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Numero 1

 


 

 

 

 

3200 ricercatori 160 giornalisti 791 relazioni e poster 91 sessioni 5 giorni di lavori I membri delle associazioni presenti "di nascosto"

 

 

Terapia antiretrovirale affiancata a trattamenti immunostimolanti, resistenza virale, gli ultimi risultati delle sperimentazioni sui farmaci e gli aggiornati dati epidemiologici

"Il punto sullo stato dell'arte della terapia Anti HIV sarà fatto da uno scienziato italiano: Stefano Vella, Presidente della International AIDS Society"

VI Conferenza sui Retrovirus, Chicago 31 Gennaio - 4 Febbraio 1999

Si è aperta ieri a Chicago la VI Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections. Ad animare i cinque giorni di lavori si sono dati appuntamento 3200 ricercatori di fronte ai quali 160 giornalisti daranno conto delle ultime acquisizioni in tema di epidemiologia, ricerca di base e di terapia. Rispetto alle grandi conferenze mondiali sull'AIDS sembrano numeri apparentemente piccoli, per un congresso che secondo alcuni rappresenta il convegno di maggior livello scientifico nel campo delle terapie dell'AIDS.

Numerosi motivi rendono interessante questo meeting, primo tra tutti i nuovi risultati ottenuti in studi clinici, affiancando ai farmaci antiretrovirali tecniche di terapia immunologica.

Resistenza virale, nuovi farmaci, i più recenti dati epidemiologici e lo scenario AIDS del prossimo futuro saranno delineati nel corso del Congresso da scienziati quali D. Richman, presidente del congresso, A. Fauci, direttore del programma AIDS del NIH statunitense, J. Mellors dell'Università di Pittsburgh.

Pertanto, a Chicago la parola spetta ora alla scienza ma, nonostante la consapevolezza della necessità di rendere fruibili nel più breve tempo possibile nella società i risultati e le novità, è proprio ai rappresentanti di quest'ultima che è impedito a partecipare a questo appuntamento scientifico a causa della legge, tuttora in vigore, che vieta alle persone sieropositive l'ingresso negli Stati Uniti. Non basta dover dare false dichiarazioni sul proprio stato sierologico. Le persone perquisite in dogana, che trasportano farmaci antiretrovirali sono rispedite in dietro. Il dibattito si è acceso all'interno delle associazioni europee, ma gli organizzatori della conferenza non offrono soluzioni e chi di noi ci è andato si è dovuto servire di un "portaborse americano".

Quest'anno a tracciare lo stato dell'arte delle terapie anti HIV è un italiano - Stefano Vella, del laboratorio di virologia dell'Istituto Superiore di Sanità, nonché neo presidente dell'International AIDS Society.

 

 

 

 

"Dobbiamo essere immaginativi e andare oltre. Non possiamo riposare sugli allori"

 

 

 

 

''se non impariamo presto a nuotare, l'onda lunga dell'AIDS ci riporterà sott'acqua''

 

 

 

 

''attenzione che questa fase della lotta contro l'AIDS non è né la fine né l'inizio della fine, è semmai, forse, la fine dell'inizio''

 

 

 

 

''abbiamo solo il 60-80% di risposta alle terapie ed è inaccettabile''

 

 

''sono necessarie strategie focalizzate sul paziente per sostenere e migliorare l'adesione alla terapia''

 

''Proprio oggi, da questo convegno appare il tassello che ci mancava''

"Abbiamo evidenza del ruolo che può svolgere il sistema immunitario se adeguatamente stimolato''

 

''è possibile rivisitare il concetto di eradicazione, dandoci ragioni concrete per sperare al meglio''

 

Vella: ''La ricetta per battere l'HIV? Immaginazione e farmaci più potenti''.

Abbiamo chiesto a Stefano Vella, Direttore del Laboratorio di Terapia Antivirale dell'Istituto Superiore di Sanità, di fare il punto della lotta contro l'AIDS in apertura del Congresso.

''Dobbiamo essere immaginativi e andare oltre. Intendo dire che non possiamo riposare sugli allori: è vero che per tutto il '98 abbiamo visto curve in discesa, cioè che è morta molta meno gente di AIDS e che meno persone con AIDS hanno avuto bisogno di essere ricoverate in ospedale. Ma non basta, non ci può bastare''.

Intende dire che nonostante i successi delle terapie, ragione per cui vediamo ridursi i casi di AIDS, in realtà a questo non corrisponde una diminuzione dei contagi tra la popolazione?

'Sono un clinico e alla clinica mi riferivo dicendo che tutto questo non può bastarci, purtroppo. Lo dico parafrasando una celebre frase di Churchill: attenzione che questa fase della lotta contro l'AIDS non è né la fine né l'inizio della fine, è semmai, forse, la fine dell'inizio: anche Napoleone aveva vinto grandi battaglie e poi gli si è parata contro Waterloo...''

Un Vella pessimista non lo avevamo mai visto!

''Né mai lo vedrete: sono entusiasta di dove siamo arrivati, anche per i tempi con cui ci siamo arrivati. Occorre pero' essere consapevoli di dove stiamo. Secondo me oggi siamo riusciti a mettere la testa fuori dall'acqua, ma siamo ancora al pelo dell'acqua, per questo anche l'onda più banale rischia di farci ritornare sotto. In altri termini oggi è come se credessimo di poter curare la tubercolosi con tre farmaci, mentre tutti sanno che ne occorrono quattro''.

Un problema di numero di farmaci...

''No. Un problema di potenza. Il numero problematico è un altro: abbiamo solo il 60-80 percento di risposta alle nostre terapie, ed è inaccettabile. Se guardiamo ad altre patologie e ai farmaci utilizzati per le terapie.

Vediamo che gli anti-ipertensivi hanno più del 98% di risposta, gli anti-diabetici poco meno. Sono i farmaci antiretrovirali che abbiamo a non essere sufficientemente potenti. Ogni aumento della disponibilità di singoli agenti e di combinazioni terapeutiche più potenti si è tradotto in un progressivo beneficio clinico.

Purtroppo la triplice non basta, e non bastano i farmaci che oggi abbiamo. Se si riflette per un attimo sul fatto che alcuni compartimenti dove il virus si annida, come è il caso dei macrofagi e del sistema nervoso centrale, non sono raggiunti sufficientemente o affatto da alcuni componenti della triplice, quali gli inibitori della proteasi, ci si rende facilmente conto che, almeno là e purtroppo anche in altri compartimenti, la nostra triplice è in realtà una duplice terapia e nel tempo, lo si vede, il rischio di fallimento è notevole''.

Oltre alla scarsa potenza dei farmaci attualmente disponibili, vi sono altri motivi che spiegano il possibile fallimento delle terapie?

''Sicuramente l'effetto terapeutico delle combinazioni di antiretrovirali può essere compromesso se i pazienti non assumono le pillole, se le prendono in quantità differenti da quelle necessarie o fuori dai tempi previsti oppure ancora se non seguono le istruzioni relative all'assunzione dei farmaci rispetto al cibo. È d'altro canto piuttosto evidente che, il pensare che regimi terapeutici tanto complessi possano essere seguiti senza un sostegno pratico, risulta alquanto ingenuo se non addirittura sinonimo di arroganza.

