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NOTIZIE EST #111 - BALCANI
18 novembre 1998


UNA MESSA A PUNTO SULLA SITUAZIONE NELLA EX JUGOSLAVIA
di Ilario Salucci

I lavoratori dei paesi balcanici hanno vissuto in questi ultimi dieci anni uno sconvolgimento globale dei rapporti sociali, di quelli di proprietà e della sovrastruttura ideologica, senza considerare gli effetti delle guerre in Croazia e in Bosnia. E' stato affermato da David Mandel a proposito della Russia, ma la considerazione può essere generalizzata, che

"nei paesi capitalisti ricchi sono serviti almeno vent'anni prima che i lavoratori cominciassero a reagire in modo efficace a sconvolgimenti socio-politici di gran lunga meno importanti... la profondità della crisi economica in Russia è senza precedenti. Probabilmente, più che ogni altro fattore, questa crisi spiega l'incapacità dei lavoratori russi a sviluppare una resistenza efficace di fronte all'offensiva capitalista. E non si tratta unicamente di insicurezza economica. E' la struttura stessa della classe operaia che è stata trasformata dalla "terapia di choc"[1]".

In un'ancora esistente Federazione Jugoslava, diretta dal governo di Ante Markovic, è nel 1990 che si concretizza una via "federale" alla restaurazione capitalista: dopo un'ondata inflazionistica con tassi a tre zeri all'anno, vengono smantellate tutte le istituzioni dell'autogestione e si procede a una prima ondata massicia di privatizzazioni e licenziamenti. E' stato calcolato che tra il febbraio 1990 e il febbraio 1992 sono un milione i lavoratori che perdono il lavoro (su circa 6-7 milioni di lavoratori nel "settore socializzato"), in un quadro che aveva conosciuto pesanti peggioramenti già nel corso del decennio precedente. Nel solo anno 1990 il reddito reale dei lavoratori crolla del 26%. Il movimento operaio, nonostante le sconfitte subite negli anni precedenti, riesce ancora, settorialmente e localmente a reagire: vengono formati embrionali sindacati di disoccupati, si moltiplicano esperienze locali di sindacati indipendenti, nel giugno 1991, in pieno clima di guerra (inizierà a luglio in Croazia) il sindacato dei metallurgici di Bosnia organizza uno sciopero generale.

A partire dal 1991 si concretizzano invece le diverse "vie nazionali" alla restaurazione: ovunque si conosce una nuova, impressionante ondata inflazionistica che distrugge del tutto i residui risparmi dei lavoratori, con tassi variabili dal 1.700% in Macedonia nel 1992, al 2.000% in Croazia nello stesso anno, e alla cifra-record di 200.000% in Serbia l'anno successivo. La "proprietà sociale" viene ovunque immediatamente statalizzata.

A partire dal 1993 viene adottata una politica monetarista e di ripresa delle privatizzazioni iniziate nel 1990, che insieme alle devastazioni della guerra porta la disoccupazione a cifre vertiginose: nel 1998 si va dal 20% croato, al 30% serbo, al 40% della Federazione croato- musulmana di Bosnia e della Macedonia, al 60% della Repubblica Serba di Bosnia. In molti di questi paesi la disoccupazione viene mantenuta "bassa" grazie alla mobilitazione nell'esercito, all'arruolamento nelle forze di polizia (in Serbia un poliziotto ogni 100 abitanti!) e all'emigrazione.

In Croazia il 60% dell'industria sarebbe privatizzata, in Macedonia al 50%, in Montenegro all'80%. La Serbia fa caso a sé, nelle condizioni imposte dall'isolamento e dalle sanzioni internazionali che ha dovuto subire dal 1992 al 1996: è l'unico paese a promulgare nel 1994 una legge di ri-nazionalizzazione, e solo nel 1997 viene adottata una legge di privatizzazione che si concentra sulle grandi imprese pubbliche: miniere, telecomunicazioni, industria del cemento e automobilistica, azienda elettrica. Capitali italiani, greci, britannici e francesi acquistano o sono attualmente in trattativa per acquistare pressoché tutte le grandi imprese della Serbia (con l'unica eccezione forse dell'azienda petrolifera INA). Altro caso a sé quello delle due "entità" della Bosnia, completamente distrutte dalla guerra, e che sopravvivono economicamente solo grazie all'intervento internazionale, ad un ritorno all'economia di sussitenza nelle campagne. L'attuale livello di produzione della Bosnia viene valutato a circa il 10% del livello pre- guerra, ma ciò non impedisce un'attività legislativa (la Federazione croato-musulmana di Bosnia nel marzo e la Repubblica Serba di Bosnia nel giugno 1998) per la privatizzazione di quanto è rimasto, con la realizzazione di "standard europei e salari africani".

