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![]() NOTIZIE EST #12 - JUGOSLAVIA / MONTENEGRO 11 gennaio 1998 MONTENEGRO: UNA CRISI POLITICA ESPLOSIVA La repubblica del Montenegro, che con la Serbia forma la federazione jugoslava, è attraversata ormai da quasi un anno da una forte crisi politica, che potrebbe drasticamente radicalizzarsi in questi giorni, con il passaggio dei poteri dal presidente uscente Bulatovic al neoeletto Djukanovic (ma l'elezione di quest'ultimo è stata aspramente criticata dal suo predecessore), previsto per il 15 gennaio. Il sostanziale equilibrio delle forze (almeno per il momento) tra le fazioni rivali, lo stretto legame tra la situazione montenegrina e quella serba all'interno della federazione jugoslava, la disastrosa situazione economica, la posizione geografica del paese, che confina con i maggiori punti di instabilità dei Balcani e, infine, i sempre vivi interessi internazionali nell'area, lasciano pensare che la crisi montenegrina difficilmente troverà una soluzione stabile entro tempi brevi. Il riassunto dell'evolversi di questa crisi che riportiamo qui sotto si basa soprattutto su materiali della agenzia di stampa balcanica AIM, che ha corrispondenti anche nella capitale montenegrina Podgorica (ex-Titograd). Abbiamo tuttavia utilizzato anche altre numerose fonti dell'area balcanica e internazionali. **** Il retroterra storico "Dal 1945 il Montenegro è una delle sei repubbliche della Repubblica Federativa Socialista Jugoslava (SFRJ) e dal 27 aprile 1992 è entrato a fare parte, come partner della Serbia, della Repubblica Federativa Jugoslava. Sebbene la sua superficie sia di appena 13.812 km2 [poco più del Trentino Alto-Adige - a.f.] e la sua popolazine sia di soli 650.000 abitanti, grazie all'inserimento del Montenegro nella terza Jugoslavia, la Serbia ha potuto dichiararsi erede della SFRJ con tutte le conseguenze che ne derivano a livello internazionale. Oltre a ciò, il Montenegro assicura alla nuova Jugoslavia l'unico sbocco sul Mare Adriatico, costituito dal porto di Bar", così introduceva il suo articolo sulla crisi montenegrina il quotidiano bulgaro "Kontinent" nel mese di ottobre. "Questi fatti spiegano l'importanza della piccola repubblica balcanica per la Jugoslavia e i timori che suscita nella federazione ogni sua espressione di separatismo. [...] Incoraggiati soprattutto dall'Italia, con la quale il Montenegro ha legami storici, i partiti di opposizione montenegrini chiedono l'uscita del paese dalla federazione e la sua proclamazione a repubblica indipendente [...] suggerendo che il Montenegro si meriterebbe un destino molto più invidiabile di quello attuale e che un domani potrebbe diventare una "Montecarlo balcanica". Maggiori particolari sui "legami storici" con l'Italia li riferisce l'americana Barbara Jelavich, nella sua storia dei Balcani: "La quarta figlia [del re montenegrino Nicola] sposò Vittorio Emanuele III e divenne così regina d'Italia. [...] In questo periodo [cioè a cavallo tra l'800 e il '900 - a.f.] la Russia era il maggiore fattore di sostegno al Montenegro, [...] ma l'influenza italiana era in crescita. Le imprese italiane ottennero il diritto di costruire il porto di Bar, conquistarono il monopolio sulla produzione di tabacco, nonché una concessione per la costruzione della ferrovia tra Bar e Virpazar". [...] "I vicini immediati, l'impero asburgico e l'Italia, guardavano al paese come a un potenziale da sfruttare ed erano determinati a non consentire allo stato alcun tipo di influenza sull'Adriatico". Nel 1941, nel contesto della spartizione della Jugoslavia tra Germania e Italia, il Montenegro rientra nell'area di controllo di quest'ultima: "in un primo momento gli italiani cercarono di dare vita a un regno di facciata [...] cercando di sfruttare i sentimenti della fazione separatista e il fatto che la regina d'Italia fosse figlia dell'ex-re Nicola. L'intenzione