Lettera di Luciano Locci a Paolo Ermano


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Caro Ermano,
Ti ringrazio per avermi invitato all'incontro dell'autoriforma gentile e chiedo scusa per questi pochi pensieri che ti arriveranno forse un po' in ritardo...
E' difficile, penso anche per te, interpretare le esigenze delle colleghe che operano nelle scuole elementari; meno complesso di quanto possa sembrare, forse, è il cercare di trovare delle risposte ad alcune delle questioni di carattere generale che sono state sollevate nel corso di quell'incontro.
Abuserò dello stile informale e frammentario che ha caratterizzato l'incontro per raccogliere le idee.
Cominciamo da alcuni limiti, o meglio, da lacune tentazioni.

IL RISCHIO DELL'AUTOCOMPIACIMENTO INTELLETTUALISTICO
Bisogna guardarsi dal piacere per l'analisi che ritorna su se stessa, dalla tentazione di presentare come eccezionali, epocali o complessi fatti che potrebbero rientrare in un contesto interpretabile (più o meno semplicemente decifrabile, ma comunque leggibile...). Insomma, c'è il pericolo di un "narcisismo intellettualistico" che può rivelarsi, alla lunga, persino controproducente e sterile. Ho trovato questo limite nell'intervento della giovane collega che ti stava accanto e che cercava di dare una risposta al silenzio delle maestre dinanzi al parlare dei maestri, o che si stupiva del mutamento dei ragazzi e del loro atteggiamento dinanzi al sapere nel corso degli anni.
Io ricordo che per me la maestra era la più bella insieme alla mamma, mentre con l'adolescenza il rapporto con gli adulti ed i loro insegnamenti diventa conflittuale, e sono le esperienze con il gruppo, con i coetanei ad essere significative. Gli adolescenti entrano ed escono costantemente da una sorta di "recinto": il ruolo degli adulti con loro è spiacevole e scomodo perché consiste nel dover porre delle regole pur sapendo che queste verranno infrante; gli adulti devono rassegnarsi ad esser contestati, provocati, per poi essere cercati nel caso di reali problemi...
Sono banalità che, tuttavia, non bisogna mai dimenticare.

IL FEMMINISMO
Molte di quelle donne provengono da un'esperienza politica e sociale assolutamente importante e significativa che le ha formate, anche da un punto di vista culturale, oltre che umano. Ma, anche in questo caso, il porre alcune questioni in termini di "androcentrismo" o di "prevaricazione maschilista" significa rischiare di fermare lo sguardo, rifugiarsi dietro ad un comodo ma schematico strumento interpretativo del reale che nega la possibilità di cogliere dinamiche più complesse, di proporre critiche più sistematiche che non possono non essere politiche e che non possono non investire l'organizzazione complessiva della società (vedi la mia precedente lettera a questo proposito...)

LA PERCEZIONE DELLA CRISI
Un altro atteggiamento rischioso, "invischiante" è compiaciuto soffermarsi alla percezione della crisi, l'ostentazione dello spaesamento, a cui corrisponde il rifiuto a confrontarsi con aspetti evidenti. Ad esempio: i ragazzi sono cambiati perché le famiglie e la società sono oggetto di un processo di omologazione conformistica violenta, incessante; il pensiero critico, l'impegno politico e civile sono stati mortificati; valori fondamentali sono stati dimenticati e calpestati. Nella scuola dalle elementari fino alla laurea i giovani sono perfettamente incasellati dalle strutture burocratiche e formali, di quel sapere che io chiamo "grammaticale": dalla più tenera età fino alla laurea sono in balìa di moduli, griglie, test, prospetti, schemini, prove oggettive e di livello, prerequisisti e meschinità varie. (vedi lettera precedente...)
Talvolta gridiamo allo scandalo anche se, in fondo, conosciamo bene le ragioni di quell'insensibilità estetica o morale.

