1. DALLA CULTURA DEL SAPERE ALLA CULTURA DELLA COMPETENZANel discutere il quadro giuridico all'interno del quale si colloca l'argomento di questa giornata tenterò, da un lato, di focalizzare i riferimenti normativi e, dall'altro, di ragionare ad alta voce sull'evoluzione generale del diritto che ha reso possibili i cambiamenti in corso.
In controtendenza rispetto alla sua intera impostazione, mirata ad attribuire a regioni ed enti locali tutte le competenze e le funzioni compatibili col quadro costituzionale, la legge n. 59 del 1997 ha invece affrontato - all'articolo 21 - il tema dell'istruzione in chiave di decentramento di funzioni alla scuola.
Il successivo decreto legislativo n. 112 del 1998, redatto in adozione della stessa legge 59 e costruito dai suoi originari estensori con modalità che avrebbero del tutto vanificato la logica derogatoria dell'articolo 21, è stato a essa ricondotto con interventi sul testo che, pur mantenendo sostanzialmente inalterato il quadro iniziale, hanno attribuito a regioni ed enti locali alcuni specifici poteri, legati essenzialmente all'assetto territoriale dell'offerta formativa.
Nel frattempo la legge e il regolamento sugli esami di maturità, con l'introduzione di una terza prova scritta costruita dalla commissione sul percorso concreto della classe, hanno cominciato a delineare gli spazi di un'autonomia delle scuole non più circoscritta alla mera dimensione organizzativa.
Il regolamento dell'autonomia chiude il cerchio e definisce la scuola del futuro, attribuendole caratteristiche di autonomia funzionale, ovvero di un'autonomia che trova la sua ragion d'essere nello specifico compito cui è preposta: un compito, cioè, che non è di per sé riconducibile a una qualsiasi delle funzioni generali di governo del territorio proprie delle autonomie locali.
Il regolamento segna la transizione dalla cultura del sapere, che malgrado quanto si è cercato di fare negli ultimi anni, seguita a misurarsi in termini di quantità e vastità dei contenuti appresi - e a concepire quindi l'apprendimento come un "avere" - alla cultura della competenza, che non pretende di negare il sapere, ma vuole calarlo in un apprendimento concepito come "crescita dell'essere". In quanto tale, il regolamento costituisce uno dei segni più evidenti che nel nostro paese, in questo momento storico, è in atto anche una profonda trasformazione del diritto. Esso, pur nelle resistenze che nascono da una cultura millenaria, tende sempre di più ad abbandonare la rigidità dei formalismi tradizionali per divenire strumento flessibile di regolazione di rapporti sostanziali.
Una riflessione su questa trasformazione del diritto non è quindi inutile nel momento in cui ci accinge ad accompagnare l'attuazione delle nuove regole che governeranno i processi di apprendimento negli anni a venire.
L'insofferenza che si avverte in tutti gli ambienti per le espressioni del diritto che ritardano o impediscono la trasformazione del Paese ha le sue radici nei profondi rivolgimenti verificatisi nella società degli ultimi tre decenni. Abbiamo assistito in tutti questi anni al sorgere di nuovi bisogni, all'abbattimento dei vecchi pregiudizi, alla nascita di nuovi problemi - spesso misurabili solo su scala mondiale - e, non ultimo, allo spostamento dal sud al nord del mondo di masse umane alla ricerca di una speranza di vita. Mentre nei tribunali si discuteva di vecchi diritti e obsoleti doveri, tutti costruiti sui tempi di una società preindustriale e riferiti a spazi e confini definiti; mentre il Parlamento approvava ancora leggi incentrate solo sul problema delle competenze intese come estensione del potere esercitabile, la società ha trovato nuovi ritmi, non più scanditi dai naturali cicli del giorno e della notte, del succedersi delle stagioni e delle età, ha scoperto lo spazio planetario, la realtà virtuale, l'annullamento delle distanze e ha manifestato una crescente insofferenza per le trappole, gli intralci, i formalismi, l'irresponsabilità diffusa nell'amministrazione pubblica.2. CONCILIARE NORME E REALTÀ
Faticosamente, perché il procedimento di aggiornamento del diritto è caratterizzato da complessità e da lentezze, il diritto si è messo in marcia per riconciliarsi col reale. Il regolamento dell'autonomia si iscrive in questo processo che oggi tutti gli operatori della scuola sono chiamati a portare a compimento.
Proprio nel regolamento, e specificatamente nel suo articolo 13, va vista la ragione del seminario di Villa Falconieri. Questa giornata di studio costituisce un preciso segnale: la riforma non si contenta di essere proclamata, come è accaduto in altri casi, ma vuole da subito essere attuata.
Il problema è, in estrema sintesi, cosa dire alle scuole, che peraltro ove lo volessero potrebbero fare da sole, in merito al loro potere di riorganizzare i percorsi didattici definiti dagli attuali ordinamenti degli studi "secondo modalità fondate su obiettivi formativi e competenze".
Perché è necessario occuparsene? Essenzialmente per evitare che la transizione verso il nuovo si trasformi in confusione e anarchia. Tecnicamente non esiste nessun dovere giuridico di dare definizioni ulteriori. Potremmo lasciar fare. Esiste però un preciso dovere (un esempio tipico dei doveri connessi alla funzione di governo del sistema ai quali lo Stato, attraverso l'articolo 1 della legge 59 e l'articolo 8 del regolamento ha riaffermato di non volersi sottrarre) di supportare e accompagnare l'attuazione della riforma. Esiste cioè un forte interesse giuridico a ricondurre l'operazione, quanto più possibile, a una uniformità di interpretazione e all'elaborazione di regole e modalità attuative chiare, che nella loro semplicità possano essere accettate e condivise come modelli generali. Occorre, in altre parole, fare uno sforzo ulteriore per chiarire progressivamente le nuove relazioni che l'autonomia disegna affinché esse, da paradigmi di diritto normato divengano, per successive approssimazioni e mediazioni, paradigmi di diritto vissuto. Il diritto infatti, contrariamente a quanto avverte la generalità delle persone, non finisce con le leggi e i regolamenti, ma s'incarna nei comportamenti, dai quali dipende in ultima analisi la sua effettività.