È quindi necessario garantirsi l'elevata adesione mettendo in atto delle strategie volte a sostenere e migliorare l'adesione che siano focalizzate sul paziente, sui clinici, sulla relazione tra i due e sugli aspetti sociali dell'infezione''.

Allora nell'arco di due anni si consuma il disincanto?

''Ancora una volta devo dire di no. Lo ripeto dobbiamo essere immaginativi, elaborare nuove strategie, avere farmaci più potenti e facili da gestire per poter sull'immediato definire regimi terapeutici di mantenimento che consentano una maggiore aderenza alle terapie senza sacrificare la potenza. Per questo non sono pessimista, il mio è semmai un realismo che fa leva sulla consapevolezza per chiamare a raccolta con entusiasmo tutti coloro che nella lotta contro l'AIDS sanno e possono dare il loro contributo: ricercatori, clinici, industrie e organizzazioni non governative sullo stesso fronte d'impegno che deve sempre essere pronto a rinnovarsi per fronteggiare l'estrema variabilità di questa malattia.

E poi oggi, proprio da questo congresso, sia pure con qualche anticipazione nei mesi scorsi, abbiamo quello che appare a tutti come il tassello che ci mancava, la prova del controllo immunologico dell'aggressione del virus. Per questo credo che l'eradicazione dell'HIV dall'organismo sia un problema di oggi. Quando se ne iniziò a parlare si pensava, con i mezzi e il bagaglio di conoscenze di allora, che sostanzialmente con la sola terapia antiretrovirale il virus alla fine se ne sarebbe andato da solo: tenendo premuto l'acceleratore la capacità di inibizione della replicazione virale sarebbe stata tale da eliminare nei fatti il virus.

Oggi sappiamo che non è così. Appare banale, ma sappiamo che il virus non se ne va da solo. Ma oggi abbiamo evidenze del ruolo che può svolgere il sistema immunitario se adeguatamente stimolato. Alla luce delle specifiche risposte immunitarie che numerosi lavori riportano è possibile allora rivisitare il concetto di eradicazione, dandoci ragioni concrete per sperare al meglio e per definire efficaci strategie indirizzate verso quei serbatoi, quei compartimenti dove il virus si nasconde in fase latente, pronto a riuscire in circolo a replicarsi se non lo si neutralizza rapidamente''

 

 

Tutti i numeri dell'epidemia

0 Nessun caso di AIDS è stato segnalato in bambini emofilici italiani dal 1993 ad oggi.

1.5 La percentuale dei casi pediatrici sul totale dei casi di AIDS in Italia.

3 I milioni di adolescenti che ogni anno contraggono una malattia a trasmissione sessuale, negli USA.

4 Si sono quadruplicati i premi per le assicurazioni sulla vita, in Zimbabwe, negli ultimi due anni, a causa dell'aumento delle morti per AIDS.

9 Donne sieropositive su 10, nei paesi in via di sviluppo, non sanno di esserlo.

10 Percento di crescita del numero delle infezioni da HIV nel mondo, lo scorso anno.

11 Persone (uomini, donne, bambini) che ogni minuto, nel 1998, si sono infettate.

12 Percento di tutti i casi di AIDS diagnosticati nello Stato di New York nel 1996 è a seguito di contagio per via eterosessuale.

15 I farmaci a disposizione delle persone sieropositive statunitensi per curarsi contro i dieci in Italia

20 La percentuale dei casi di AIDS a seguito di contatti eterosessuali, in Italia, lo scorso anno.

31 Età media , nelle donne, al momento della diagnosi di AIDS, in Italia.

33 Età media , nei maschi, al momento della diagnosi di AIDS, in Italia.

40 La percentuale di donne gravide sieropositive, nella città di Mutare in Zimbabwe.

43 La percentuale di donne tra tutti I sieropositivi nel mondo con età sopra i 15 anni.

61 Bambini ogni 1000 nati in Sud Africa, si prevede muoiano prima di raggiungere un anno di vita nel quinquennio 2005-2010.

65 La percentuale sul totale dei casi di AIDS attribuibile all'uso di sostanze stupefacenti per via endovenosa, in Italia.

66 La percentuale di riduzione di morti per AIDS osservata negli USA, nel biennio 1995-1997.

70 I progetti di lotta contro l'AIDS, nel mondo, sostenuti dalla World Bank dal 1986 ad oggi per un impegno finanziario di 800 milioni di dollari.

95 La percentuale di casi pediatrici di AIDS a seguito di trasmissione verticale, in Italia, nel 1998.

660 I casi di AIDS pediatrico, in Italia, dall'inizio dell'epidemia ad oggi.

1982 Anno della prima diagnosi di AIDS in Italia.

5.274 Patologie indicative di AIDS, in Italia, dall'inizio dell'epidemia ad oggi.

5.500 Il numero di funerali al giorno che, si stima, siano celebrati nell'Africa Sub-Sahariana a causa dell'AIDS.

16.000 Le persone che contraggono l'infezione da HIV ogni giorno nel mondo.

28.000 I bambini che sono rimasti orfani, nella città di New York, a causa dell'AIDS.

33.185 I casi di AIDS nei soggetti di sesso maschile in Italia.

34.000 I lavori sull'HIV/AIDS pubblicati nel 1997 su riviste indicizzate.

42.899 I casi cumulativi di AIDS, in Italia, dall'inizio dell'epidemia ad oggi.

95.000 Le persone sieropositive stimate in Italia.

700.000 I giovani che si infettano con 'HIV, ogni anno, in Asia e nell'area del Pacifico.

1.100.000 Sono I bambini sotto l'età di 15 anni che hanno contratto l'infezione da HIV nel mondo.

2.500.000 Le morti per AIDS nel mondo nel 1998.

5.800.000 Il numero delle nuove infezioni da HIV che si stima si siano verificate nel mondo lo scorso anno.

13.900.000 Il numero totale delle morti per AIDS dall'inizio dell'epidemia.

27 milioni Il numero delle persone che, nei paesi in via di sviluppo, sono sieropositive all'HIV ma non sanno di esserlo.

40 milioni Il numero delle persone con HIV/AIDS stimate nel mondo per l'anno 2000.

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una combinazione di farmaci mantenuta per una settimana riduce la trasmissione materno-fetale del 37%

 

 

 

 

 

Uno studio condotto in 3 Paesi africani

 

 

 

Nessuna forma di sostituzione del latte materno alle partecipanti nello studio

 

 

 

 

Polemiche sull'eticità dell'uso del placebo negli studi condotti nei Paesi in via di sviluppo

 

 

 

 

 

S Vella: "la distanza esistente tra i Paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo è tragicamente enorme"

 

Schemi terapeutici abbreviati per chi non si può permettere le cure adeguate

Una proposta per la riduzione della trasmissione materno-fetale per paesi in via di sviluppo

Somministrando una combinazione di due farmaci antiretrovirali alla madre durante il parto e continuando la terapia per una settimana sia a lei che al neonato, la trasmissione materno-fetale dell'HIV si riduce del 37%. Questa nuova strategia terapeutica è stata comunicata ieri nel corso della sessione plenaria della 6^ Conferenza sui Retrovirus di Chicago.