LA CONFUSIONE INTORNO AL NOSTRO RUOLO
Il discorso della Pancheri, collega che già conosciamo quale persona intelligente e brillante, è forse legato ad un momento molto particolare del suo vissuto. Ovviamente rispetto profondamente i suoi sentimenti; però credo che pensare di voler insegnare "a sopportare il dolore" sia ambizioso, velleitario forse, e quindi persino pericoloso, frustrante e autolesionistico. Così come quest'insistenza sugli sguardi, sull'intesa: attenzione all'esasperazione dell'elemento relazionale ed affettivo! Può rivelarsi una strada pericolosa e torbida... La gioia e il dolore s'imparano vivendo e noi siamo una componente importante ma marginale dell'esistenza degli adolescenti. Il rapporto con gli adolescenti è "invischiante" ma da quella torbida vischiosità, a mio parere, bisogna tenersi fuori.
Profondamente diverso il discorso della corporeità e dell'affettività del bimbo. Ma con gli adolescenti occorre essere una porta aperta, essere presenti, avere un enorme capacità d'ascolto, essere sempre disponibili al dialogo quando un allievo, ad esempio, ti si avvicina a parlare, ma mai procedere oltre. Io cerco sempre di non crearmi una "corte". Ecco perché sono contrario al docente di lettere che tiene la classe per 5 anni di seguito. Il rischio è divenire il prof. papà, e non va bene. Desidero che si possano confrontare con delle alternative alla mia concezione del mondo, al mio stile, ai miei valori, al mio gusto estetico - letterario, al mio approccio alla cultura, al mio modo di condurre i dibattiti sui testi ecc. ecc.

IL MIO LAVORO
A dire il vero, non credo neppure che il senso del mio lavoro sia aiutare gli adolescenti, prepararli in vista del loro inserimento nel mondo del lavoro, o per il loro futuro. Almeno non direttamente.
Se io volessi aiutare i miei allievi a vivere nel modo meno traumatico possibile, dovrei affermare in modo convincente, ad esempio, che il lavoro flessibile è un'auspicabile prospettiva anche per l'Italia. Se volessi aiutare i miei allievi dovrei cercare di rafforzare in loro il pragmatismo, l'utilitarismo, l'arrivismo, il conformismo. Per non soffrire dovranno adattarsi ed essere convinti che quello che faranno è bene.
Ogni alternativa al sistema dominante di valori comporta un certo grado di sofferenza. Dunque se c'è una cosa che non faccio, è l'aiutare i miei allievi a vivere felici in questo mondo. Esercitare lo spirito critico oggi è scomodo e faticoso.
In fondo non desidero neanche preparare i miei allievi ad essere vincenti all'università. Quest'ossessione produttivistica, addirittura mi infastidisce, da sempre; ma ultimamente l'irritazione è insopportabile, perché in nome di questo credo la scuola si sta spersonalizzando, disumanizzando, per divenire una fabbrica di grammatiche e di funzioni oggettivamente misurabili.(Ma so anche che è impossibile fare un'affermazione del genere a scuola: non sarebbe compresa, sarebbe vissuta come un'eresia...)
Odio il determinismo applicato all'apprendimento. Non m'interessa come s'impara! E' la motivazione che è importante. Ad esempio, ritengo che non abbia alcuna utilità insegnare a prendere gli appunti: ognuno sviluppi con l'esperienza uno stile personale.; ciò che conta è che sia un'esperienza significativa e culturalmente rilevante quella che viene loro proposta. Odio il pedagogismo che imperversa. Questo credo deterministico ha prodotto nella scuola danni irreparabili, mortificazione di libertà ed energie intellettuali. Non credo nei percorsi e nelle tappe; ultimamente sto giungendo a posizioni ancora più estreme dinanzi alla domanda relativa alla "ricaduta" di una lettura o di una lezione, di un intervento. Sulla mia pelle ho osservato che tutto procede per strappi, talvolta incredibili, e non c'è linearità. I ragazzi confermano questo fatto. I saperi, le esperienze, il vissuto culturale dei ragazzi si interseca, si fonde; l'importante è che gli ingredienti siano di qualità... Noi pretendiamo di guidare sterilmente e in modo schematico e meccanico queste intersezioni, che se lasciate libere darebbero sicuramente frutti migliori ed insperati.
La nausea insopportabile per la scuola "grammaticale" e produttivistica mi ha portato a trascurare la grammatica nel biennio; ho notato che a quell'età possono cominciare ad amare il pensiero, la riflessione critica, l'analisi, la discussione, anche la complicazione del pensiero. (Pasolini diceva che un mondo senza complicazione è vuoto e persino pericoloso; ed ho scoperto che a molti ragazzini questa frase piace..). Ho sempre avuto la sensazione che la scuola grammaticale uccida i ragazzini di prima, sia mortificante , opaca. La scuola deve essere una scuola di civiltà e di cultura e bisogna cercare di fare cultura fin dalla prima. Ai ragazzini piace la sfida del pensiero: non vogliono ripetere le medie, sono stufi di aggettivi, pronomi; in fondo, vogliono sentire altro. Ricordo di diversi genitori che mi hanno riferito che i loro ragazzi andavano fieri del fatto che con me trattavano argomenti "grandi e complessi"; si sentono grandi, si sentono crescere, e questo è bene. Paradossalmente, la complessità che loro contestano è al tempo stesso per loro motivante e gratificante.

