Trovare dove stare

di Andrea Bagni, da École, numero 3, marzo 2001


E' stata buffa la discussione nella mia scuola sulla possibilità di passare alle 32 ore subito, dall'anno prossimo. Si tratta dell'autorizzazione offerta dalla direttiva del Parlamento nel dicembre scorso, di anticipare nelle scuole questa parte della riforma, con la garanzia della conservazione del posto di lavoro pur tagliando sensibilmente l'orario complessivo di ragazzi e ragazze: nel mio istituto tecnico, da 36 ore settimanali appunto a 32.

Dunque per gli insegnanti, pensavo, non dovrebbe essere male: anche semplicemente evitando discussioni difficili su quali discipline tagliare, riducendole più o meno tutte (magari su base annuale) del dieci per cento, potrebbe venire fuori la possibilità di lavorare meno e meglio. A parità di salario. Uno si aspetterebbe anche che il dirigente scolastico di sinistra e in carriera che domina la mia scuola, fosse disponibile ad anticipare la riforma: l'essere all'avanguardia dovrebbe dargli lustro e prestigio. E soprattutto la singola scuola potrebbe risolvere, in modo "ravvicinato" e dunque ragionevole, un po' delle questioni che il cambiamento propone (in particolare, sempre incasinatissimo, l'aspetto dell'orario). Invece nei primi incontri di commissione succede di tutto.

Il preside manda a dire tramite ennesima "raccomandata a mano" (scripta ormai volant), che le ore liberate dalla riduzione d'orario dovranno tassativamente essere utilizzate in lezioni frontali (cioè, sembra di capire, di compresenza obbligatoria o supplenza tappabuchi); inoltre si dovrebbe passare alle lezioni di 60-minuti-60, col che anche la riduzione d'orario per ragazze e ragazzi sarebbe assai limitata, pur diminuendo le discipline. Dice che tutta la normativa pattizia e generale lo richiede - vai a capire quale normativa frequentano i nuovi manager, molto più burocrati della vecchia burocrazia, almeno lontana. Alla fine la proposta è lavorare di più (le ore di compresenza infatti chiedono d'essere decentemente pensate, a meno che uno non si limiti proprio alla presenza), peggio dunque, senza una lira in più e come scelta volontaria: la legge ancora non c'è infatti. È anche (coscientemente?) un progetto suicida: quale collegio mai deciderà di anticipare un disastro del genere...

Allora uno si aspetterebbe da parte docente una contestazione di quella lettura - in fondo malgrado la parità, il dirigente non è ancora dio. Invece qualcuno sostiene che ridurre la quantità di scuola è sempre mandare un messaggio di svalorizzazione del sapere; qualcun altro dice che ogni cambiamento di ritmo è disorientante per i ragazzi. E alla fine passa la linea: lo faremo quando ce lo imporranno - magari cercando qualche via di fuga o di aggiramento. Che è l'atteggiamento tipico di un fare impiegatizio, che finisce per attribuire sempre all'amministrazione la definizione del quadro onnicomprensivo di ordinamento. Anzi di ordine.

Chissà se poi sarebbe stato tanto complicato il cambiamento: togliere agli insegnanti una quota di orario e chiedere che sia "a disposizione", non dell'istituto per sorvegliare e punire (o fare da baby sitter) nelle classi scoperte - poi chi l'ha detto che non si può risolvere diversamente il problema delle assenze brevi? Basterebbero spazi attrezzati in cui ospitare ragazzi e ragazze, dando loro anche più libertà in cambio di responsabilizzazione - bensì dell'insegnante per la preparazione del lavoro e per eventuali attività di classe in piccoli gruppi o compresenza (sensata e flessibile: connotata dal nascere fra persone che si scelgono per fare qualcosa che hanno scelto nel momento e per il tempo che ritengono necessario). In fondo tempi e metodi potrebbero ogni tanto anche modellarsi sulla soggettività degli attori, su bisogni, desideri, tentativi ecologici d'innovazione (cioè reversibili, limitati, umani: non con tutte le classi, non per tutto l'anno, non tutti gli anni...).

Invece si determina una curiosa alleanza fra innovatori assoluti, talmente ottusi da mettere in piedi meccanismi auto bloccanti, e conservatori pure assoluti che preferiscono non provare nemmeno a migliorare le condizioni di lavoro (e di vita) nella scuola, per paura che questo apra varchi al male, alla pura ingegneria o pura socializzazione. Alla fine il famoso sapere resta nella gabbia della meccanica data, noiosa ma in fondo così domestica.

Per chi non ama gran che la scuola disegnata dalle riforme (così tecnocratica) né quella attuale (così burocratica), non è tanto facile trovare dove stare.

 

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