Questi dati suggeriscono la possibilità di improntare un metodo per la riduzione del contagio madre-figlio che potrebbe essere praticabile nei paesi africani grazie alla minimizzazione dei costi delle terapie e dell'utilizzo di infrastrutture sanitarie. Prima di questi risultati il regime terapeutico più breve prevedeva il trattamento della madre a cominciare dalla 36^ settimana di gravidanza e doveva continuare per 3-4 settimane dopo il parto.

Lo studio denominato PETRA (PErinatal TRAnsmission) è stato condotto in Sud Africa, Uganda e Tanzania, nell'ambito di un progetto congiunto delle Nazioni Unite (UNAIDS), a cui ha partecipato anche l'Istituto Superiore di Sanità. L'obiettivo era di mettere a punto delle strategie terapeutiche semplificate che consentissero comunque la riduzione del tasso di trasmissione materno-fetale.

Sono stati valutati tre diversi regimi a base di retrovir ed epivir (AZT e 3TC - due inibitori della trascrittasi inversa) nei confronti di placebo. Sono state arruolate 1357 donne, alla maggioranza delle quali però non è stata offerta la possibilità di un metodo di allattamento sostitutivo al seno, una nota fonte di trasmissione del virus.

Dopo sei mesi dal momento del parto la trasmissione del virus risultava ridotta nelle donne che avevano ricevuto il ciclo completo di terapia (inizio alla 36^ settimana e fine ad una settimana di distanza dal parto - 50% di riduzione) e in misura inferiore in quelle che ricevevano la terapia solo al momento del parto e fino ad una settimana dopo (riduzione del 37%).

Nei mesi scorsi vi sono state forti polemiche su questo studio per il confronto con il placebo, il cui uso pone enormi problemi di carattere etico ma anche di metodologia della ricerca. Infatti, per quale motivo è necessario l'impiego del placebo quando il regime abbreviato è confrontato con uno consolidato ? quanto è etico arruolare donne nella speranza di accedere a cure altrimenti non disponibili ? quanto è umano dare la speranza a queste madri che poi vedono i figli contagiarsi perché, nonostante abbiano acconsentito di fare da cavie, non le è stata data la possibilità di accedere al latte artificiale ? e quanto pratico si pensa sia, per i governi poveri, sborsare una somma comunque elevata per mettere in atto una strategia destinata a fallire per l'intervento dell'allattamento al seno ? Vice versa, le opinioni favorevoli a questo studio si sono incentrate sull'impossibilità, comunque esistente in questi Paesi, delle donne sieropositive ad accedere alle terapie antiretrovirali. ''Occorre considerare l'etica sulla base della realtà: nel mio paese il 99% delle persone con HIV non accesso ai farmaci né a cure sanitarie'' ha dichiarato il Dr Pius Okong, del San Francis Hospital di Kampala.

Per quanto riguarda l'effetto negativo dell'allattamento al seno, che in studi di popolazione ha mostrato di incrementare le percentuali di trasmissione da madre a figlio dal 25% al 35%, lo studio PETRA prevede un controllo a distanza di 18 mesi che ne consentirà la valutazione dell'impatto. D'altronde, qualcuno, a conoscenza della realtà di quei Paesi ha ipotizzato che evitare l'allattamento al seno oppure ricevere terapie di lunga durata comporterebbe l'identificazione delle madri come persone sieropositive e quindi favovirebbe fenomeni di emarginazione.

Stefano Vella a cui abbiamo chiesto un parere su PETRA afferma ''La distanza esistente tra I paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo è tragicamente enorme e non è un dramma limitato alla sola infezione da HIV ma va oltre sino a raggiungere profonde implicazioni sociali ed etiche''.

 

 

37 partner sieronegativi con accertata esposizione al virus sono albergatori di un'infezione latente

 

 

 

 

L'HIV può provocare un'infezione latente già in fase molto precoce

 

Virus non completamente eliminato ma mantenuto nelle cellule memoria

 

Alcuni partner "sieronegativi" sono in realtà albergatori di un'infezione latente senza sieroconversione

Thomas Zhu, ricercatore presso l'Università di Seattle, ha presentato uno studio che ha preso in esame, dal 1996 ad oggi, 37 persone che pur avendo un'attività sessuale ad alto rischio di esposizione al virus con i relativi partner sieropositivi, sono risultate persistentemente sieronegativi. Questo studio è riuscito a dimostrare, per la prima volta, che queste persone risultavano portatrici di un'infezione latente. Infatti pur non essendo stato possibile isolare l'HIV dal plasma di queste persone, si sono riscontrate delle sequenze di parte del genoma virale nelle cellule CD4 quiescenti (cosiddette cellule della memoria, deputate a conservare il ricordo dell'esposizione ad agenti esterni per provocare poi una forte risposta immunitaria nel caso di un nuovo contatto con questi ultimi).

Lo studio dimostra che l'HIV può provocare un'infezione latente in uno stadio già estremamente precoce, nonostante l'assenza dei sintomi caratteristici dell'infezione acuta e che esistono persone in cui l'HIV si replica a livelli estremamente bassi o addirittura nulli. Altro dato, apparentemente sorprendente è che in questi soggetti non c'è stata evidenza di reinfezione nonostante le ripetute esposizioni sessuali a rischio.

Zhu ha dimostrato, utilizzando il metodo di quantificazione della carica virale (PCR), che vi sono sequenze virali nelle cellule CD4 quiescenti e di fatto sostiene che non tutti i soggetti eliminano completamente il virus, ma alcuni lo albergano nelle cellule dove rimane silente e non espresso formando quasi un forma di vaccinazione naturalmente indotta.

 

 

 

9 farmaci antiretrovirali in formulazione pediatrica per una terapia di combinazione generalmente efficace

 

 

 

 

2 richieste conflittuali: Inizio precoce della terapia per un'ottimale controllo del virus esposizione agli antigeni per rafforzare la risposta immunitaria specifica

 

 

 

 

Una soluzione possibile: la terapia immunologica

 

Con le terapie di associazione è possibile controllare l'infezione da HIV anche nei bambini

Ma la lotta è ancora aperta e molti problemi devono essere risolti

K. Luzuriaga, del Medical Center di Worcester - Universita' del Massachusetts ha mostrato luci ed ombre dell'armamentario terapeutico per il controllo dell'infezione nei bambini non ancora ottimale. Nel corso della sessione plenaria il Dr. Luzuriaga ha passato in rassegna i possibili approcci che sono attualmente seguiti con i 9 farmaci disponibili per i bambini.