FARE SCUOLA DI RESISTENZA
Io voglio che i miei allievi amino la cultura e la lettura, il pensiero critico e la riflessione; vorrei che la loro posizione nei confronti del mondo non sia passiva e conformistica. Penso che la scuola debba parlare di valori, di valori traditi, di diritti negati (anche attraverso la letteratura). E siccome la letteratura e la cultura è bella soprattutto per i suoi contenuti, per i valori che trasmette, su ciò che ci dice sull'uomo, oltre che per le sue forme, cerco sempre di porre in primissimo piano i contenuti. Credo che su questo versante ci sia un'emergenza assoluta.
Questa società non ci piace e non ci piace la sua scuola: il pedagogismo demagogico, la centralità delle grammatiche, le sue funzioni obiettivo, ecc. ecc. Che fare allora? Si tratta semplicemente, nella realistica consapevolezza della marginalità di quest'azione, di resistere. Tutto qui. Civilmente, pacificamente, costantemente, serenamente...resistere: opporre le nostre istanze, la nostra libertà umana e culturale a chi vorrebbe vedere allievi e professori irregimentati. In fondo è tutto qui.
Resistere oggi significa anche accettare, talvolta, di essere scomodi ed inutili: rispetto agli obiettivi di integrazione sociale, professionale ed ideologica molto del mio lavoro è inutile e persino controproducente e scomodo. Benissimo.
Del resto le colleghe che abbiamo incontrato alla libreria delle donne vivono questo principio con molta più determinazione di me...! E quindi il loro dirsi spaesate era, in fondo, una dichiarazione "retorica"!
Certo, bisogna imparare oggi a rispondere colpo su colpo. Storace ci attacca e intende censurare i libri di testo? Noi rispondiamo tappezzando la scuola di mostre sulla Resistenza e organizziamo corsi e incontri! La provincia leghista e il quotidiano "la Padania" lanciano l'iniziativa sul federalismo di Carlo Cattaneo? Noi la denunciamo e la contestiamo... Bisogna essere vigili, valorizzare tutte queste realtà del dissenso, incoraggiarle e sostenerle: il sindacalismo di base, l'autoriforma gentile, i diffusi attacchi al pedagogismo, certe riviste on line come Filo Rosso, ecc. ecc. Dare vita, sostenerle nel nostro piccolo, affinché vivano e riescano a coordinarsi (ma questa, politicamente, l'operazione più difficile e forse utopica...).

