Cari colleghi,
avendo pensato di inviarvi questo articolo di cronaca tratto dalla pagina bolognese della Repubblica, immaginavo qualche parola di commento; però ho deciso di frenarmi per non entrare in polemiche che poi non saprei sostenere fino in fondo. Eppure sento il bisogno di trasmettere anch'io un disagio: quello che mi deriva dal non sapermi opporre ad un'offensiva che non chiama in causa i comportamenti individuali ma quelli spersonalizzanti del collettivo. In un articolo scritto così, o in una vicenda vissuta così com'è scritto la nostra studentessa diventa l'icona della vittima e, per converso, la professoressa sua presunta persecutrice quella del carnefice.
Così, nei miei comportamenti didattici, io insegnante sono chiamato a dare continue rassicurazioni circa la preventiva repressione dei miei istinti omicidi da parte di me stesso oppure da parte dell'istituzione. E a questo punto tutti comprendiamo che vivere in questo modo la propria professione diventa davvero poco interessante...
Che ne dite?
P.S. - Convinto come sono che il suicidio sia effetto dell'annullamento della comunicazione (opinione personalissima come tutte quelle sul suicidio), credo che la scuola dovrebbe alzare e non abbassare il livello della comunicazione e della crescita culturale per prevenire questi esiti infausti.
Alla ragazza la mia più completa solidarietà, ma non contro la collega...
Vedi articolo comparso nelle pagine bolognesi di Repubblica del 30 settembre 2000: "E' stata spinta al suicidio per colpa della scuola".