Vi sono molti studi su associazioni di tre farmaci che dimostrano come i potenti regimi terapeutici abbiano un effetto significativo sulla replicazione virale anche in età infantile. Tuttavia, anche nel caso del paziente pediatrico tale controllo può avere una breve durata e sembra che, come negli adulti, il virus può riuscire a sfuggire al dominio terapeutico riprendendo la sua replicazione.

I risultati sono tanto migliori quanto prima si riesce ad intervenire: L'ideale sarebbe cominciare la terapia subito dopo l'acquisizione dell'infezione e di mantenerla nel tempo, come nel caso degli adulti. Rispetto a questi ultimi però, vi è la necessità di garantire l'instaurarsi di una risposta immune specifica nei confronti dell'HIV. Questa risposta può instaurarsi soltanto in seguito all'esposizione continua agli stimoli antigenici del virus che mal si concilia con l'inizio precoce di potenti regimi terapeutici. Infatti, il blocco completo della replicazione virale conseguente all'azione di questi farmaci impedisce la presenza in circolo degli antigeni virali e quindi può compromettere l'acquisizione della risposta immunitaria HIV specifica. Ciò potrebbe spiegare, almeno in parte, lo scarso controllo dell'infezione a lungo termine osservato nei pazienti pediatrici.

I ricercatori si trovano quindi di fronte ad un problema di non facile soluzione: da un lato impedire al virus di replicarsi tramite i farmaci e dall'altro permettere al sistema immunitario di riconoscerlo per aggredirlo con le proprie forze.

Anche K. Luzuriaga ha quindi sottolineato l'estrema importanza di approntare quanto prima farmaci che colpiscano bersagli diversi da quelli attualmente raggiungibili ma soprattutto di sviluppare di terapie immunologiche aggiuntive, da utilizzare in associazione ai farmaci antiretrovirali.

 

 

 

Lipodistrofia o ridistribuzione del grasso corporeo - una maggiore complicanza della terapia antiretrovirale

 

 

 

 

 

 

Obiettivo della terapia: mantenimento dell'efficacia e riduzione degli effetti collaterali

 

Complicanze metaboliche - rischio di abbandono delle terapie

 

 

Aumento dei grassi e zuccheri del sangue, ma limitato rischio di diabete e patologie cardiovascolari

 

 

 

 

 

 

Lipodistrofia anche in regimi non contenenti un inibitore della proteasi

 

Complicazioni metaboliche: l'altra faccia della medaglia delle terapie di combinazione

Tra le complicanze a lungo termine della terapia per l'infezione da HIV la fanno da padrone le alterazioni metaboliche. Tali alterazioni sono caratterizzate sostanzialmente da una ridistribuzione caratteristica del tessuto adiposo superficiale con assottigliamento degli arti e un aumento del grasso su addome e torace. Questa ridistribuzione è accompagnata da un aumento dei livelli di trigliceridi e di colesterolo nel sangue, e da alterazioni del metabolismo del glucosio che possono portare alla comparsa di diabete. Questa sindrome, nota anche come lipodistrofia, è stata osservata a seguito dell'uso di inibitori della proteasi nella terapia di combinazione.

Pertanto, le persone sieropositive in trattamento con farmaci antiretrovirali possono trovarsi di fronte a due aspetti critici e contrastanti della terapia associativa: da un lato la necessità di continuare quest'ultima per periodi indefiniti di tempo al fine di tenere il virus costantemente sotto controllo, dall'altro di contenere gli effetti collaterali che possono complicare tali terapie manifestandosi in forma acuta o in maniera più subdola e silente e a distanza di tempo dall'inizio della terapia.

Quest'ultimo aspetto ha attirato molta attenzione da parte dei relatori in quanto il verificarsi di queste complicanze rende ancora più problematico il rimanere a lungo in terapia e potrebbe comportare l'interruzione dell'assunzione di alcuni farmaci senza che vi siano alternative terapeutiche.

L'aumento dei grassi nel sangue potrebbe aumentare il rischio di malattie cardiovascolari quali l'infarto miocardico. Tuttavia uno studio presentato da C. Grunfeld, del VA Medical Center e Università di San Francisco della California, ha presentato uno studio, basato su modelli matematici e non su dimostrazioni in clinica, che suggerisce un aumento del rischio cardiovascolare, nella misura dello persone in terapia con inibitori delle proteasi, sarebbe aumentato solo dello 0,14%.

Per quanto riguarda l'alterazione del metabolismo del glucosio e la resistenza all'insulina, uno studio condotto da F. Sattler, dell'Universita' della California del Sud - Los Angeles, ha dimostrato che queste alterazioni sono significativamente più frequenti nelle persone il cui schema terapeutico prevede l'utilizzo di un inibitore della proteasi. Tuttavia, l'insorgenza di diabete conclamato non sembra essere un rischio frequente, anche se maggiore di quello osservabile in persone non trattate con inibitori della proteasi. Il significato di queste osservazioni, nella pratica clinica, non tuttora tuttora chiarito.

Controversa è anche la situazione riguardante la lipodistrofia. Le dimensioni del fenomeno sono diversi a seconda degli studi presentati, con frequenza di comparsa variabile dal 2% al 76% dei casi. M. Shambelan, dell'Università di San Francisco, ritiene che l'incidenza di questi effetti nella pratica si possa collocare in vicinanza dei valori medio-alti di questo intervallo.

La lipodistrofia sembra essere di maggiore entità nelle persone che assumono l'associazione di due inibitori della proteasi (ritonavir e saquinavir).

Gli effetti collaterali di tipo metabolico regrediscono dopo l'interruzione del trattamento con gli inibitori della proteasi ma tale interruzione riduce sensibilmente le opzioni terapeutiche valide disponibili alla persona.

Un dato del tutto nuovo emerso durante la conferenza è stato l'osservazione, in almeno due studi, di lipodistrofia anche in persone in trattamento con vari regimi antiretrovirali non contenenti inibitori della proteasi, ma basati interamente su inibitori della trascrittasi inversa (AZT, 3TC, d4T, ddI, ddC, Nevirapina). Alcuni Autori ipotizzano che queste alterazioni siano legate all'uso prolungato di d4T.

In ogni caso il dato è preoccupante, visto che l'alternativa attualmente disponibile, all'uso degli inibitori della proteasi è rappresentata da regimi triplici di inibitori della trascrittasi inversa. Alcuni studi presentati in altre sessioni del congresso dimostrano infatti che, almeno nel breve termine, l'efficacia di questi regimi può essere paragonabile a quella di combinazioni contenenti inibitori della proteasi.

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Adesione alle terapie: per la lotta all'AIDS non basta la potenza dei farmaci

Come seguire le attuali terapie secondo gli schemi di assunzione necessari a garantirne un buon funzionamento?

