuto in cui si trova la lotta di classe su scala globale, ma anche segnali di controtendenza importanti. Alla luce di questo quadro, nostra priorità è coltivare e rafforzare questi segnali di controtendenza: è su questa base che andranno misurati i passaggi tattici e le scelte politiche che saremo chiamati a operare.

2. Le devastazioni del liberismo

Niente, meglio della guerra, offre con chiarezza il volto dell’attuale stato del capitalismo globale e la funzione delle destre conservatrici. Scatenata in nome della “lotta al terrorismo”, la guerra globale – che nulla ha realizzato in termini di diminuzione della minaccia terroristica, cresciuta invece a dismisura – si presenta oggi come la risposta delle classi dirigenti più forti e voraci (in primo luogo l’imperialismo nordamericano) alla crisi dell’accumulazione globale capitalistica.
E’ sostanzialmente questa la fase aperta dall’amministrazione Bush: uno snodo della politica mondiale in cui le forze più risolute del capitalismo globale chiedono e spingono per una maggiore “efficienza” – ovvero limitazione della resistenza sociale e democratica – e una maggiore capacità di difendere privilegi e profitti. Il fatto che questa controffensiva avvenga in difesa di uno “Stato nazione” come gli Usa la dice lunga sul livello di improvvisazione, e di ideologia, che ha caratterizzato l’ipotesi della fine degli stati nazionali. L’offensiva Usa è destinata ad influenzare la realtà di altri stati, o gruppi di stati come l’Unione europea, che per reggerne l’urto dovranno adeguare la propria legislazione e le proprie politiche. L’aggressione “socialdemocratica” tedesca contro i lavoratori è già parte di questa reazione.

3. La crisi di consenso

A fronte di questo rinvigorimento dell’aggressività capitalistica, abbiamo invece assistito alla nascita di nuovi movimenti, portatori di un’ipotesi di cambiamento e di alternativa al liberismo stesso. La loro radice sembra potersi rintracciare soprattutto nella crisi ideologica di cui soffre il capitalismo su scala mondiale: la vulgata neoliberista non convince più, perde consensi da destra e da sinistra, e la contestazione globale mette il dito sulla piaga di un sistema di valori poco convincente che deve essere imposto con la forza. Il mondo sembra quindi trovarsi di fronte a una “competizione asimmetrica”: da un lato avanza il neoconservatorismo di matrice neocons, dall’altro una timida, e incomparabilmente più debole, speranza di cambiamento.

4. Il neoimperialismo Usa

La rinnovata aggressività degli Stati Uniti si configura come una nuova e più aggiornata forma di imperialismo che mira a reagire alla crisi dell’accumulazione e del consenso.
In nome della “lotta al terrorismo” la nuova amministrazione Bush ha rilanciato il proprio progetto di dominio, imponendo i suoi tempi, i suoi ritmi, e i suoi interessi, all’intero pianeta. E’ ciò che va sotto il nome di “unilateralismo” ma che, di fatto, inaugura una nuova forma di dominazione imperialistica. Il meccanismo di rapina delle risorse primarie resta identico – il petrolio dell’Iraq è un bene fondamentale per reggere la competizione globale, le spese militari restano un volano dell’economia, lo sbocco su nuovi mercati resta importante ai fini della sovrapproduzione – ma il neoimperialismo si propone come obiettivo principale il sostentamento della propria supremazia tramite il finanziamento del debito interno e commerciale con cui gli Usa sorreggono i propri consumi e il proprio livello di accumulazione.