Questi paesi hanno conosciuto un crollo economico (pari a un meno 40-60%) negli anni 1992-1994. La ripresa degli anni successivi non è riuscita a far raggiungere a nessuno di questi paesi, né come produzione industriale, né come PIL, il livello degli anni '80. Secondo stime molto ottimiste, complessivamente il reddito reale dei lavoratori dell'ex Jugoslavia è pari a un terzo di quello di dieci anni orsono. Così Pavlovic descriveva un anno fa la drammatica situazione in Serbia:

"senza lavoro, senza denaro e senza nessuna influenza politica reale, la popolazione è impotente. E' nauseata, talvolta divisa come la folla di uno stadio di calcio, ma la musica continua, la giostra gira, il denaro e il potere alla balcanica non si occupano né dei passanti democratici indignati, né dei lavoratori affamati... un'apatia generale, una cattiva coscienza per la distruzione della Jugoslavia e per i massacri in Bosnia, la disillusione riguardo alla Grande Serbia, la presenza di centinaia di migliaia di rifugiati che nessuno vuole, un'inquietante confusione sulla questione del Kosovo, ma soprattutto una lotta quotidiana, esacerbata di giorno in giorno, per sopravvivere, ciascuno per sé...[2]"

La "terapia di choc" della guerra ha permesso di distruggere gli elementi di resistenza sociale di classe che dal 1986 al 1991 sussistevano in misura di gran lunga superiore rispetto agli altri paesi balcanici.

La restaurazione capitalistica si è definitivamente compiuta nei paesi dell'ex Jugoslavia? Se il criterio è quello della cosiddetta "sana economia di mercato" la risposta è sicuramente negativa. In tutti questi paesi il peso dell' "economia grigia", illegale e mafiosa, è enorme. Le privatizzazioni hanno dato luogo a enormi accumulazioni di ricchezze nei circoli vicini ai centri di potere, tanto che molti analisti affermano che non si tratta di vere privatizzazioni, ma della "spartizione della torta" all'interno di una nuova "nomenklatura". Alcuni di questi analisti sostengono che si avrebbe una situazione di assenza sia di piano che di mercato, con lo stabilirsi di "reti", di "clan" informali che gestiscono l'economia dei vari paesi. I casi di "arricchimenti indebiti", di puri e semplici furti ai più alti livelli non si contano. La guerra ha portato con sé un' "economia di predazione" generalizzata.

Ma quella della "sana economia di mercato" ci sembra un'astrazione indebita, non solo nei paesi dell'est, ma a livello mondiale.

Una classe sociale non sorge dall'oggi al domani: è necessaria un'accumulazione monetaria privata preventiva, senza riguardo alle modalità più o meno legali della stessa, e la trasformazione di questa accumulazione in capitale, dove unico criterio è il profitto, e non certo la moralità dell'operazione intrapresa. E nell'attuale congiuntura questo, non solo nell'ex Jugoslavia, ma in tutto il mondo, prende prioritariamente la via degli investimenti finanziari. La borghesia nei paesi dell'ex Jugoslavia è una classe sociale rapace, piccola e debole, in larga parte sorta da settori della vecchia burocrazia. Debole, perché di nascita recentissima, e perché accumulare ricchezze non significa che si è poi capaci di gestirle nell'attuale mercato: i fallimenti e i rovesci delle fortune sono anch'essi all'ordine del giorno. Una borghesia rapace, piccola e debole, ma pur sempre dominante grazie allo ruolo degli stati esistenti, che sono gli artefici essenziali, dall'alto, della restaurazione capitalistica. Da questo punto di vista la Serbia non fa eccezione, se non per le specificità determinate da cinque anni di isolamento internazionale. I "nuovi ricchi" serbi non hanno alcunché da invidiare ai loro omologhi croati.

