Riproduciamo un interessante contributo di qualche mese fa di Andrea Bagni, pubblicato sulla rivista Insegnare, che analizza le proposte di riforma di Berlinguer alla luce della riflessione gramsciana sul rapporto scuola-lavoro in una società tecnologicamente avanzata.
La proposta di riordino dei cicli scolastici avanzata dal governo Prodi-Berlinguer ha senz'altro il merito di riaprire la discussione sulla scuola ad un livello finalmente organico e di fondo. Va molto oltre i piccoli interventi cui eravamo abituati (anche dallo stesso Berlinguer), espressione di pensiero debole per quanto riguarda l'idea di scuola e di normazione forte (circolari, ordinanze, direttive..) intorno alle "pratiche"; un bel rovesciamento di quanto era necessario.
Nel documento Berlinguer un'idea di scuola c'è, mi pare, centrata sul nesso formazione e lavoro, e assai discutibile.
Proviamo allora a tornare un po' indietro, a Gramsci, uno dei pochi "padri" cui si possa seriamente riferire la riflessione su scuola e società.
Nei Quaderni già è sottolineato l'aumento del "contenuto di teoria" insito nella produzione industriale moderna, intreccio di lavoro intellettuale e manuale che peraltro non esclude affatto il rischio di sviluppo "a una dimensione" dei lavoratori: i "piccoli mostri" di cui scriveva nel 1916 in polemica con i socialisti, "aridamente istruiti per un mestiere, senza idee generali, senza cultura generale, senza anima, ma solo dall'occhio infallibile e dalla mano ferma" (1).
Nei Quaderni si parte dalla considerazione che "nella civiltà moderna tutte le attività pratiche sono diventate più complesse e le scienze si sono talmente intrecciate alla vita che ogni attività pratica tende a creare una scuola per i propri dirigenti e specialisti [...] Oggi la tendenza è di abolire ogni tipo di scuola 'disinteressata' (non immediatamente interessata) e 'formativa' o di lasciarne solo un esemplare ridotto per una piccola élite [...] e di diffondere sempre più le scuole professionali specializzate in cui il destino dell'allievo e la sua futura attività sono predeterminate" (2). Una scuola che "appare e viene predicata come democratica, mentre invece non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi" (3).
Per Gramsci l'obiettivo resta "una scuola unica iniziale di cultura generale, umanistica e formativa" (4), "che conduca il giovinetto fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come persona capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige" (5). Insomma una scuola della formazione polivalente, aperta e capace di aprire alle diverse possibilità. Non teme affatto di utilizzare il concetto "classico" di scuola disinteressata, fondata su un processo fortemente strutturato di istruzione, per la sua stessa organicità capace di educare (ad una disciplina anche psicofisica, ad un ordine intellettuale). E tuttavia vede anche l'impossibilità di riproporre "quella" scuola del greco e del latino e la difficoltà di trovare nella "modernità" un canone sostitutivo, coerente ed efficace. Vede il rischio insito nella tentazione di "rendere facile" la scuola per aprirla alle masse, ma anche le difficoltà che si presenteranno ai "figli del popolo" che vi accederanno, svantaggiati e predisposti a pensare ad un "inganno borghese" di fronte alle difficoltà (6) (e la necessità del non-rendere-facile, allora, forse non esclude il compito del facilitare...).
Il punto è che il modello gramsciano di scuola (e di intellettuale) non esclude affatto il lavoro, ma lo eleva dall'operare manuale alla sfera della tecnica, della scienza, infine della storia (e della politica, s'intende).
Allora formazione "polivalente", aperta, ma anche antiretorica (antigentiliana), capace di non separare istruzione da educazione, pena il precipitare di quest'ultima nel bla-bla declamatorio di valori inverificabili, non incarnati in forme del lavoro scolastico, nozioni metodo e processo del conoscere; processo che educhi implicitamente, generando un alfabeto, un atteggiamento culturale, uno stile critico.Insomma una formazione tecnica e politecnica; culturale ma nel senso di una nuova cultura da fondare per i "tempi moderni".
Oggi il documento di Berlinguer si pone coraggiosamente all'altezza di questi problemi, ma mi pare cerchi di risolverli guardando indietro - più ai vecchi socialisti che al giovane Gramsci - senza vedere in realtà fino in fondo la complessità delle questioni sollevate e neppure la ricchezza delle occasioni che si offrono.
Viene fuori una specie di doppio equivoco.Tutti oggi sanno della crisi del lavoro, del suo farsi raro, precario, mobile, sempre più incapace di dare identità e costituire il centro delle biografie, specie per i più giovani.