5. Terrorismo e resistenze

In questa dinamica la variabile terroristica rappresenta un attore importante da non sottovalutare e non semplicemente riconducibile all’iniziativa imperialistica. Il terrorismo, o meglio i terrorismi, di matrice islamica, rappresentano un’opzione politica precisa, con forme e linguaggi propri e si propongono di gettare un’ipoteca sulle stesse società musulmane con l’obiettivo di conquistarne la direzione politica. Nondimeno, il terrorismo, pur possedendo un’autonomia politica, si nutre delle politiche portate avanti nei paesi poveri dagli Usa e dall’Europa, della disperazione, della miseria, della fame e della devastazione prodotte nel cosiddetto “terzo mondo”. In questo senso, se è vero che il terrorismo si alimenta e cresce grazie alla “guerra permanente”, non è vero il contrario, non è vero cioè che la guerra si spieghi con quel terrore. Certamente, se ne serve in termini propagandistici ma poggia su una legge interna, su un meccanismo di crescita proprio che la sorregge. Così come non è vero che il “terrorismo” riassuma forzatamente in sé tutte le variabili possibili di “resistenza” alla guerra. Non esiste dunque una “spirale”, ma una strategia imperialistica cui si contrappongono diverse resistenze – popolari, armate e terroristiche – delle quali l’ultima esprime soggettività e finalità politiche inaccettabili. Per questo non “scegliamo” tra i soldati Usa e i “tagliatori di teste” ma pensiamo che combattere i primi sia anche un modo per isolare i secondi. E non “distinguiamo” mai il ritiro delle truppe da altre rivendicazioni, perché è quella la soluzione più efficace per affrontare il problema iracheno.

6. Destra e centrosinistra, oggi

Dalla vittoria repubblicana negli Usa, questa strategia si serve soprattutto di governi di destra. Ancora oggi, meglio di governi “democratici” o “progressisti”, le destre incarnano la necessità mortifera di una competizione selvaggia, rappresentano meglio gli interessi di una competizione tra “stati” e tra “capitalismi diversi, esprimono la tendenza alla rottura della fase espansiva della globalizzazione.
Il centrosinistra, per la sua cultura, storia, radicamento sociale, non può essere accomunato alle destre. Ma cerca comunque di ricostruire le condizioni politiche per una nuova fase “collaborativa” tra le forze sociali e tra blocchi di stati. Il centrosinistra internazionale chiede maggiore cooperazione, concertazione, multilateralismo, sognando un “internazionalismo liberale” che oggi cozza con le necessità impellenti del capitalismo in crisi.
In realtà il centrosinistra, sia a livello internazionale che italiano, punta a costituirsi come carta di ricambio delle destre nella gestione delle politiche liberali.

7. Chiusa una fase del movimento

L’argomentazione principale dell’attuale linea di maggioranza del Prc, invece, è che grazie al contributo dei movimenti possiamo spostare la linea complessiva delle opposizioni a Berlusconi e provare a costruire una “coalizione democratica” che non sia solo la sommatoria di forze politiche ma un’aggregazione più poliedrica e per questo più efficace.
Ma come stanno i movimenti?
La risposta a questa domanda deve evitare sia una visione provinciale, ché il movimento è per lo più internazionale, sia una confusione tra movimenti e loro rappresentanza. Inoltre, è bene ricordare che i movimenti di questi anni hanno agito dentro la crisi di consenso del liberismo, accentuandola e proponendosi come portatori di un’alternativa, cui finora si è solo alluso. Qui sta la loro principale caratteristica, che ha coinciso con la spiccata natura etica delle mobilitazioni: la ricerca di “un diverso mondo possibile” in luogo di uno attuale che non funziona, e non convince più. Questa fase oggi è alle nostre spalle. I movimenti di contestazione hanno chiuso un primo ciclo che, solo per comodità, potremmo fissare nell’arco di lotte compreso tra Seattle e il 15 febbraio: tra il “grido” di cui parla Holloway – l’affermazione del No all’esistente – e l’individuazione della Pace come valore etico fondante un possibile “altro mondo”.
La contestazione del movimento ha però permesso il risveglio di miriadi di lotte sociali: in Germania, Francia, Spagna, in Asia, America latina, negli stessi Usa, e in Italia, il conflitto operaio e sociale è tornato a farsi sentire grazie a un clima diverso e a una diversa potenzialità espressa dal movimento internazionale. Quello che però ancora manca sono delle vittorie, anche parziali. Esiste la necessità di elaborare un’offensiva, anche sul piano programmatico, per ottenere avanzamenti reali della lotta di classe, strappare conquiste significative, realizzare un nuovo clima di fiducia e di slancio delle lotte stesse. Questo obiettivo, ovviamente, non può essere realizzato a tavolino, dalla semplice disposizione del partito, anzi può essere praticato solo dall’iniziativa autonoma delle mobilitazioni, dalla loro crescita e autorganizzazione, dalla sperimentazione di una democrazia partecipata a partire dalla definizione degli obiettivi medesimi. Ma la determinazione del partito a essere interno a questo percorso, a contribuire con le sue risorse, i suoi collegamenti, i suoi inserimenti internazionali, è un contributo necessario.