Le modalità con le quali la "terapia di choc alla jugoslava" è stata applicata ha implicato l'acuirsi di tutte le contraddizioni nazionali già presenti su questo territorio. L'unica legittimazione delle nuove élites al potere è l' "interesse della nazione" [3], con una sistematica oppressione delle minoranze nazionali presenti all'interno dei vari stati - facendo sì che ogni nuova ricomposizione delle classi subalterne in questi paesi possa avvenire solo e unicamente nella misura in cui queste classi riusciranno a rompere l'Union sacrée nazionale in cui sono state imprigionate, con il riconoscimento dei diritti democratici, nazionali, di tutte le popolazioni che vivono in quest'area. Rifacendoci all'esempio serbo, parafrasando le dichiarazioni della Prima Internazionale sulla questione irlandese, si può affermare che i lavoratori serbi non riusciranno a ottenere niente se non riusciranno a "sbarazzarsi" della questione kosovara - la condizione principale per l'emancipazione dei lavoratori serbi è proprio l'emancipazione del Kosovo, "nessun popolo può essere libero se ne opprime un altro". Gli spazi per uno sviluppo di questo tipo esistono. Se è vero che gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno rafforzato politicamente Milosevic [4], tuttavia non vi è stata alcuna mobilitazione popolare a favore della "sporca guerra" in Kosovo, "inalienabile parte della Serbia" (a differenza delle centinaia di migliaia di manifestanti che nel 1989 inneggiavano Milosevic e invocavano la morte di Azem Vllasi - l'allora segretario della Lega dei Comunisti del Kosovo). Non si sono visti gruppi di volontari partire per il fronte (a differenza della guerra in Croazia nel 1991). In generale pochi sono quelli desiderosi di farsi ammazzare in questa guerra, e si sono avuti diversi casi di insubordinazione al fronte. Fino a quest'estate non passava settimana senza mobilitazioni locali di lavoratori e pensionati che richiedevano il pagamento dei salari e delle pensioni arretrate. Il problema è di ordine soggettivo, in primo luogo nella frammentazione delle forze di sinistra che combattono lo sciovinismo grande- serbo, ed in secondo luogo nell'orientamento e nello sviluppo del Sindacato Indipendente, oggi radicato tra gli insegnanti e i metalmeccanici.

D'altro lato la condizione di oppressione nazionale si traduce per gli oppressi nella sottoproletarizzazione urbana e nella ruralizzazione di ampi settori di popolazione, che si vengono a trovare atomizzati, senza prospettive, senza potere contrattuale, senza le condizioni materiali di organizzazioni di massa durevoli. Questa è la drammatica situazione di centinaia di migliaia di profughi serbi, musulmani [5] e croati, condannati alla non- esistenza.

L'esempio della popolazione albanese del Kosovo fornisce invece un esempio di ricomposizione sociale e politica che riesce a spezzare questo cerchio. La popolazione albanese del Kosovo (l'80% della popolazione di questa regione) ha conosciuto nel 1989-1990 la cancellazione di tutti i propri diritti politici, l'instaurazione di un aperto dominio coloniale da parte di Belgrado e l'instaurazione di un sistema di apartheid. In una regione già molto povera, Belgrado procedette a licenziamenti di massa dei lavoratori albanesi - ad esempio, nel settore pubblico vennero espulsi 3/4 dei dipendenti. A partire da quella data 350.000 kosovari sono emigrati, e le loro rimesse permettono il sostentamento di una società che, secondo dati dell'Unione Europea del 1996, conosce una disoccupazione dell'85%. Il tipo di resistenza all'oppressione di Belgrado centrata fino al 1990 sulle mobilitazioni della classe operaia (con l'epico sciopero dei minatori di Trepca nel febbraio 1989) fu totalmente distrutta.

E' solo a partire dalla fine del 1997 che riemerge in Kosovo una resistenza aperta, con mobilitazioni di massa condotte dai giovani. E sono quasi totalmente giovani quelli che nella primavera del 1998 raggiungono a migliaia, se non a decine di migliaia, le file dell'Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK)[6], in aperta rottura con l'establishment politico albanese di Rugova e con le regole di vita rurale, strutturata secondo linee claniche. La combinazione di mobilitazioni politiche di massa che non delegano più ai "potenti" la soluzione ai propri problemi, la costituzione di "zone liberate" dove ritrovare una propria collocazione ed un proprio ruolo sociale, la riacquisizione di potere contrattuale tramite la lotta armata, ha dato luogo a un processo insurrezionale che, al suo apice nel luglio 1998, è arrivato a controllare il 30% del territorio kosovaro.

La improvvisa disfatta militare successiva indica che questo processo di ricomposizione e di ritrovata prospettiva è ancora molto embrionale [7]. Ma la sua portata, al di là di tutti i distinguo possibili [8], rimane enorme anche al di là dei confini kosovari, perché indica che è possibile l'organizzazione e la mobilitazione di masse oppresse pur spogliate di tutto. Indica che le classi subalterne non sono costrette all'impotenza, e hanno la possibilità di battersi per decidere del proprio destino.