Il vero pregio dell'articolo 21 della legge n. 59 del 1997 e del regolamento sull'autonomia didattica e organizzativa è quello di intervenire sulle relazioni giuridiche società-educazione-sviluppo e insegnamento-apprendimento liberandole dalle logiche che le volevano codificate nei minimi particolari e ingessate nei tempi e nelle modalità per attribuire loro capacità di adattamento alle nuove esigenze della società e dei singoli.
Si tratta sempre, e dobbiamo esserne consapevoli, di diritto, ma di un diritto che non pretende più di "cristallizzare" la relazione, bensì contiene al suo interno elementi di flessibilità che consentono, sul presupposto della validità della relazione fondamentale - dovere di educare-diritto all'educazione - di aggiornare costantemente la relazione stessa, rinnovandone metodi e contenuti.
È bene qui ricordare che il diritto non precede mai le evoluzioni della realtà sociale, ma le registra, le interpreta, le fissa in regole che trovano la loro positiva sanzione nell'adesione spontanea dei destinatari. Esso è raramente innovativo in senso proprio e nella maggior parte dei casi non inventa regole, ma coglie il bisogno di regole espresso dalla società, esprimendo il frutto di una mediazione tra spinte di innovazione e di conservazione. Quando la mediazione riesce, il diritto esprime il massimo di innovazione tollerabile in una società in un tempo determinato. Tutto ciò che pretende di inventare e sancire oltre la mediazione tollerabile diventa oppressione oppure resta inapplicato.
Ci sono molte disposizioni che mi piace definire "profetiche", disseminate nel nostro ordinamento, che non hanno mai trovato applicazione.
Prendiamo ad esempio l'articolo 82 del Testo unico dell'istruzione, tratto dall'articolo 11 della legge n. 845 del 21 dicembre 1978, che prevedeva per coloro che avessero (sbaglio, "che abbiano", perché si tratta di norma vigente) conseguito una qualifica mediante la frequenza di formazione professionale o direttamente sul lavoro, la possibilità di accedere direttamente alle diverse classi della scuola secondaria superiore. Aggiunge invero la norma "secondo le modalità previste dal relativo ordinamento. E poiché l'innovazione è stata avvertita come insostenibile, le modalità non sono state mai definite. E pur avendo l'ordinamento una norma che istituzionalizzava i crediti formativi e i passaggi dall'uno all'altro sistema, abbiamo dovuto riscrivere tutto daccapo nella attuale riforma.
Facciamo un altro esempio. Il vecchio regolamento di contabilità delle scuole prevede la possibilità che esse facciano investimenti finanziari, contraggano mutui, acquistino beni mobili e immobili di ogni specie e natura. Era troppo per quel tempo. Le istruzioni applicative hanno quasi subito ridimensionato le pretese degli innovatori che predisposero il testo.3. LA NECESSITÀ DELLA MEDIAZIONE
Credo che tutti noi ci auguriamo che non resti solo una profezia quanto è stato scritto nel regolamento dell'autonomia, che - pur tra mille distinzioni - accoglie esigenze e richieste provenienti dalla scuola e dalla società intera.
Dal punto di vista della interpretazione e dell'attuazione ci si deve però rendere conto che, nel caso dell'autonomia, esiste anche un altro rischio. La nuova pedagogia delle competenze potrebbe infatti arenarsi in un dibattito scientifico elevato che rifiuti tempestive mediazioni che consentano l'azione diretta degli operatori di prima linea: i protagonisti di un dibattito scientifico sono infatti quasi sempre restii a cristallizzare nel diritto risultati parziali e non ancora del tutto sperimentati.
In proposito si deve ricordare che il diritto esprime anche il frutto della mediazione tra la scienza e il sentire sociale e che la società, nei settori che più colpiscono la vita delle persone, non sempre è disposta a metabolizzare risultati scientifici sofisticati.
Un esempio tipico in materia è la legge che ha disciplinato l'accertamento dello stato di morte. La scienza sa che ci sono, oltre alla morte celebrale intesa come cessazione delle funzioni superiori, altre situazioni assolutamente irreversibili, ma la società non è pronta ad accettare talune conclusioni e la legge ha compiuto la sua mediazione arrestandosi qualche passo prima.
Ciò vuol dire che nell'attuazione della norma, che di per sé esprime e definisce la mediazione, la scienza deve farsi umile e accettare i limiti imposti dalla mediazione stessa. In altri termini occorre trovare il coraggio di attestare il proprio lavoro sul livello medio tollerabile, indipendentemente dall'evoluzione del pensiero e dagli approfondimenti del dibattito che solo lentamente condurranno alla maturazione che consente di fare ulteriori passi.
Le critiche sono inevitabili e arriveranno puntuali. Chi non ha il coraggio di accettarle, di scontarle in partenza, è meglio che rinunci a lavorare in quel mondo delle relazioni concrete che è il diritto, i cui operatori sanno che non vedranno mai, in tutta la loro vita, un provvedimento perfetto.