8. Un’altra idea della sinistra alternativa

L’espansione delle lotte, il loro radicamento, l’ottenimento di vittorie rappresenta un percorso decisivo anche per consolidare una soggettività anticapitalistica più avanzata di quella attuale. Invece, finora, il dibattito sulla sinistra alternativa è sembrato motivato solo dall’urgenza di realizzare un accordo di governo, cui arrivare con un fronte “alternativo” più forte, coeso e omogeneo possibile. La sinistra di alternativa, al contrario, ha senso se coglie la domanda di spazio politico antiliberista e antiguerra che da Seattle, passando per Porto Alegre e Genova, Firenze e Mumbai, ha permesso di ricostruire una critica alla forma attuale del capitalismo, il liberismo, e al suo prolungamento imperiale, la guerra. Per questo un simile progetto dovrebbe individuare nel conflitto sociale il proprio processo costituente, a partire dal prossimo autunno: la costruzione di un ampio fronte politico-sociale che assuma il compito della cacciata di Berlusconi è premessa di qualsiasi accordo di programma o di convenzione programmatica.
Una Consulta della sinistra antiliberista e dei movimenti è quindi molto più urgente delle primarie con Prodi.

Un’altra linea politica

La nostra proposta, dunque, oggi si compone di quattro tasselli:

- la costruzione di un movimento di massa capace di opporsi alle destre e quindi di batterle;

- la realizzazione, per questo obiettivo, di un’unità sociale delle sinistre, e dei lavoratori/lavoratrici in primo luogo;

- la sedimentazione di una più forte sinistra alternativa che trovi al suo interno, e non nel rapporto con la sinistra liberale, le
ragioni per stare insieme e definire così un programma di emergenza sociale per uscire dalla crisi;

- un confronto programmatico aperto senza conclusioni precluse in cui sia solo la serietà e affidabilità antiliberista del program
ma a definire alleanze, anche tecnico-elettorali, capaci di battere le destre.

9. Cacciare Berlusconi

Nel dibattito che attraversa l’intero arco delle opposizioni questa semplice verità sembra rimanere sullo sfondo. Si discute di formule, di candidati-premier, di primarie ma non si discute mai dell’agenda dell’autunno, di come realizzare l’opposizione sociale alla guerra e al liberismo che il governo continua a veicolare con molta determinazione.
Le elezioni europee hanno determinato certamente una crisi verticale del berlusconismo, ma hanno anche mostrato come la maggioranza, nel suo complesso, sia riuscita a limitare i danni. Il centrodestra ha perso un riferimento politico ma non è stato scompaginato socialmente. E’ evidente, quindi, che per provocare la crisi del governo occorre contrastarlo sul piano sociale, partendo dall’opposizione alla Finanziaria, dalla riproposizione della centralità del salario, incuneandosi nello scontro, tutto strumentale e a fini interni, sulla Bossi-Fini e, soprattutto, non concedendo tregua sulla guerra. I punti fondamentali dell’opposizione a Berlusconi sono dunque tracciati sul terreno dello scontro politico. Spetta all’opposizione, ai movimenti, ai sindacati raccoglierli e svilupparli nei mesi a venire.

10. Competere con l’Ulivo

La domanda legittima che bisogna porsi in questa prospettiva è: qual è l’ipotesi politica perseguita dal gruppo dirigente dell’Ulivo? Qual è il suo progetto e quanto è convergente con quello di Rifondazione o dei movimenti sociali? In realtà, al pari del centrodestra, anche il centrosinistra vive una crisi interna. Il progetto di lista unitaria dell’Ulivo non è decollato appannando la leadership di Prodi (curiosamente insidiata da Rutelli). Non si è ricucito del tutto il rapporto con organizzazioni importanti come la Cgil. Non si è placata la competizione tra Ds e Margherita che ha come ragione primaria la corsa ad alcuni gangli del potere ma anche un’egemonia su tutta la coalizione. Insomma, anche per l’Ulivo sono mesi di convulsioni e di dibattito interno. Quello che è chiaro, però, è che il cosiddetto Triciclo non rinnega la sua internità alle politiche liberiste e a una visione multilaterale della guerra. Il suo orientamento si fonda sulla proposta di un centrosinistra gestore, più “temperato” e morbido, degli interessi del mercato e della versione multilaterale (leggi Onu) del pianeta. Non c’è terreno su cui Ds e Margherita propongano uno scarto, una rottura, anche timida, con l’impianto liberista seguito da oltre un decennio.