In molti casi la terapia dell'infezione da HIV obbliga il paziente ad seguire regimi terapeutici di combinazione che comportano la necessità di assumere più farmaci ad orari precisi e con indicazioni diverse per quanto riguarda l'associazione con cibi o altri medicinali. E' stato calcolato che alcuni di questi regimi possono richiede al paziente di assumere 4745 pillole e 1095 dosi in un anno. D'altrone, una corretta gestione di questi regimi - la cosiddetta adesione alla terapia, o compliance, è una condizione necessaria per non pregiudicare i risultati della terapia.

Il problema è più che mai scottante e nel corso della Conferenza sui Retrovirus di Chicago le difficoltà di elevata adesione alla terapia sono emerse come uno dei talloni di Achille della gestione dell'infezione da HIV.

Affinché le terapie siano efficaci bisogna ovviamente prendere i farmaci e l'attitudine a farlo e' influenzata da fattori di varia natura compresa ovviamente la qualità della vita.

Dr. Paterson, del VA Medical Center di Pittsburgh, ha presentato i risultati di uno studio che ha misurato il grado di adesione alla terapia, in persone riceventi associazioni contenenti un inibitore delle proteasi, mediante l'uso di contenitori di pillole a rilascio elettronico. Questi contenitori, in grado di registrare ciascuna apertura del flacone forniscono una valutazione più accurata del numero degli salti di terapie o degli sbagli di orario rispetto al diario in cui le persone devono registrare ogni assunzione di farmaco. In questo ultimo caso, esiste il rischio di sovrastimare la propria adesione, come indicato da uno studio di H. Golin dell'Università del Nord Carolina.

Lo studio di Paterson ha anche dimostrato una correlazione tra adesione e valori della carica virale. Infatti, la percentuale di persone con riduzione della carica virale al di sotto di un limite standard di efficacia è risultata dell'81% nelle persone che hanno mostrato livelli di adesione del 95%, ma solo del 6% di quelli la cui adesione era risultata al di sotto del 70%. La stessa correlazione, si è osservata anche per gli aumenti di livelli dei CD4.

Le implicazioni di queste osservazioni sul piano clinico sono importantissime in quanto dimostrano che l'adesione alle terapie è uno dei fattori che ne determinano il risultato. Mentre in altri settori della Medicina, un'adesione dell'80% è considerata ottimale, per l'infezione da HIV lo stesso livello comporta il fallimento terapeutico nella metà delle persone in terapia.

E' inoltre evidente che coloro che prescrivono e quelli che ricevono le terapie devono collaborare affinché i problemi che possano ostacolare il raggiungimento di un'adesione tanto elevata siano evidenziati ancor prima dell'inizio della terapia. In questo modo diventa possibile concordare dei sistemi che, riducendo gli ostacoli che la terapia può porre alla conduzione di una vita quanto più normale, possano riflettersi in un aumento dell'adesione. In altri casi, medico e paziente potranno concordare di favorire uno schema terapeutico piuttosto di un altro in base ai diversi stili di vita.

E' essenziale che i medici siano consapevoli della necessità di instaurare questo dialogo continuo con i pazienti da loro seguiti. Nello studio di Paterson, infatti, il giudizio espresso dai medici, sull'adesione alla terapia dei propri pazienti è risultato spesso inesatto. Nel 32% dei casi i medici sbagliavano il giudizio ritenendo le persone aderenti quando lo erano scarsamente e nel 45% dei casi stimando una bassa adesione in persone che invece rispettavano i regimi terapeutici per l'80-95%. Questa scarsa capacità dei medici a giudicare l'adesione trova ulteriore conferma in un altro studio presentato da H. Liu, dell'Università di Los Angeles, in cui una persona su quattro di quelle che un gruppo di medici americani riteneva avere una elevata adesione risultava prendere solo l'80% o meno dei farmaci prescritti.

Tra le tante variabili che possono essere correlate con l'adesione, sono stati evidenziati anche fattori legati alla persona quali il grado di scolarità che in uno studio è risultato correlato con l'adesione terapeutica.

Dai vari studi sull'adesione alle terapie emerge l'importanza fondamentale dello sviluppo di regimi terapeutici potenti ma contemporaneamente semplici da assumere, per consentire, alla maggioranza delle persone con infezione da HIV, di avere un'adesione ottimale alla propria terapia.

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Ulteriore alternativa terapeutica: un'associazione di 2 inibitori nucleosidici e un inibitore non nucleosidico della trascrittasi inversa

 

 

 

Tre inibitori della trascrittasi - efficacia simile a alla combinazione con inibitore della proteasi

 

Aumentano le alternative terapeutiche per combattere l'infezione da HIV

Nuovi regimi con potenza ed efficacia simile a quelli contenenti inibitori della proteasi si aggiungono all'armamentario terapeutico a disposizione di medici e persone sieropositive.

A Chicago sono stati presentati vari studi che utilizzano regimi terapeutici contenenti un'associazione di due classi di inibitori della trascrittasi inversa - nucleosidici e non nucleosidici ma non inibitori della proteasi.

Gli obiettivi di questi studi sono molteplici: offrire alternative terapeutiche a persone che non possono o non vogliono assumere gli inibitori della proteasi, risparmiare questi ultimi per le fasi più avanzate dell'infezione, aumentare l'adesione alla terapia tramite l'adozione di regimi semplificati con un numero minore di pastiglie.

Di particolare interesse sono i risultati emergenti da un vasto studio internazionale - denominato Atlantic, che ha visto anche la partecipazione italiana. In questo studio un potente regime triplice contenente un inibitore della proteasi è stato messo a confronto con due altri regimi triplici a base di soli inibitori della trascrittasi inversa: tre farmaci nucleosidici o due inibitori nucleosidici ed uno non nucleosidico. Dopo 24 settimane di terapia i risultati nei tre gruppi di trattamento erano praticamente sovrapponibili con una riduzione della carica virale al di sotto dei limiti di rilevazione intorno all'80%. Lo studio continuerà sino al raggiungimento di 72 settimane di terapia. Sarà allora possibile verificare se il beneficio connesso all'uso di questi regimi si prolunga anche nel tempo.

 

 

 

La salute della donna sieropositiva a convegno

 

 

 

 

 

 

Donne sieropositive: incidenza di lesioni genicologiche da papillomavirus 16 volte superiore a quella nelle donne sieronegative

 

Le donne HIV positive sono ad elevato rischio di cancro vulvovaginale e della cervice uterina

La salute della donna sieropositiva e le diversità delle esigenze di salute tra donne e uomini nel campo della lotta all'AIDS sono tornate alla ribalta nel corso della Conferenza di Chicago. Infatti, sono stati presentati dei dati che dimostrano come le donne con HIV siano a rischio elevato di sviluppare carcinomi vulvovaginali e della cervice uterina. Ciò si è osservato in due studi separati condotti dai ricercatori dei Centers for Diseases Control di Atlanta e della John Hopkins University di Baltimora. La causa di questo maggiore rischio è da ricercarsi nella maggior incidenza di lesioni locali provocate dal Virus del Papilloma Umano (HPV) e dalla sua elevata persistenza a livello vaginale ed uterino nelle donne sieropositive.