degli italiani era quella di dare vita a un'amministrazione autonoma montenegrina che gestisse i loro affari, ma i loro sforzi rimasero completamente senza successo e incontrarono la resistenza armata di numerosi ribelli. Solo nel giugno del 1942, con l'aiuto dell'Albania, l'Italia riuscì a riprendere con mezzi militari il controllo del Montenegro, dando immediatamente il via ad ampie repressioni". Riguardo ai rapporti storici con la Serbia, il quotidiano di Belgrado "Nasa Borba" scrive che "durante il XX secolo il Montenegro è stato teatro di due fondamentali idee e tendenze: quella grande serba, che si esprime in una politica di denazionalizzazione e di destatualizzazione del Montenegro, cioè nel tentativo di piegarlo alla politica statale grande serba, e una [...] di difesa dell'identità montenegrina, cioè di salvaguardia di uno stato montenegrino, all'interno di una federazione o in completa autonomia. Fino a oggi questo conflitto è stato risolto principalmente con mezzi non democratici, e questo in due occasioni. Nel 1918, nel contesto degli esiti della Prima guerra mondiale, il Montenegro è stato forzatamente costretto a unirsi alla Serbia, mentre nel 1945 è tornato ad acquisire una sua statualità all'interno della SFRJ, dopo la sconfitta in guerra della corrente unitarista a opera dei partigiani comunisti". Nel 1988, sull'onda della scalata al potere di Milosevic, in Montenegro giunge alla guida della Lega dei Comunisti una nuova generazione di giovani quadri, due dei quali consolideranno definitivamente il loro potere nei giorni della dissoluzione della Jugoslavia e dell'inizio della guerra. Si tratta di Momir Bulatovic e Milo Djukanovic, i quali nel 1990 e 1991 verranno eletti rispettivamente presidente della repubblica e primo ministro del paese e agiranno da allora, fino alla crisi degli ultimi mesi, in perfetta sintonia all'interno della DPS (il Partito Democratico dei Socialisti, erede della Lega dei Comunisti jugoslava e parallelo al partito socialista serbo di Milosevic). Djukanovic al momento della nomina a primo ministro ha solo 28 anni - il più giovane nella storia d'Europa ad accedere a tale carica. L'inizio della crisi E' nei primi mesi del 1997 che la crisi scoppia in maniera evidente, in un momento in cui Belgrado è attraversata da un imponente e lunga ondata di manifestazioni studentesche, nella vicina Albania è in corso la ribellione armata contro Berisha e nella non lontana Bulgaria la destra conquistava il potere con violente azioni di piazza. Ma già in precedenza si erano evidenziati segnali di screzio con Belgrado: durante il periodo delle sanzioni erano state erette barriere al confine tra Serbia e Montenegro per evitare l'"esportazione" illegale di prodotti alimentari da una repubblica all'altra. Successivamente Podgorica aveva unilateralmente facilitato la concessione di visti ai turisti e dato vita a una propria compagnia aerea di bandiera e lo scontro si era poi fatto ancora più aperto con la formulazione di diverse concezioni rispetto all'adozione di una legge sulle privatizzazioni (con l'intenzione del governo montenegrino di adottare una serie di normative atte a fare della repubblica un "paradiso fiscale" adriatico). Lo scontro si è fatto aperto quando il governo montenegrino di Djukanovic è passato a esprimere apertamente l'intenzione di aderire autonomamente al FMI e alla Banca Mondiale (chiedendo a tale scopo "il patrocinio dell'Italia", come ha raccomandato a febbraio Zeljko Bogetic, esperto montenegrino della Banca Mondiale), liberandosi così delle sanzioni che ancora colpiscono la Federazione Jugoslava e che la escludono dalle organizzazioni finanziarie internazionali. Lo stesso Djukanovic ha poi inviato un telegramma di sostegno agli studenti serbi che manifestavano contro Milosevic, definendo qualche giorno dopo quest'ultimo, in un'intervista al settimanale di Belgrado "Vreme", "un leader