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3200
ricercatori 160 giornalisti 791 relazioni e poster 91 sessioni
5 giorni di lavori I membri delle associazioni presenti "di
nascosto"
Terapia
antiretrovirale affiancata a trattamenti immunostimolanti,
resistenza virale, gli ultimi risultati delle sperimentazioni
sui farmaci e gli aggiornati dati epidemiologici
"Il
punto sullo stato dell'arte della terapia Anti HIV sarà fatto
da uno scienziato italiano: Stefano Vella, Presidente della
International AIDS Society"
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VI
Conferenza sui Retrovirus, Chicago 31 Gennaio - 4 Febbraio
1999
Si
è aperta ieri a Chicago la VI Conference on Retroviruses and
Opportunistic Infections. Ad animare i cinque giorni di lavori
si sono dati appuntamento 3200 ricercatori di fronte ai quali
160 giornalisti daranno conto delle ultime acquisizioni in
tema di epidemiologia, ricerca di base e di terapia. Rispetto
alle grandi conferenze mondiali sull'AIDS sembrano numeri
apparentemente piccoli, per un congresso che secondo alcuni
rappresenta il convegno di maggior livello scientifico nel
campo delle terapie dell'AIDS.
Numerosi motivi rendono interessante questo meeting, primo
tra tutti i nuovi risultati ottenuti in studi clinici, affiancando
ai farmaci antiretrovirali tecniche di terapia immunologica.
Resistenza
virale, nuovi farmaci, i più recenti dati epidemiologici e
lo scenario AIDS del prossimo futuro saranno delineati nel
corso del Congresso da scienziati quali D. Richman, presidente
del congresso, A. Fauci, direttore del programma AIDS del
NIH statunitense, J. Mellors dell'Università di Pittsburgh.
Pertanto, a Chicago la parola spetta ora alla scienza ma,
nonostante la consapevolezza della necessità di rendere fruibili
nel più breve tempo possibile nella società i risultati e
le novità, è proprio ai rappresentanti di quest'ultima che
è impedito a partecipare a questo appuntamento scientifico
a causa della legge, tuttora in vigore, che vieta alle persone
sieropositive l'ingresso negli Stati Uniti. Non basta dover
dare false dichiarazioni sul proprio stato sierologico. Le
persone perquisite in dogana, che trasportano farmaci antiretrovirali
sono rispedite in dietro. Il dibattito si è acceso all'interno
delle associazioni europee, ma gli organizzatori della conferenza
non offrono soluzioni e chi di noi ci è andato si è dovuto
servire di un "portaborse americano".
Quest'anno
a tracciare lo stato dell'arte delle terapie anti HIV è un
italiano - Stefano Vella, del laboratorio di virologia dell'Istituto
Superiore di Sanità, nonché neo presidente dell'International
AIDS Society.
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"Dobbiamo
essere immaginativi e andare oltre. Non possiamo riposare
sugli allori"
''se
non impariamo presto a nuotare, l'onda lunga dell'AIDS ci
riporterà sott'acqua''
''attenzione
che questa fase della lotta contro l'AIDS non è né la fine
né l'inizio della fine, è semmai, forse, la fine dell'inizio''
''abbiamo
solo il 60-80% di risposta alle terapie ed è inaccettabile''
''sono
necessarie strategie focalizzate sul paziente per sostenere
e migliorare l'adesione alla terapia''
''Proprio
oggi, da questo convegno appare il tassello che ci mancava''
"Abbiamo
evidenza del ruolo che può svolgere il sistema immunitario
se adeguatamente stimolato''
''è
possibile rivisitare il concetto di eradicazione, dandoci
ragioni concrete per sperare al meglio''
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Vella:
''La ricetta per battere l'HIV? Immaginazione e farmaci più
potenti''.
Abbiamo
chiesto a Stefano Vella, Direttore del Laboratorio di Terapia
Antivirale dell'Istituto Superiore di Sanità, di fare il punto
della lotta contro l'AIDS in apertura del Congresso.
''Dobbiamo
essere immaginativi e andare oltre. Intendo dire che non possiamo
riposare sugli allori: è vero che per tutto il '98 abbiamo
visto curve in discesa, cioè che è morta molta meno gente
di AIDS e che meno persone con AIDS hanno avuto bisogno di
essere ricoverate in ospedale. Ma non basta, non ci può bastare''.
Intende
dire che nonostante i successi delle terapie, ragione per
cui vediamo ridursi i casi di AIDS, in realtà a questo non
corrisponde una diminuzione dei contagi tra la popolazione?
'Sono
un clinico e alla clinica mi riferivo dicendo che tutto questo
non può bastarci, purtroppo. Lo dico parafrasando una celebre
frase di Churchill: attenzione che questa fase della lotta
contro l'AIDS non è né la fine né l'inizio della fine, è semmai,
forse, la fine dell'inizio: anche Napoleone aveva vinto grandi
battaglie e poi gli si è parata contro Waterloo...''