Eppure l'impressione è che si tenda a connotare ancora di più la scuola in funzione delle professioni, per una società ancora "lavoristica": anticipazione dell'ingresso nella formazione professionale (a 13 anni), riduzione del tempo scuola complessivo (18 anni invece di 19, con solo una parte dell'Europa), innalzamento dell'obbligo che si ferma a 15 anni (sempre in coda alla mitica Europa). (Peraltro si innalza anche l'età alla quale si potrà uscire dal lavoro: dunque c'è meno lavoro ma si dovrà cominciare a lavorare prima e andare in pensione dopo, con condizioni del lavoro giovanile sempre più subordinate e sottoprotette).
Ma se il lavoro "si riduce" - di fatto, anche senza politiche in tal senso, quindi spesso aumentando su base individuale - se si riduce la sua centralità nella costruzione di identità sociale, se aumenta il tempo di non-lavoro (come tempo liberato o, drammaticamente, come disoccupazione e occupazione precaria), non varrebbe la pena pensare alla formazione più in termini di socialità, cittadinanza, autonomia, capacità di costruire la propria "storia"; insomma più sulla base di un valore d'uso del sapere che del suo (in crisi vivissima) valore di scambio?
Una formazione di nuovo (e insieme anticamente) disinteressata potrebbe essere oggi, paradossalmente, la più "interessante", perfino funzionale a lavori e mercato del lavoro altrettanto aperti, incerti, offerti ad una ricomposizione solo personale, campo di battaglia fra richieste adattive e attraversamento critico.
Nella prima metà del secolo taylorismo e fordismo estraevano dal lavoro vivo il sapere in esso contenuto, per incorporarlo alla catena e subordinare ai suoi tempi i micromovimenti operai; separavano, cioè, la teoria dal lavoro per tradurla in processo meccanico controllabile e dominabile politicamente - da lì la resistenza quasi "artigianale" dei lavoratori più qualificati.Oggi toyotismo e "qualità totale" operano una specie di processo inverso: cercano la mente dell'operatore, quanto e più delle sue mani. Ogni tanto cercano anche la sua "anima", in cambio offrendo una qualche appartenenza, una "famiglia", magari territoriale, tipo nord-est. E il lavoro è sì ricco di teoria, ma di una teoria "povera", segnata da una connotazione politica, una forma dei rapporti di potere sul luogo - o sul non-luogo, virtuale telematico - di lavoro: un sapere subordinato e dipendente nella sua grammatica profonda, anche quando la prestazione si vorrebbe partecipativa e semi-autonoma.
Il secondo equivoco è vedere, come fa la proposta Berlinguer, la trasformazione del lavoro e concludere che questo implichi una qualche capacità di auto-formazione delle professionalità, in quanto "intellettuali" già capaci di essere e fare scuola. Al fondo della proposta mi pare riposi l'idea sbagliata di un sostanziale "scambio alla pari", quasi una fusione, fra scuola e formazione professionale. Un intreccio dove non si sa più chi orienta chi e che appare polivalente nella varietà delle opzioni e nella composizione dei moduli, non nella costruzione di individui autonomi capaci di vivere quella precarietà dei destini sociali, senza soltanto miseramente adattarvisi.
Al contrario proprio le trasformazioni del lavoro interrogano la scuola nella sua specificità e costituiscono una grande occasione (proprio nell'ottica gramsciana) per progettare una formazione scolastica di base capace di contenere il fare, la manualità (cosa ben diversa dal lavoro manuale) e la dimensione della tecnica - ma per tutti, flessibile, aperta, polivalente: insieme creativa e (in un certo senso) mai così "economica". Niente a che vedere con una somma di procedure e operazioni, segmenti compiuti, scelte sempre-già-definite per quanto non definitive (strana idea poi di "orientamento": si sceglie un solo percorso e si va avanti, salvo accorgersi d'avere sbagliato e riprovare da un'altra parte).
Una formazione che deve trovare il suo "canone", centrarsi su concentrazione e approfondimento delle conoscenze, superando enciclopedismo e verbalismo, retorica e pressappochismo della tradizionale italietta intellettuale; guardarsi bene dall'offrire un'enciclopedia impazzita dei saperi, estesa quanto superficiale, arredamento di una scuola segmentata e burocratica quanto onnicomprensiva nei tempi e nei ritmi di vita (perfino nell'extrascuola e in chiave assistenziale: a modo suo bizzarramente taylorista-fordista).
Una formazione che incontri e faccia esperienza del lavoro, ma appunto del lavoro più che di lavoro e formazione professionale; esperienze che entrino nel processo di formazione scolastica e facciano uscire dalla scuola, ma interne a un percorso unitario, non un suo ramo o rivolo, magari di scarico - come sarebbe se dalla scuola si uscisse per la formazione professionale, secondo tradizione e "tentazione" (anche nel documento Berlinguer).1. A. Gramsci "Avanti!", 24 dicembre 1916. (in: A. Gramsci "L'alternativa pedagogica", Firenze 1980)
2. A. Gramsci "Quaderni del carcere", pag. 1530-31, Torino 1975
3. ibidem, pag.1547
4. ibidem, pag.1531
5. ibidem, pag.1547
6. cfr. ibidem, pagg.1549-50