Il recente accordo tra Belgrado e Washington, rigettato dall'UCK e pare accettato da Rugova, accordo sopravvenuto dopo la sconfitta militare dell'UCK e l'espulsione di centinaia di migliaia di albanesi dai loro villaggi, è un accordo che

"non lascia sperare nulla di buono e conferma la linea occidentale mirata a conservare, costi quel che costi, lo status quo nei Balcani, il che porta ad adottare una dopo l'altra una serie di misure nel migliore dei casi improbabili e ambigue, e nel peggiore direttamente guerrafondaie, comunque sempre foriere di nuovi conflitti... [Questo accordo è] un mezzo per differire le decisioni in merito a un intervento... Ma non si vede nemmeno come un intervento, anche solo limitato, possa risolvere la situazione, mentre sono chiari gli effetti devastanti che esso avrebbe, sia sulla sorte della popolazione locale, che sulle possibilità di raggiungere in Kosovo e nei Balcani una pace che garantisca i diritti, non solo umani, ma anche politici delle popolazioni[9]".

Questo accordo, che non ristabilisce neppure la situazione di prima del 1990, dimostra a contrario che questi diritti potranno essere garantiti solo se saranno i diretti interessati (non Belgrado, con il suo Esercito e Polizia, né il "Gruppo di Contatto", con i Tornado della NATO, né le varie ONG, con le loro soluzioni "eque e fattibili") a decidere su come affermare i propri diritti nazionali - per l'autonomia entro la Serbia o in uno stato indipendente, entro o fuori dell'attuale Federazione Jugoslava, unificandosi o meno con l'Albania.

Quest'ordine di considerazioni ci sembra confermato dalle recenti dinamiche in Bosnia. Il tentativo da parte internazionale di creare un'alternativa politica dall' "esterno" ai gruppi dirigenti nazionalisti al potere [10] è fallito miseramente con la recente tornata elettorale, dove per l'ennesima volta sono risultati vincenti le classiche formazioni nazionaliste: nella Repubblica Serba di Bosnia è stato eletto presidente il fascista Poplasen, nella Federazione croato-musulmana l'opposizione ha ottenuto il solito 25% che ottiene fin da prima della guerra, e il NHJ (Nuova Iniziativa Croata, una scissione del HDZ) ha ottenuto solo 27.000 voti a fronte dei 185.000 del HDZ.

Il "protettorato di fatto" che è stato stabilito a partire dalla metà del 1997 sulla Bosnia non era rivolto a risolvere i mille problemi sociali delle popolazioni bosniache, ma solo a mantenere un fragilissimo status quo [11], favorendo la divisione esistente della Bosnia e ogni sorta di privatizzazioni e di pirateria capitalistica. I più di due milioni di profughi risultanti dalle operazioni di "pulizia etnica" sono rimasti tali, e le organizzazioni locali di profughi che si sono battute per organizzare il rientro nei propri villaggi hanno dovuto pagare sulla propria pelle l'errore di credere nella copertura militare della SFOR [12]. La presenza militare e politica internazionale in Bosnia non ha quindi alcuna lettimità agli occhi della popolazione bosniaca - e altrettanto le organizzazioni politiche che hanno accettato di porsi completamente sotto la loro tutela.

Le vie della ripresa della lotta di classe e del riscatto delle piccole nazioni oppresse nei Balcani è sicuramente complessa e non breve. Il quadro appare terribile: dominio incontrastato della "democratura" (dittatura sotto le vesti democratiche) di Tudjman in Croazia; conferma del potere dei nazionalisti guerrafondai in Bosnia; rafforzamento del potere serbo e ascesa del fascismo di Seselj, al governo con Milosevic; sconfitta, o comunque messa al passo, della ribellione kosovara; vittoria della destra sciovinista del VMRO-DPMNE in Macedonia; sempre maggiore presenza delle potenze imperialistiche nella regione. E oltre a questo miseria, disoccupazione, il destino di profughi per milioni di persone e il dominio di una borghesia tanto piccola quanto vorace.