politico che ha fatto il suo tempo". A tutte queste mosse il presidente Bulatovic ha risposto con frequenti visite al proprio collega serbo, fino a firmare con lui un "accordo per rapporti speciali e paralleli" destinato a rendere più salde le relazioni tra le due repubbliche. La crisi si è così trascinata per alcuni mesi in un conflitto aperto, caratterizzato da successi alterni dei due protagonisti. Bulatovic, che trova il maggiore sostegno nei centri rurali, ma anche nella capitale Podgorica, è riuscito in aprile a prendere il sopravvento nel DPS, ottenendo le dimissioni di Djukanovic da vicepresidente del partito e, in parallelo, quelle di alcuni membri del governo (tutti del DPS, che gode di una larga maggioranza assoluta in parlamento) più vicini a Djukanovic, in particolare del vice-premier Drljevic, che voleva l'introduzione di una valuta montenegrina. Me negli stessi giorni Djukanovic è riuscito a portare decine di migliaia di persone nelle piazze a suo sostegno, secondo l'agenzia AIM organizzate con l'aiuto della polizia e dei servizi segreti, strettamente sotto il controllo del primo ministro, il quale tuttavia ha goduto anche del sostegno diretto dei sindacati e delle organizzazioni degli studenti. Bulatovic continua ad avere alle sue spalle l'importante appoggio dei media statali di Belgrado e della televisione montenegrina, mentre a favore di Djukanovic sono tutti i giornali dell'opposizione di Belgrado e tutti i principali organi di stampa del Montenegro, come l'unico quotidiano del paese, "Pobjeda". A maggio lo scontro si è spostato sul controllo dei servizi segreti, in mano al primo ministro Djukanovic, un'arma importantissima nel conflitto politico e istituzionale e che il presidente Bulatovic ha cercato a più riprese, attraverso i suoi uomini nella DPS e in parlamento, di strappare al controllo del suo avversario, riuscendoci a maggio con la creazione di un sistema di supervisione a tre livelli: Primo Ministro, Consiglio di Sicurezza presso il Presidente e Parlamento. Bulatovic però è stato costretto a incassare, poco più di un mese dopo, la perdita del controllo sulla TV di stato, uno strumento di propaganda essenziale per le ormai imminenti elezioni presidenziali di ottobre. Pochi giorni dopo, l'11 luglio, la direzione della DPS lo revoca dalla carica di presidente del partito e sceglie Djukanovic come candidato ufficiale della DPS per le elezioni presidenziali. I due rivali arrivano così in condizione di sostanziale parità allo scontro elettorale di ottobre per la presidenza della repubblica. Il conflitto tra i due leader, va tuttavia situato nel contesto politico ed economico più ampio di questi anni. I suoi primi segni si sono evidenziati dopo il cessare delle ostilità in Bosnia in seguito agli accordi di Dayton. La guerra era stata un fattore di omogeneizzazione sia tra la Serbia e il Montenegro, che all'interno della stessa società montenegrina. E a proposito della guerra, va ricordato anche che Bulatovic vi ha avuto un ruolo non indifferente, avendo guidato la Difesa Territoriale del Montenegro nella spedizione contro la città croata di Dubrovnik durante la quale i suoi uomini, insieme a gruppi di "volontari", hanno incendiato e saccheggiato case. Bulatovic inoltre è stato durante tutto il periodo della guerra jugoslava membro permanente, accanto a Milosevic, del Consiglio Superiore della Difesa della Federazione jugoslava. Gli accordi di Dayton hanno anche segnato la cancellazione di una buona parte delle sanzioni economiche contro la Jugoslavia. Durante il periodo dell'embargo, il Montenegro è stato uno dei principali centri delle attività di contrabbando, che hanno consentito ai clan dei due leader montenegrini di accumulare fortune enormi [Djukanovic, in particolare, controllerebbe l'ancora fiorentissimo contrabbando di sigarette verso l'Italia, secondo l'agenzia AIM] - ora le due fazioni hanno