L'associazione tra infezioni da HPV e aumento del rischio di neoplasie dell'apparato genitale femminile è da tempo conosciuta. Le donne HIV positive hanno però un'incidenza di lesioni da HPV 16 volte superiore a quella di donne sieronegative.

E' quindi estremamente importante effettuare una diagnosi precoce di infezione da HIV anche per poter monitorare adeguatamente le donne ad alto rischio di sviluppare una neoplasia, in modo tale da identificare qualsiasi lesione in fase precoce e quindi intervenire in tempo.

I comuni metodi che vengono utilizzati nella routine dei controlli ginecologici non bastano però a fare diagnosi di infezione da HPV, come dimostrato da uno studio di CJ Hoesley dell'Universita' dell'Alabama. Il Pap test, da anni utilizzato per evidenziare lesioni neoplastiche dell'apparato genitale femminile non è in grado di escludere la presenza di un'infezione da HPV e devono quindi essere utilizzate tecniche più sofisticate

 

 

 

 

 

Donne vs. uomini: a parità di CD4 - carica virale inferiore

 

 

 

E' necessario aggiustare i valori di carica virale per il sesso per operare le scelte terapeutiche

 

La quantità di virus nel sangue è diversa tra uomini e donne

Il sesso va considerato nell'interpretazione dei risultati della carica virale e quindi nel monitoraggio della terapia

Un importante contributo ottenuto mediante la collaborazione di ricercatori del Catholic Medical Center di New York e della John Hopkins, ha dimostrato che a parità di valori di CD4, le donne hanno valori più bassi di carica virale rispetto a quelli degli uomini.

Questo dato risulta di estrema importanza nella pratica clinica dove la carica virale viene utilizzata per monitorare l'andamento dell'infezione e della terapia antiretrovirale. Se non si tiene conto di questa differenza si può ritenere erroneamente che una donna sieropositiva non abbia bisogno di trattamento oppure, se già in trattamento, che non necessiti di modifiche della terapia. Al contrario, l'aggiustamento del calcolo dei valori di carica virale in base al sesso consentirebbe di evitare questo pericolo.

E' stato quindi richiesto che l'aggiustamento della carica virale in base al sesso venga inserito quanto prima nelle linee guida di terapia antiretrovirale che stabiliscono quando iniziare e se modificare la terapia antiretrovirale.

 

 

 

 

Terapie immunomodulante - un partner da associare al trattamento antiretrovirale

 

 

 

 

IL-2 + terapia di combinazione: verso un più rapido svuotamento dei serbatoi del virus

 

 

 

42% dei pazienti trattati - assenza di virus anche nelle cellule memoria

 

 

 

 

 

 

 

Trattamenti immunomodulanti: farmaci immunosoppressivi dei CD4 proliferanti e vaccini terapeutici

 

 

 

 

 

Il prossimo passo - sospendere i farmaci nei pazienti con assenza di virus nei serbatoi.

 

Ora è possibile ridurre il numero delle cellule cronicamente infette dal virus

Nuove speranze date dalla terapia immunologica associata a quella antiretrovirale - qualcuno riparla di eradicazione

Molti dei 3600 ricercatori riuniti a Chicago nel congresso sui retrovirus sono convinti che, per ottenere un controllo efficace dell'infezione, occorre incorporare strategie di stimolazione del sistema immunitario ai farmaci anti-HIV rivolti contro il virus. Uno studio presentato oggi dal gruppo di Anthony Fauci, direttore del dipartimento AIDS del National Institute of Health ha dimostrato che associando una molecola dotata di azione immunomodulante - l'interleuchina-2 (IL-2) alla terapia antiretrovirale contenente inibitori della proteasi è possibile arrivare a eliminare il virus infettante addirittura nelle cellule non replicanti del sistema immunitario.

Si tratta delle cosiddette cellule memoria, deputate a riconoscere un agente esterno a cui sono gia' state esposte e a sviluppare una risposta immune potente. Queste cellule hanno una vita lunghissima e pertanto rappresentano uno dei principali serbatoi che l'HIV usa per "nascondersi" dagli attacchi delle terapie. Iinfatti, con l'impiego di modelli matematici si è calcolato che a causa della lunga vita di queste cellule sarebbero necessari 23 anni di trattamento antiretrovirale, costantemente efficace, per poter eradicare l'infezione.

Pertanto, negli ultimi anni gli studiosi avevano abbandonato l'idea dell'eradicazione del virus, per concentrarsi di più sulla possibilita' di cronicizzare l'infezione.

Tuttavia, questo recente studio ha rivelato, in 14 persone a cui è stata somministrata interleuchina-2 (IL-2) insieme ai farmaci antiretrovirali, la riduzione della presenza del virus nelle cellule CD4 di memoria circolanti nel sangue. Per di più, in 6 delle 14 persone (42%) è stata evidenziata addirittura l'assenza del virus in cellule memoria prelevate e coltivate in laboratorio.

Vice versa, nel gruppo di controllo dello studio, composto da altre 12 persone che avevano ricevuto solo la terapia antiretrovirale, l'HIV era presente nelle cellule memoria di tutti e 12 le persone.

Si tratta della prima volta in cui è stata ottenuta una assenza del virus in circolo indotta da una terapia. Tuttavia, il basso numero di persone coinvolte nello studio non permette di affermare con certezza che tale assenza non possa essere il risultato di un virus difettoso né di escludere che il virus possa essere ancora presente in serbatoi diversi dalle cellule della memoria (ad esempio linfonodi, testicoli etc.).

''Questo studio dimostra che mediante una terapia immunitaria associata alla terapia antiretrovirale si ottiene un controllo dell'infezione più efficace di quello raggiungibile con la sola terapia antiretrovirale'', è stato il commento di Giuseppe Pantaleo dell'Hospital Beaumont di Losanna, ''e oggi iniziano a diventare più numerosi i farmaci 'immunologici' da testare''.

Si tratta di due tipi di approcci immunomodulanti. Il primo si basa sulla somministrazione di molecole in grado di bloccare in modo selettivo le cellule proliferanti, in cui l'HIV si replica, impedendo loro di entrare nel ciclo cellulare. Il secondo approccio è rappresentato dai cosiddetti vaccini terapeutici. Questi vaccini possono essere composti da frammenti del virus detti vettori virali che, esprimendo solo alcune proteine del virus, inducono una risposta anti HIV senza comportare un rischio di infezione. L'altro tipo di vaccini terapeutici utilizza il virus intero ma ucciso.