Ma il rafforzamento dei poteri esistenti è più in termini relativi che assoluti. Il quadro complessivo rimane quello di un'estrema fragilità e instabilità, per di più crescente nell'ultimo periodo, di tutti gli stati sorti dalla disgregazione della ex Jugoslavia. Nessuno di loro gode più di un appoggio "militante" di massa, e mai è stata così bassa la legittimazione politica ed ideologica della classe di "nuovi ricchi". Questi regimi si reggono solo e unicamente sulla forzata inattività, grazie alla repressione e alla mancanza di prospettive, delle masse - dei lavoratori, dei disoccupati, dei rifugiati.

L'ostacolo maggiore che ancora oggi si pone sulla strada di un'attivizzazione indipendente delle classi subalterne è l'onnipresenza delle oppressioni nazionali, che unisce (sia pur passivamente) le classi popolari ai regimi al potere [13]. Finché in Croazia, in Serbia, in Bosnia, in Macedonia le organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori non romperanno questo legame - riconoscendo e battendosi per i diritti democratici e politici collettivi delle piccole nazionalità e l'importanza dell' autodeterminazione - non vi potrà essere alcuna svolta positiva in questa regione. D'altro lato la ribellione popolare in Kosovo indica che queste piccole nazionalità possono avere la forza di affrontare questi regimi in difesa dei propri diritti - un esempio che non mancherà di influenzare le masse di oppressi e di rifugiati presenti in tutti i paesi dell'ex Jugoslavia.

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NOTE:

[1] David Mandel, Le mouvement ouvrier en Russie, ottobre 1998.

[2] Radoslav Pavlovic, Serbie - la clé de la poudriere, Le marxisme aujourd'hui, febbraio 1998.

[3] Al di fuori dei paesi sorti dall'ex Jugoslavia, come l'Albania, la Romania e la Bulgaria, operano anche altri meccanismi di leggittimazione: essere punto di riferimento delle grandi potenze, essere portatori di un' "ideologia" moderna, e così via.

[4] Tutti i partiti parlamentari si sono schierati con lui. Le minacce della NATO hanno dato un po' di ossigeno al governo serbo, che ha usato il tema dell'aggressione internazionale per chiudere i giornali indipendenti e per darsi un po' di rinnovata legittimità agli occhi della propria popolazione.

[5] Qui e in generale usiamo la vecchia denominazione "musulmani" solo per comodità linguistica: da alcuni anni la denominazione nazionale corretta è "bosniak" che suona però in italiano identica a "bosniaco", cioé cittadino della Bosnia, indipendentemente se di nazionalità serba, croata, bosniak o altro.

[6] Nel 1996, cadute le speranze che la "comunità internazionale" risolvesse il problema kosovaro (è l'anno del riconoscimento internazionale della Federazione Jugoslava in seguito agli accordi di Dayton), alcune formazioni marxiste-leniniste, che si ispirano alla tradizione di Enver Hoxha, decidono di passare alla lotta armata, con la formazione dell' "Esercito di Liberazione del Kosovo" (UCK), muovendosi in modo molto spregiudicato nella ricerca di finanziamenti e mantenendo un profilo politico molto basso. In due anni di attività (1996-1997) l'UCK compie diverse decine di azioni contro le forze di polizia serbe, e riesce a raccogliere alcune centinaia di attivisti. Nel febbraio 1998 la polizia serba (in realtà una forza militare più numerosa, meglio equipaggiata e meglio addestrata dello stesso esercito) conduce un'operazione contro l'UCK nella zona di Drenica, causando una strage di civili.

[7] Questa radicalizzazione si è prodotta in modo inatteso sia per le autorità serbe, sia per le formazioni dell'UCK che operavano nel Kosovo. Le strutture dell'UCK sono crollate sotto l'ondata degli arrivi in massa nelle proprie fila - a un certo punto non esisteva più né comando centralizzato dal punto di vista militare, né direzione politica. I "portavoce" autonominatisi si sono moltiplicati, ciascuno con posizioni divergenti, le situazioni locali si sono differenziate sempre più, si sono sviluppate operazioni di infiltrazioni nelle sue fila (scissione delle FARK filo-Rugova e Bukoshi). La disfatta militare avviene ad agosto, a fronte di un'offensiva serba che adotta la tattica della terra bruciata, radendo al suolo i villaggi e creando un flusso di decine, centinaia di migliaia di rifugiati. L'UCK rimane comunque, sia pure ridimensionato, un soggetto politico e militare in Kosovo, con forze ed udienza incomparabilmente maggiore di quella che aveva fino allo scorso anno. Questa organizzazione conosce oggi un profondo dibattito interno sulle prospettive, su cui non è ancora possibile trarre un bilancio.