11. Unità, ma nel movimento

Non c’è dubbio che il problema della relazione con questo Ulivo, con questo centrosinistra, è pressante e inaggirabile. Ce la chiedono i lavoratori, per i quali l’unità è un bene per difendersi dagli attacchi del capitale. Ma, proprio per questo, l’unità che immaginiamo è quella che si consolida a partire dalle istanze di movimento, dai luoghi del conflitto sociale, là dove si può e si deve delineare una piattaforma che misuri oggi l’unità possibile contro il governo. Se davvero si vuole fare l’opposizione a Berlusconi, i partiti del centrosinistra devono raccogliere la spinta alla mobilitazione che proviene dal basso, dalle lotte sindacali, da quelle contro la precarietà, contro la guerra, contro il razzismo.
Questa unità è propedeutica a qualsiasi altra unità, politica o elettorale che sia. L’unità delle sinistre, se non vuole ridursi a un mito, a una pressione o a una finzione, deve prima misurare le sue condizioni nel vivo del conflitto sociale. Anche per questo, la nostra priorità assoluta rimane la costruzione del movimento, dei movimenti.

12. Un’altra idea del programma

Non si ricostruisce una nuova soggettività critica senza un’idea di programma, cioè di società alternativa. Il compito della sinistra alternativa, ma anche di Rifondazione (che dovrebbe discutere al suo interno di questioni programmatiche) si pone a questo livello. La crisi del capitalismo, italiano e internazionale, oggi richiede una risposta all’altezza della crisi. Serve quindi un’idea forza, un’ispirazione che può essere mutuata da uno degli slogan più efficaci del movimento - riappropriamoci del nostro mondo:
riapppropriazione delle risorse produttive, energetiche e naturali da realizzarsi transitoriamente con la “nazionalizzazione” di alcuni gangli produttivi e di rete e con la socializzazione e il controllo democratico sui cosiddetti “beni comuni”;
riappropriazione del tempo e delle forme di lavoro a partire dal superamento della precarizzazione, dal recupero sul salario – anche attraverso forme innovative di scala mobile - e attraverso il controllo democratico da parte dei lavoratori e lavoratrici sulla contrattazione e sulla vita lavorativa (compresa la pensione);
riappropriazione del futuro con la messa a bando della guerra (Onu o non Onu) a partire dall’assottigliamento delle spese militari, dalla “bonifica” militare del territorio e dal rigetto di qualsiasi ipotesi di esercito europeo.
Non ci convince, quindi, una concezione “statica” del programma, diviso tra minimo e massimo. L’ipotesi di un accordo “minimale”, comprensivo di quello che è possibile oggi mentre ci si prepara al programma “massimo”, è un meccanismo che ha già portato il movimento operaio all’omologazione e alla sconfitta. Il programma accettabile è invece quello che contiene ora elementi anche parziali di rottura che configurino una prospettiva auspicabile: la riduzione dell’orario di lavoro, la scala mobile, la nazionalizzazione di alcuni segmenti produttivi, la riduzione delle armi e delle spese militari, l’inversione della politica delle privatizzazioni; segnali evidenti di un cambiamento di direzione, di un’inversione di tendenza. Altrimenti, meglio pensare a soluzioni tecnico-elettorali capaci di battere Berlusconi ma senza mescolare tra loro ingredienti non mescolabili.