"Entro un anno sapremo se questi vaccini funzionano'' afferma Pantaleo. Ma la fretta motiva anche i ricercatori che lavorano sugli altri farmaci immunomodulanti. Infatti, sono attualmente in fase di sviluppo dei gli studi a breve e medio termine. Si tratta di protocolli che prevedono l'associazione della terapia antiretrovirale con immunomodulanti per un certo periodo seguito dalla sospensione della terapia antiretrovirale. I risultati di questi studi deriverebbero dall'osservazione di quello che succede ai pazienti che hanno interrotto la terapia. Il bilancio dei rischio e benefici è pesante: da un lato queste persone possono sperare che, una volta soppresso in modo efficace il virus nei serbatoi, sarà possibile loro vivere senza le costrizioni della terapia antiretrovirale, da un lato rischiano di vedere dopo breve tempo il riemergere della replicazione di virus ancora nascosto in qualche altro distretto cellulare. L'impatto di questo fallimento è notevolmente aggravato dal rischio che il virus emergente abbia subito mutazioni e si riveli resistente anche ai farmaci assunti in precedenza, lasciando le persone che coraggiosamente hanno accettato di essere le cavie per il bene loro ma anche di molte altre persone sieropositive, con alternative terapeutiche molto ridotte.

 

 

 

 

 

 

 

 

Farmaci antiretrovirali e IL-2 nell'infezione acuta - stimolazione di una risposta immunitaria HIVspecifica

 

 

 

 

 

Farmaci antiretrovirali nell'infezione avanzata: recupero di cellule naive e aumento dell'attività delle cellule memoria

 

La rieducazione del sistema immunitario

Ci sono buone speranze per il recupero delle difese immunitarie nelle persone in terapia con regimi anti HIV altamente efficaci

Ci si chiede da molto tempo se il trattamento precoce con potenti combinazioni di farmaci antiretrovirali, possa prevenire il danno al sistema immunitario o se nella persone con un'infezione avanzata sia possibile una ripresa delle funzioni immunitarie compromesse dal virus. Alcuni Autori riuniti a Chicago per la Conferenza sui Retrovirus hanno cercato di fornire delle risposte a questi interrogativi.

E. Rosenberg del Massachusetts General Hospital ha presentato i dati di un gruppo di 20 pazienti individuati nel periodo di dell'infezione acuta, a cui è stata somministrata una terapia triplice comprendente un inibitore della proteasi già in questa fase estremamente precoce dell'infezione. A distanza di 6 mesi, 12 su 12 persone i cui dati erano valutabili presentavano una attiva risposta immunitaria specifica contro il virus. Questo tipo di risposta non è stato finora osservato in persone con infezione acuta non trattate. La risposta virus-specifica risulta simile a quella osservata nei "long-term non progressors" cioè in quelle persone sieropositive che, pur in assenza di terapia antiretrovirale, non mostrano segni di replicazione virale e di progressione di malattia. "Come accade anche per altri virus è possibile che il sistema immunitario, se messo in condizioni di farlo dalla presenza terapia antiretrovirale, possa controllare l'infezione" ha dichiarato Bruce Walker del Massachusetts General Hospital e coautore del lavoro. "Vi sono cellule immunitarie cosiddette naïve, i linfociti CD8 responsabili dell'uccisione dell'HIV, che possono essere in un certo senso "rieducate" a sviluppare delle potenti risposte virus specifiche che ne determinano la distruzione". Per ora si tratta di dati preliminari che necessitano di ulteriori approfondimenti per valutare il valore, anche nel lungo termine, dell'inizio precoce della terapia antiretrovirale.

Uno studio presentato da Brigitte Autran, dell'Ospedale Pitie'-Salpetriere di Parigi, si è invece focalizzato sulla possibilità di ricostituzione immunitaria in persone in stadio avanzato dell'infezione, già trattate in precedenza con antiretrovirali. In questo gruppo di persone è stata osservata una ricostituzione lenta ma costante delle cellule CD4 naïve ed una ripresa dell'attività delle cellule memoria nei confronti di antigeni esterni (come il citomegalovirus o microbi responsabili di infezioni opportunistiche) che sembrava persa in passato. Vice versa, al contrario di quanto osservato nello studio coinvolgente le persone in stadio precoce dell'infezione, nella popolazione avanzata non si e' osservata una risposta' specifica rivolta contro l'HIV. Una spiegazione possibile a questo fatto è che una terapia antiretrovirale altamente soppressiva risulta in una riduzione della replicazione virale talmente efficace da non lasciare in circolo una quantità sufficiente di antigeni dell'HIV da permettere la stimolazione di questa risposta. Questa spiegazione è supportata dall'osservazione che le cellule deputate a questo tipo di risposta immunitaria specifica sono infatti presenti nelle persone trattate. I ricercatori francesi stanno attualmente verificando la possibilità di stimolarne la ripresa dell'attività con l'aggiunta di interleuchina-2 al regime antiretrovirale, per ottenere anche in questo caso la "rieducazione" del sistema immunitario

 

 

 

 

 

L'avvento delle terapie antiretrovirali potenti non ha ridotto l'incidenza di HIV

 

 

 

 

 

Ma chi infetta è già in trattamento ?

 

Virus coltivabile da cellule seminali di 3 su sette uomini sieropositivi con carica virale negativa nel sangue

 

La raccomandazione attuale: SESSO SICURO

 

Non abbassare la guardia: il sesso sicuro è l'unico modo per prevenire la trasmissione dell'HIV

L'impatto delle nuove e potenti terapie sulla trasmissione sessuale del virus è ancora incerto e le misure preventive vanno ancora considerate prioritarie

Oggi, nel corso della Conferenza sui Retrovirus di Chicago, J. Kaplan dei Centers for Diseases Control di Atlanta ha presentato gli ultimi dati sulla trasmissione sessuale dell'infezione da HIV, discutendo il possibile impatto che la terapia antiretrovirale potente possa giocare su questo quadro epidemiologico.

Sebbene molti studi dimostrino che le terapie sono in grado di ridurre il rischio di trasmissione dell'infezione dalla madre al figlio e che abbassano i livelli di virus presenti nelle secrezioni vaginali e nello sperma, i più recenti dati statunitensi non mostrano una riduzione dell'incidenza di infezione da HIV nel periodo 1994-97, cioè negli anni in cui si è cominciato ad utilizzare terapie più potenti.

Al momento attuale non sembra quindi che l'avvento delle nuove terapie abbia influenzato le percentuali di trasmissione dell'infezione. Ovviamente, la valutazione di questo impatto è resa difficile anche a questioni di carattere puramente psicosociale, sempre coinvolte nelle indagini di tipo epidemiologico. Ad esempio, è difficile sulla base di questi dati, supporre quale percemtuale della trasmissione può essere attribuita a persone già in trattamento e quale invece si verifica da soggetti che ignorano il proprio stato sierologico e perciò non sottoposti al trattamento.

Tuttavia, un importante monito sul rischio biologico di trasmissione in persone sottoposte a terapie combinate, proviene da uno studio condotto da R. Pomeranz, del Jefferson Medical College di Filadelfia. Questa indagine ha riscontrato la presenza di virus in grado di replicarsi nelle cellule seminali di 3 uomini sui 7 presi in esame, nonostante avessero livelli di virus nel sangue non rilevabili. I dati presentati suggeriscono che non esiste una soglia di carica virale al di sotto della quale ci si possa ritenere al sicuro dalla trasmissione dell'infezione. Questo messaggio è stato rinforzato da un ulteriore studio di J. Evans, del Wilford Hall Medical Center - Texas, condotto su 103 donatori di sperma. Questo studio ha evidenziato la possibilità di far crescere il virus in coltura dal seme, anche quando la carica virale del virus nello sperma non era dosabile. Entrambi gli Autori hanno quindi concluso raccomandando di continaure a praticare sesso sicuro, anche per le persone con buoni risultati della propria terapia antiretrovirale.