[8] Molti sono stati i commentatori in Italia che hanno sottolineato i limiti e gli errori politici dell'UCK, limiti ed errori innegabili. Ciò non cancella comunque che l'UCK è stato il veicolo della radicalizzazione kosovara nella primavera-estate 1998, e che, come tutti i processi di radicalizzazione di massa, ha messo in moto i più diversi strati sociali, ciascuno con i propri pregiudizi, limiti, arretratezze... Ma è ben difficile immaginare una radicalizzazione di massa in cui questo non avvenga! Altro discorso merita invece l'opera di sistematica disinformazione che la stampa italiana (anche di sinistra) ha effettuato sulla situazione in Kosovo. Non potendo, per ragioni di spazio, chiarire le montagna di falsificazioni correnti, rinviamo alla collezione della newsletter elettronica Notizie Est e alla massa di informazioni disponibili nei rapporti dell'International Crisis Group (http://www.intl-crisis-group.org/ ).

[9] Andrea Ferrario, Un accordo di guerra?, Notizie Est, 16 ottobre 1998

[10] Conferenza delle opposizioni nella Federazione croato-musulmana sotto l'egida della NATO, sostegno agli scissionisti dell'HDZ croato, campagna aperta di sostegno alla Plavsic e a Dodik (in realtà ben poco antinazionalisti!), ecc. Alcuni commentatori, concentrandosi sull'appoggio occidentale alla coalizione serba "Sloga" hanno addirittura affermato che vi sarebbe stato uno scambio con Milosevic: l'appoggio smaccato degli Stati Uniti al gruppo Plavsic-Dodik avrebbe assicurato una sicura vittoria dei loro avversari, associati al governo di Belgrado. In cambio Belgrado avrebbe ceduto qualcosa sul Kosovo. Quest'ipotesi, pur se non da escludere nei giochi di specchi diplomatici, ci sembra improbabile in quanto l'appoggio occidentale ha riguardato un'intero arco di forze, oltreché serbe, anche croate e musulmane.

[11] Si veda ad esempio la farsesca storia della disputa su Brcko: gli accordi di Dayton prevedevano un arbitrato per risolvere il caso di questa città strategica nell'arco di qualche mese. Da allora (novembre 1995) l'accordo è sempre stato rinviato, e il destino di Brcko è ancora in sospeso.

[12] Il caso più emblematico è quello dei profughi serbi di Dvar, città conquistata dall'esercito croato nel corso della sua offensiva nel 1995, e da allora sotto controllo militare croato. Dopo essersi presentati nel settembre 1997 alle elezioni amministrative di Dvar, e aver vinto queste elezioni, hanno organizzato un rientro graduale dei profughi. a partire dal gennaio 1998 - contro l'avviso delle autorità della Repubblica Serba e quello delle ONG presenti. Nell'aprile di quest'anno le forze del HVO croato hanno proceduto a riespellerli, bruciando case, uccidendo alcuni profughi e il sindaco serbo di Dvar, e leader dell'organizzazione dei profughi, Marceta, è ancora vivo solo perché i soldati del HVO dopo averlo massacrato pensavano erroneamente che fosse morto.

[13] Da questo punto di vista la presenza di un'ideologia "jugoslavista" in settori di massa (e in molta sinistra al di fuori dell'ex Jugoslavia) non aiuta certo a far chiarezza. Nel 1942-1945 essere "jugoslavisti" aveva senso solo nella misura in cui vi erano determinati contenuti di classe, e si riconoscevano i diritti nazionali delle varie nazioni - tant'è che le forze partigiane si batterono militarmente contro gli "jugoslavisti" di Mihajlovic, filoborghesi e per il dominio serbo. Ciò che contò furono questi contenuti di classe e di riconoscimento dei diritti nazionali: questi potevano assumere altre forme - il PC jugoslavo fu dal 1923 al 1934 per la disintegrazione della Jugoslavia in loro nome. Gli odierni "jugoslavisti" si dimenticano semplicemente di questi contenuti e di come si possono incarnare nella situazione odierna e idealizzano, in sé e per sé, il "paese che non c'è più"... Salvo ritrovarsi a fianco del regime di Belgrado, dove vice primo ministro è il fascista Seselj, strettamente associato a livello internazionale al francese Le Pen e al russo Zhirinovsky. Nel 1942-1945 si sarebbero trovati a fianco dello jugoslavista Mihajlovic?

(questo pezzo è un anticipo dal numero di "Bandiera Rossa" [http://www.ecn.org/bandierarossa/] che uscirà a giorni)