NON BISOGNA ADATTARSI
Penso che sia scorretto il ragionamento molto diffuso che dice: "i ragazzi sono cambiati rapidamente, oggi parlano il linguaggio della TV e dei fumetti, di Dilan Dog, e di Internet. Ergo per interagire con loro devo utilizzare il loro linguaggio: la lezione deve essere multimediale ed è preferibile ricorrere al filmato anziché alla lezione frontale o alla lettura, perché per loro il libro sa di stantio e di vecchio."
Niente di più errato. Faccio un esempio. La IA è notoriamente una classe mediocre. Ho letto un giorno le polverose ed ingiallite prime pagine di Delitto e castigo. Volevo far osservare loro come un maestro del romanzo rappresenti la coscienza interiore, il conflitto interiore. Non so se ci sono riuscito (forse no!), ma alcuni allievi, spontaneamente, stanno leggendo con entusiasmo Delitto e castigo!
Difendere il libro, il dibattito, fare un uso intelligente degli strumenti multimediali, dopo aver usato parole di fuoco su quello che è internet oggi, assumere un atteggiamento critico sulla demagogia del computer; privilegiare il dibattito critico: questo è importante fare oggi.
A maggior ragione non dobbiamo adattarci ai ragazzi, se riconosciamo che sono divorati da merci pseudo culturali; a maggior ragione i ragazzi oggi hanno bisogno di scoprire forme nobili e qualificate di pensiero e di comunicazione; a maggior ragione oggi devono leggere un buon libro, vedere un bel film, discutere.

NON BISOGNA ATTUALIZZARE
Molti colleghi sono convinti che "attualizzando" un contenuto si ottenga l'immediato coinvolgimento e partecipazione degli allievi. Rischiano involontariamente di essere patetici. Il riferimento al reale talvolta è inopportuno, inadeguato scorretto, semplicistico e forzato; si rischia di banalizzare, inutilmente, perché non è vero che un riferimento al reale sia garanzia di un coinvolgimento degli allievi o di comprensione. I ragazzi devono imparare al contrario a non banalizzare, a non procedere attraverso grossolane semplificazioni, addirittura a verificare puntualmente certe relazioni che sembrerebbero evidenti. Da questo punto di vista l'esame di maturità, con il suo demagogico culto dell'interdisciplinarità, è un crimine contro la cultura.(intendiamoci, non ho niente contro un'interdisciplinarietà di qualità...)
La sfida è un'altra: riuscire a spiegare e a far amare un testo letterario o un'opera d'arte nella loro specificità e autonomia, strappare la cultura dall'odioso "a cosa serve, a cosa è utile" che la mortifica e la uccide...
Piuttosto che "attualizzare" occorre parlare della realtà, mantenere una finestra aperta sulla realtà contemporanea.

DON MILANI
Qualcuna delle colleghe ha citato don Milani. Oggi molte delle posizioni di don Milani sono impraticabili ma alcune caratteristiche del suo lavoro devono essere recuperate.
a) La centralità del testo, della lettura e della discussione. Tempo fa avevo letto un'intervista agli ex allievi di Don Milani. Decisi di usare una classe da cavia ed ho fatto leggere loro alcuni libri che don Milani proponeva ai suoi ragazzi: il Pilota di Hiroschima, l'autobiografia di Gandhi. Sono nati dibattiti interessanti sul pacifismo, la non violenza, il senso della lotta che qualifica l'esistenza. E' stata una bella esperienza... I ragazzi devono provare la sensazione di vivere con l'insegnante un'esperienza culturale.
Da allora confortato da un bel saggio di Luporini, l'insegnante come intellettuale, credo che il testo e la sua discussione debba essere uno dei centri nevralgici della scuola.
b) La scuola aperta, aperta agli altri, alla cultura viva, alle testimonianze ai dibattiti. Talvolta, ma certamente più spesso di quanto accada, noi dobbiamo uscire di scena e favorire incontri di alto valore culturale ed umano che siano motivanti per gli allievi (e per noi). La testimonianza della guatemalteca e il suo ricordo degli orrori sotto il regime, la sua paura ancora viva, o l'incontro con Maris sono momenti molto importanti per noi e per gli allievi. Ma il dibattito, il confronto dovrebbero essere molto più frequenti. Talvolta penso che i ragazzi dovrebbero persino sentirci discutere...

I LIMITI DEL CONFRONTO CON LE MAESTRE
Non so fino a che punto sia possibile questo confronto, tuttavia emergono degli elementi "strutturali" molto significativi (né so fino a che punto si possa parlare di scuola o non sia meglio parlare di scuole!). Su altri aspetti penso che il confronto sia improponibile. Occorre procedere con prudenza, ma sono certo che le nostre colleghe saranno bravissime.

Un caro saluto
Locci

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