 

 

 

 

Una delle conseguenze negative delle terapie antiretrovirali - l trasmissione di ceppi virali resistenti

 

89% dei neonati a madri in trattamento presentano virus resistente

 

 

 

 

 

 

E' necessario valutare l'archivio virale delle persone recentemente infettate

 

Trasmissione di resistenze anche tra partner sieropositivi

 

E' possibile trasmettere virus resistenti in tutte le diverse forme di contagio

Tutti i farmaci antiretrovirali possono essere coinvolti e sono notevoli le implicazioni per la sanità pubblica

Nel corso dell'ultimo congressi diversi contributi si sono focalizzato sulla possibilità che l'infezione da HIV possa essere acquisita con la trasmissione di tipi virali già mutanti a quindi resistenti ai farmaci. Ciò avrebbe notevoli implicazioni nella pratica, visto che le persone con nuova infezione potrebbero non rispondere adeguatamente già all'inizio della terapia poiché alobergano virus resistente ai farmaci.

E' certo comunque che la trasmissione di virus resistenti avviene sia dalla madre al figlio sia nel caso di contatti sessuali. R. Colgrove, della Harvard Medical School di Boston, ha presentato i risultati di uno studio condotto su 85 neonati nati tra il 1989 ed il 1994. Il 53% di questi neonati presentava almeno una mutazione che conferisce resistenza all'AZT, mentre l'89% aveva mutazioni multiple. Anche le resistenze agli inibitori della proteasi possono essere trasmesse dalla madre al figlio come ha osservato VA Johnson dell'Università dell'Alabama. Il suo studio ha dimostrato la possibilità di trasmissione di resistenze multiple nei confronti di più farmaci di classi diverse. J Feinberg, dell'Università di Cincinnati, ha invece presentato il primo caso di trasmissione eterosessuale di virus resistente ad un inibitore non nucleosidico della trascrittasi inversa.

Le implicazioni della trasmissione di virus resistente possono essere diverse. Occorre innanzitutto capire quale è il rischio per le persone infettatesi recentemente di avere un archivio virale che contenga ceppi con mutazioni che conferiscono resistenza. Infatti, se esiste una resistenza nei confronti di un farmaco, iniziare una terapia contenente quel farmaco significa praticare in realtà una terapia duplice, oggi ritenuta non sufficiente.

Questo fatto va considerato con attenzione anche nel caso di una trasmissione di virus mediante rapporti sessuali non protetti tra due partner entrambi sieropositivi. La rilevanza nella pratica clinica è facilmente intuibile: si tratta infatti di un allargamento dell'archivio virale di una persona che in condizioni naturali dovrebbe aumentare esclusivamente con l'esposizione più o meno prolungata ai diversi farmaci. In queste eventualità le opzioni terapeutiche della persona possono essere ridotte in modo significativo.

 

 

 

Test fenotipico e genotipico rivelano resistenza ai virus nelle persone recentemente infette

 

 

 

 

 

 

 

 

 

John Mellors: "non allarmarsi irragionevolmente, la resistenza è sempre relativa"

 

 

 

La resistenza misurata all'inizio della terapia è predittiva della risposta "

 

 

 

 

La resistenza andrebbe valutata prima di iniziare la terapia e in tutti i casi di fallimento terapuetico"

 

Alta percentuale di ceppi resistenti nelle persone recentemente infettate con l'HIV

I risultati di due studi mostrano che le dimensioni del problema sono maggiori di quanto ritenuto finora

Nel corso dell'ultima sessione della Conferenza sui Retrovirus di Chicago, S.Wegner del US Military HIV Research Program, ha presentato i risultati di uno studio condotto con le metodiche oggi disponibili per la determinazione la resistenza ai farmaci antiretrovirali (i cosiddetti test genotipico e fenotipico). E' stato analizzato il plasma di 114 persone sieropositive, mai trattate in precedenza, con infezione contratta nell'arco dei tre anni precedenti lo studio. L'incidenza di resistenze a due differenti classi di farmaci (inibitori della trascrittasi inversa e inibitori della proteasi) variava dal 2.2 al 3.2% a seconda della metodica utilizzata. Sempre tra il 2.1% e il 3.3% delle persone risultava resistente a tutte e tre le classi di farmaci finora utilizzati (inibitori nucleosidici e non nucleosidici della trascrittasi inversa e inibitori della proteasi). Ben il 21% delle persone risultava resistente ad almeno uno dei due test praticati.

S. Little, dell'Università di San Diego, ha invece illustrato i dati relativi a 69 pazienti con sieroconversione nota nei 12 mesi precedenti lo studio e non trattati con antiretrovirali. In questo caso le percentuali di ceppi virali resistenti sono state ancora più elevate: 5% nei confronti degli inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa, 5% nei confronti di quelli non nucleosidici e 3% verso gli inibitori delle proteasi. I virus di queste persone erano resistenti ad uno o più farmaci antiretrovirali nel 28% dei casi.

 

Abbiamo chiesto a John Mellors, dell'Universita' di Pittsburgh e uno dei maggiori esperti mondiali in materia, un breve commento.

Prof. Mellors, la trasmissione dei ceppi resistenti sembra essere, almeno negli USA, piuttosto elevata...

"Sicuramente la resistenza ai farmaci antiretrovirali è al momento attuale un grosso problema. Il virus può evolvere in modo tale da sviluppare resistenze nei confronti di tutti i farmaci finora noti e se ha abbastanza spazio, quindi se non viene adeguatamente controllato dalla terapia, può con il tempo sviluppare resistenze crociate alle varie molecole di classi diverse di farmaci. La resistenza è tuttavia sempre relativa e non assoluta, quindi non bisogna allarmarsi irragionevolmente".

Quale è l'utilità clinica dei test per la misurazione delle resistenze attualmente disponibili?

"Si stanno accumulando dati che ci dicono che la resistenza misurata al momento dell'inizio della terapia è predittiva della risposta che possiamo ottenere. In un trial che è stato presentato oggi dal gruppo per lo studio CPCRA 046, le persone la cui terapia veniva scelta sulla base dei risultati dei test di resistenza aveva mediamente una carica virale più bassa di quelli in trattamento senza questo monitoraggio, anche se i risultati si riferiscono a sole 12 settimane".

Quali sono le indicazioni potenziali per il monitoraggio delle resistenze a tutt'oggi?

"La resistenza andrebbe valutata prima di iniziare la terapia per sapere quali farmaci scegliere, vista l'incidenza di trasmissione di ceppi resistenti, e in tutti i casi di fallimento terapeutico dimostrato da una ripresa della replicazione virale, in particolare nei casi di primo fallimento".

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