Un
Vella pessimista non lo avevamo mai visto!
''Né
mai lo vedrete: sono entusiasta di dove siamo arrivati, anche
per i tempi con cui ci siamo arrivati. Occorre pero' essere
consapevoli di dove stiamo. Secondo me oggi siamo riusciti
a mettere la testa fuori dall'acqua, ma siamo ancora al pelo
dell'acqua, per questo anche l'onda più banale rischia di
farci ritornare sotto. In altri termini oggi è come se credessimo
di poter curare la tubercolosi con tre farmaci, mentre tutti
sanno che ne occorrono quattro''.
Un
problema di numero di farmaci...
''No.
Un problema di potenza. Il numero problematico è un altro:
abbiamo solo il 60-80 percento di risposta alle nostre terapie,
ed è inaccettabile. Se guardiamo ad altre patologie e ai farmaci
utilizzati per le terapie.
Vediamo
che gli anti-ipertensivi hanno più del 98% di risposta, gli
anti-diabetici poco meno. Sono i farmaci antiretrovirali che
abbiamo a non essere sufficientemente potenti. Ogni aumento
della disponibilità di singoli agenti e di combinazioni terapeutiche
più potenti si è tradotto in un progressivo beneficio clinico.
Purtroppo
la triplice non basta, e non bastano i farmaci che oggi abbiamo.
Se si riflette per un attimo sul fatto che alcuni compartimenti
dove il virus si annida, come è il caso dei macrofagi e del
sistema nervoso centrale, non sono raggiunti sufficientemente
o affatto da alcuni componenti della triplice, quali gli inibitori
della proteasi, ci si rende facilmente conto che, almeno là
e purtroppo anche in altri compartimenti, la nostra triplice
è in realtà una duplice terapia e nel tempo, lo si vede, il
rischio di fallimento è notevole''.
Oltre alla scarsa potenza dei farmaci attualmente disponibili,
vi sono altri motivi che spiegano il possibile fallimento
delle terapie?
''Sicuramente l'effetto terapeutico delle combinazioni di
antiretrovirali può essere compromesso se i pazienti non assumono
le pillole, se le prendono in quantità differenti da quelle
necessarie o fuori dai tempi previsti oppure ancora se non
seguono le istruzioni relative all'assunzione dei farmaci
rispetto al cibo. È d'altro canto piuttosto evidente che,
il pensare che regimi terapeutici tanto complessi possano
essere seguiti senza un sostegno pratico, risulta alquanto
ingenuo se non addirittura sinonimo di arroganza.
È
quindi necessario garantirsi l'elevata adesione mettendo in
atto delle strategie volte a sostenere e migliorare l'adesione
che siano focalizzate sul paziente, sui clinici, sulla relazione
tra i due e sugli aspetti sociali dell'infezione''.
Allora
nell'arco di due anni si consuma il disincanto?
''Ancora
una volta devo dire di no. Lo ripeto dobbiamo essere immaginativi,
elaborare nuove strategie, avere farmaci più potenti e facili
da gestire per poter sull'immediato definire regimi terapeutici
di mantenimento che consentano una maggiore aderenza alle
terapie senza sacrificare la potenza. Per questo non sono
pessimista, il mio è semmai un realismo che fa leva sulla
consapevolezza per chiamare a raccolta con entusiasmo tutti
coloro che nella lotta contro l'AIDS sanno e possono dare
il loro contributo: ricercatori, clinici, industrie e organizzazioni
non governative sullo stesso fronte d'impegno che deve sempre
essere pronto a rinnovarsi per fronteggiare l'estrema variabilità
di questa malattia.
E
poi oggi, proprio da questo congresso, sia pure con qualche
anticipazione nei mesi scorsi, abbiamo quello che appare a
tutti come il tassello che ci mancava, la prova del controllo
immunologico dell'aggressione del virus. Per questo credo
che l'eradicazione dell'HIV dall'organismo sia un problema
di oggi. Quando se ne iniziò a parlare si pensava, con i mezzi
e il bagaglio di conoscenze di allora, che sostanzialmente
con la sola terapia antiretrovirale il virus alla fine se
ne sarebbe andato da solo: tenendo premuto l'acceleratore
la capacità di inibizione della replicazione virale sarebbe
stata tale da eliminare nei fatti il virus.
Oggi
sappiamo che non è così. Appare banale, ma sappiamo che il
virus non se ne va da solo. Ma oggi abbiamo evidenze del ruolo
che può svolgere il sistema immunitario se adeguatamente stimolato.