intenzioni del tutto diverse su come "investire" i capitali così accumulati: mentre Bulatovic e i suoi vogliono proseguire la collaborazione con i socialisti di Belgrado (sfruttandone l'appoggio politico e istituzionale), adottando una politica di privatizzazione con un forte controllo statale e manageriale, Djukanovic e il suo clan optano per un Montenegro che costituisca per gli investitori esteri un "paradiso fiscale" e per la piena apertura ai capitali internazionali, contando sull'appoggio politico degli Stati Uniti e dell'Italia. La situazione economica nel paese è comunque gravissima. Secondo i sindacati 15.000 lavoratori sono in ferie forzate, 26.000 non ricevono regolarmente lo stipendio, mille dei quali non lo ricevono da più di un anno. Circa 1.000 imprese, con un totale di 20.000 dipendenti, sono sull'orlo del fallimento. Dall'inizio del 1997 lo stato non riesce a pagare le pensioni alle scadenze previste, mentre circa il 60% degli abitanti del Montenegro riceve qualche forma di assistenza statale. Aumenta anche il divario all'interno della Federazione: mentre in Serbia nel 1997 l'aumento della produzione è stato del 9,5%, in Montenegro è stato di appena lo 0,9%. Il paese è stato attraversato durante tutto l'anno da continui scioperi, organizzati tuttavia in maniera dispersa e poco decisa. "I lavoratori sono politicamente divisi, dispersi a causa delle ferie forzate, impauriti dal continuo parlare di eccedenze nella manodopera, i grandi collettivi di una volta sono stati spezzettati in unità più piccole e il più delle volte la prima vittima delle proteste dei lavoratori sono proprio i loro leader sindacali", scrive l'AIM il 24 aprile, aggiungendo che "l'abitudine di un tempo di spegnere gli incendi accesi dai lavoratori con dei pompieri subito pronti non può più proseguire. Non ci sono più i soldi per mettere a tacere le sommosse sociali". Il sindacato, i cui leader (ma non la base, come lasciano intendere i risultati delle elezioni presidenziali) appoggiano apertamente Djukanovic, reagiscono a questa situazione chiedendo l'apertura ai capitali esteri: "chiediamo che vengano immediatamente rimosse tutte le barriere politiche, in modo da potere integrare il Montenegro e la Jugoslavia nelle istituzioni finanziarie mondiali". Se non ci sono più soldi nel paese, bisogna cercarli all'estero. Le elezioni presidenziali e gli ultimi sviluppi Dopo una campagna elettorale tesa, contrassegnata da una guerra di spot (più patriottico e solenne Bulatovic, più giovane e dinamico Djukanovic) e da un ultimo accanitissimo duello televisivo, durante il quale i due rivali si sono reciprocamente lanciati accuse di collusioni mafiose, il 5 ottobre si è arrivati al voto. Bulatovic ha vinto di strettissima misura su Djukanovic, senza tuttavia conquistare la maggioranza assoluta e con la necessità quindi andare al ballottaggio. Djukanovic, in particolare, avrebbe conquistato i suoi voti grazie a una campagna con al suo centro "l'insistenza sui diritti delle minoranze, sulla società civile, sulle privatizzazioni, che gli hanno guadagnato i favori dell'intelligencija più 'avanzata', delle università, degli studenti e di quasi tutti i ceti medi, ma anche di chi basa i propri redditi sull'economia sommersa e sugli affari equivoci e si è rapidamente arricchito negli ultimi anni", scrive l'AIM il 4 ottobre, aggiungendo che "la ricchezza e lo sfoggio della sua campagna elettorale in stile americano lo hanno aiutato [...], ma hanno anche molto irritato gli strati più poveri dell'elettorato del DPS", che sono appunto quelli che gli hanno fornito il minor sostegno elettorale, preferendogli Bulatovic. Con il ballottaggio, il 20 ottobre, la situazione si capovolge e Djukanovic vince, ma anche lui, come al turno precedente Bulatovic, solo di strettissima misura, più precisamente con 174.176 voti contro i 168.864 del suo rivale, cioè per una differenza di poco meno