13. Consultazione e primarie

Questo dibattito è stato finora monopolizzato dalle proposte più varie: “primarie di programma”, “primarie sui candidati”, “assemblea costituente”, “coalizione democratica”. Nessuno contesta il valore della democrazia partecipata. Abbiamo studiato sufficientemente l’esperienza di Porto Alegre per non accettare lezioni. Ma se la mossa della candidatura di Bertinotti alle eventuali primarie del centrosinistra ha saputo incunearsi nelle contraddizioni dell’Ulivo, perché portatrice di un programma alternativo, aver offerto la disponibilità - su un tema come la guerra, anzi sul ruolo dell’Onu nelle presunte missioni di pace - a sottomettersi alla volontà di una maggioranza, per quanto di massa, è stato un errore. Un partito che voglia difendere una scelta strategica, infatti, anche se finisce in minoranza dice «grazie non ci sto». L’autonomia si costruisce anche così.
Nel caso della coalizione democratica, invece, si è scelto un terreno “politicista” che, sia pure simbolicamente, rimanda l’immagine di un’internità del Prc all’attuale centrosinistra. Una proposta che rischia di dare vita a un percorso precostituito che inficerebbe la stessa ipotesi di un confronto programmatico aperto.


14. Un’altra idea del partito

In una fase in cui il progetto della Sinistra alternativa può acquistare una certa consistenza, sarebbe un grave errore sottovalutare l’importanza e l’utilità dello strumento-partito. Il partito infatti è l’elemento inaggirabile per costruire un “filo a piombo” dell’azione politica, l’unità dialettica tra il patrimonio intellettuale depositato da decenni di elaborazione teorica e politica e il farsi concretamente della lotta di classe.
Da decenni si discute della crisi della forma-partito. Non è vero che il concetto di partito sia andato in crisi. E’ un preciso partito che è andato in crisi. Il partito degli apparati e delle burocrazie, basato sull’autoritarismo dei gruppi dirigenti. E’ in crisi il partito senza programma, senza strategia, che quindi improvvisa i propri passi, ricorre al tatticismo esasperato e alla navigazione a vista. E’ in crisi il partito-istituzione, il partito di “lotta e di governo”, che non costruisce lotte, non ha radicamento, ha paura del movimento.
Non è in crisi, invece, un partito che abbia come obiettivo la ricostruzione del soggetto-movimento e che quindi a questo dedica gran parte delle sue energie. Un partito che sa di essere distinto ma vicino ai movimenti sociali e che riconosce che la sovranità della trasformazione appartiene a quelli, alle strutture di contropotere democratico che sono in grado di darsi e di affermare.
Un partito che pensa e propone, quindi, collettivamente e in forma organizzata. Lo fa rispettando le sue diversità, lasciando libertà di espressione, anzi organizza democraticamente tale libertà, accettando la costituzione di tendenze o di aree, legate, nella regolamentazione del loro rapporto reciproco, a una comune visione programmatica e strategica.
Questo partito è un partito principalmente di lotta e non di governo. Non perché non voglia porsi il problema del governo, semplicemente perché ritiene che il secondo sia il frutto dell’esito di un ciclo prolungato e vincente di lotte, tali da costituire le condizioni minime per gestire un sistema sociale ed economico. Il governo non può che essere l’esito combinato di una rottura con l’ordine esistente, frutto di un protagonismo eccezionale e di istituti di contropotere, collocato in un contesto internazionale non ostile. Senza queste condizioni, minime, il governo si risolve rapidamente in adattamento all’esistente.

15. Un’altra idea dell’innovazione

L’innovazione deve essere innanzitutto partecipazione al dibattito. Non esiste un soggetto collettivo, né formazione di adeguati gruppi dirigenti, senza costruzione collettiva delle opinioni e della linea politica. Da questo punto di vista, il metodo dei “fatti compiuti” a mezzo stampa, tradizionalmente scelto dal segretario, non aiuta ma indebolisce e frustra le potenzialità interne. Quello che va evitato è il “solipsismo” dei gruppi dirigenti, che prendono decisioni senza coinvolgimento del quadro attivo, senza consultazioni né confronti di idee diverse. Ma soprattutto senza rispondere del proprio operato mai messo a verifica collettivamente. Il gruppo dirigente del partito vive di una delega permanente che lo rende “irresponsabile” dei propri atti e, alla lunga, autoreferenziale. L’innovazione, infine, è anche un’idea più compiuta dell’appartenenza che non può essere identitaria ma programmatica, correlata a una visione “strategica” del nostro progetto. Solo così si può procedere a aggregazioni più ampie, all’apertura del nostro lavoro quotidiano, alla realizzazione di progetti èiù ampi. Non serve un partito per il quale essere comunista rappresenti un’identità individuale ma l’appartenenza a un progetto collettivo di trasformazione.