di 5.500 voti (all'elezione ha preso parte il 75 per cento degli aventi diritto al voto). La bagarre scoppia quando si viene a sapere che al ballottaggio gli iscritti alle liste elettorali [al di fuori del normale conteggio dei decessi e dei nuovi maggiorenni] sono stati 7.805 in più rispetto al primo turno. E siccome la Commissione Elettorale è controllata dal governo, vale a dire da Djukanovic, Bulatovic ha avuto gioco facile ad accusare quest'ultimo di brogli, sebbene gli osservatori internazionali dell'OSCE avessero subito dichiarato regolari i risultati. Bulatovic, dopo essere subito volato a Belgrado a consultarsi con Milosevic, torna in Montenegro e chiama i suoi elettori a dimostrare nelle strade. Sono seguiti alcuni giorni di forte tensione, con migliaia di manifestanti nelle piazze e manifestazioni sostanzialmente pacifiche, se si eccettua un grave raid con spari d'arma da fuoco nelle zone abitate dalla minoranza albanese, a opera di gruppi individuati dalla maggior parte dei giornali come sostenitori di Bulatovic. Negli stessi giorni, il leader di uno dei partiti di opposizione che hanno sostenuto Djukanovic al secondo turno ha suscitato grande scalpore dichiarando in parlamento di essere stato informato che la NATO è pronta a intervenire a sostegno di Djukanovic. Da Bruxelles non sono giunte né conferme né smentite, in compenso Djukanovic è stato immediatamente invitato a compiere una visita ufficiale a Washington non appena si sarà insediato alla presidenza a metà gennaio. Un invidto identico è arrivato subito anche dall'Italia. La crisi montenegrina ha acquistato così rilevanza a livello internazionale. Ma anche a livello federale gli eventi di Podgorica hanno assunto un particolare rilievo: l'opposizione di Belgrado, indebolita dalle divisioni interne, ha cominciato a guardare a Djukanovic come all'uomo in grado di scalzare Milosevic dal potere. Djukanovic d'altronde negli ultimi tempi ha instaurato stretti contatti con Milan Panic (recandosi in visita presso la sua residenza in California) l'uomo d'affari che è stato in passato primo ministro della Serbia ed è strettamente legato all'amministrazione americana e che l'opposizione di Belgrado ha preso in considerazione come eventuale candidato alle elezioni presidenziali serbe dello scorso dicembre. Per Milosevic, invece, il controllo sul Montenegro rimane essenziale, nel momento in cui si sta facendo sempre più radicale la richiesta di indipendenza in Kosovo e, non meno importante, mentre si stanno avviando in Jugoslavia le privatizzazioni, che dovrebbero sancire la definitiva trasformazione del potere socialista in nuova classe capitalista. Dopo che Bulatovic aveva fatto domanda di revisione dei risultati elettorali presso la Corte Costituzionale del Montenegro, ottenendo una sentenza a lui contraria, la tensione è calata a dicembre, quando il parlamento ha deciso di tenere elezioni politiche anticipate nella prossima primavera, soddisfacendo così in parte le richieste di Bulatovic, che tuttavia continua a rifiutare di riconoscere il voto di ottobre. La situazione è tornata tesissima questo mese, con l'approssimarsi della data (il 15 gennaio) in cui ci dovrebbe essere il passaggio di poteri da Bulatovic a Djukanovic, che il primo rifiuta categoricamente di accettare. Negli ultimi giorni le posizioni delle due fazioni si sono ulteriormente radicalizzate. Il vice-primo ministro, un uomo di Djukanovic, ha affermato che con ogni probabilità si terrà un referendum sull'indipendenza del Montenegro. Bulatovic, da parte sua, si è fatto forte di una sentenza della Corte Costituzionale federale jugoslava, che ha dichiarato irregolari le elezioni del 20 ottobre, ma la Corte Costituzionale del Montenegro ha subito dichiarato anticostituzionale l'intervento dell'organo federale, definendolo un'"indebita ingerenza negli affari interni del paese". Il 9 gennaio la parte del DPS (ormai diviso) che continua a sostenere Bulatovic ha invitato i montenegrini a una grande manifestazione davanti al parlamento a partire da lunedì 12 gennaio, che dovrà durare fino a quando non sarà stata accolta la richiesta di annullare le elezioni di ottobre e non sarà stato posto rimedio alla "conquista del potere con mezzi illegali da parte di Djukanovic". Il quotidiano "Pobjeda" (controllato dal primo ministro) ha pubblicato ieri un articolo secondo il quale, durante una riunione del Consiglio di Difesa Nazionale, Bulatovic avrebbe affermato di non essere in grado di controllare "il movimento popolare", chiedendo l'introduzione nei prossimi giorni dello stato di emergenza. Sempre secondo "Pobjeda", i sostenitori di Bulatovic starebbero preparando un assalto alla TV, alla radio e ai maggiori mezzi di informazione e intederebbero organizzare blocchi stradali per impedire a Djukanovic di tornare giovedì 15 gennaio da Cettigne, dove si svolgerà la cerimonia della nomina a presidente della repubblica, alla capitale Podgorica. L'inizio delle dimostrazioni coinciderà con l'arrivo a Podgorica di Robert Gelbard, l'incaricato del presidente americano per la Bosnia (che ormai si occupa sempre di più anche del Kosovo e del Montenegro). Gelbard sarà latore tra l'altro di un messaggio del Gruppo di Contatto per la Jugoslavia (USA, Germania, Francia, Inghilterra, Russia, Italia) che riunitosi venerdì 9 gennaio a Washington ha dichiarato che "le elezioni del 20 ottobre in Montenegro esprimono la volontà del popolo". Le potenze occidentali, non ultima l'Italia, hanno negli ultimi tempi "scoperto" il peso strategico che ha il Montenegro nella regione (si veda a proposito dei progetti di certi ambienti americani l'articolo "Le elezioni portano il Montenegro in primo piano" pubblicato in questo sito), anche se in un momento come questo vi è forte timore per lo scoppio di un nuovo conflitto nella regione. Conclusione Dal quadro che abbiamo descritto sopra risulta difficilissimo prevedere quali esiti avrà nell'immediato la crisi. Ci sono tuttavia alcuni elementi che vanno sottolineati. Innanzitutto fino a oggi la crisi è stata tutta interna a una élite politica, in passato fortemente solidale e oggi spaccatasi sulle politiche istituzionali e sulle strategie economiche necessarie per garantire la propria sopravvivenza in futuro. Sono mancate mobilitazioni popolari spontanee che non fossero esclusivamente dovute alla macchina organizzativa delle due fazioni del partito al potere da anni, il DPS, e questo nonostante una disastrosa crisi economica, che ha ridotto di moltissimo il livello di vita della maggioranza della popolazione. Anche il livello politico dello scontro è molto basso ed è analogo a quello di molti altri paesi dei Balcani: da un lato una politica falsamente a difesa degli strati più bassi della popolazione e in realtà mirata a difendere con tutti i mezzi la creazione di una classe proprietaria "nazionale", erede della burocrazia del regime socialista, dall'altro il tentativo di inserire più direttamente le nuove élite (la burocrazia più tecnocratica del precedente regime insieme ai nuovi speculatori, con il sostegno dei ceti medi) nel sistema economico e militare mondiale. Paradossalmente, indipendentemente da chi vinca, gli effetti di questo scontro sono sempre simili: una maggiore dipendenza dalla élite economica locale e allo stesso tempo un'esposizione sempre più intensa e impotente ai grandi poteri militari e politici mondiali. Se a questo aggiungiamo, nel caso del Montenegro, una posizione geografica a contatto con tutte le aree di più forte crisi nei Balcani (Bosnia, Kosovo, Albania), avremo una crisi che rischia di avere effetti deleteri per tutte le popolazioni della penisola. (sulla base dei materiali pubblicati tra marzo e dicembre '97 dall'agenzia AIM e, inoltre, da: "Nasa Borba", "Kontinent", "Vreme", "Monitor", "Radio B92") |