Alla luce delle specifiche risposte immunitarie che numerosi
lavori riportano è possibile allora rivisitare il concetto
di eradicazione, dandoci ragioni concrete per sperare al meglio
e per definire efficaci strategie indirizzate verso quei serbatoi,
quei compartimenti dove il virus si nasconde in fase latente,
pronto a riuscire in circolo a replicarsi se non lo si neutralizza
rapidamente''
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Tutti
i numeri dell'epidemia
0 Nessun caso di AIDS è stato segnalato in bambini
emofilici italiani dal 1993 ad oggi.
1.5 La percentuale dei casi pediatrici sul totale dei
casi di AIDS in Italia.
3 I milioni di adolescenti che ogni anno contraggono
una malattia a trasmissione sessuale, negli USA.
4
Si sono quadruplicati i premi per le assicurazioni sulla
vita, in Zimbabwe, negli ultimi due anni, a causa dell'aumento
delle morti per AIDS.
9
Donne sieropositive su 10, nei paesi in via di sviluppo,
non sanno di esserlo.
10
Percento di crescita del numero delle infezioni da HIV nel
mondo, lo scorso anno.
11
Persone (uomini, donne, bambini) che ogni minuto, nel 1998,
si sono infettate.
12
Percento di tutti i casi di AIDS diagnosticati nello Stato
di New York nel 1996 è a seguito di contagio per via eterosessuale.
15
I farmaci a disposizione delle persone sieropositive statunitensi
per curarsi contro i dieci in Italia
20
La percentuale dei casi di AIDS a seguito di contatti eterosessuali,
in Italia, lo scorso anno.
31
Età media , nelle donne, al momento della diagnosi di AIDS,
in Italia.
33
Età media , nei maschi, al momento della diagnosi di AIDS,
in Italia.
40
La percentuale di donne gravide sieropositive, nella città
di Mutare in Zimbabwe.
43
La percentuale di donne tra tutti I sieropositivi nel mondo
con età sopra i 15 anni.
61
Bambini ogni 1000 nati in Sud Africa, si prevede muoiano prima
di raggiungere un anno di vita nel quinquennio 2005-2010.
65
La percentuale sul totale dei casi di AIDS attribuibile all'uso
di sostanze stupefacenti per via endovenosa, in Italia.
66
La percentuale di riduzione di morti per AIDS osservata negli
USA, nel biennio 1995-1997.
70
I progetti di lotta contro l'AIDS, nel mondo, sostenuti dalla
World Bank dal 1986 ad oggi per un impegno finanziario di
800 milioni di dollari.
95
La percentuale di casi pediatrici di AIDS a seguito di trasmissione
verticale, in Italia, nel 1998.
660
I casi di AIDS pediatrico, in Italia, dall'inizio dell'epidemia
ad oggi.
1982
Anno della prima diagnosi di AIDS in Italia.
5.274
Patologie indicative di AIDS, in Italia, dall'inizio dell'epidemia
ad oggi.
5.500
Il numero di funerali al giorno che, si stima, siano celebrati
nell'Africa Sub-Sahariana a causa dell'AIDS.
16.000
Le persone che contraggono l'infezione da HIV ogni giorno
nel mondo.
28.000
I bambini che sono rimasti orfani, nella città di New
York, a causa dell'AIDS.
33.185
I casi di AIDS nei soggetti di sesso maschile in Italia.
34.000
I lavori sull'HIV/AIDS pubblicati nel 1997 su riviste
indicizzate.
42.899
I casi cumulativi di AIDS, in Italia, dall'inizio dell'epidemia
ad oggi.
95.000
Le persone sieropositive stimate in Italia.
700.000
I giovani che si infettano con 'HIV, ogni anno, in Asia e
nell'area del Pacifico.
1.100.000
Sono I bambini sotto l'età di 15 anni che hanno contratto
l'infezione da HIV nel mondo.
2.500.000
Le morti per AIDS nel mondo nel 1998.
5.800.000
Il numero delle nuove infezioni da HIV che si stima si
siano verificate nel mondo lo scorso anno.
13.900.000
Il numero totale delle morti per AIDS dall'inizio dell'epidemia.
27
milioni Il numero delle persone che, nei paesi in via
di sviluppo, sono sieropositive all'HIV ma non sanno di esserlo.
40
milioni Il
numero delle persone con HIV/AIDS stimate nel mondo per l'anno
2000.
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top
una
combinazione di farmaci mantenuta per una settimana riduce
la trasmissione materno-fetale del 37%
Uno
studio condotto in 3 Paesi africani
Nessuna
forma di sostituzione del latte materno alle partecipanti
nello studio
Polemiche
sull'eticità dell'uso del placebo negli studi condotti nei
Paesi in via di sviluppo
S
Vella: "la distanza esistente tra i Paesi industrializzati
e quelli in via di sviluppo è tragicamente enorme"
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Schemi
terapeutici abbreviati per chi non si può permettere le cure
adeguate
Una
proposta per la riduzione della trasmissione materno-fetale
per paesi in via di sviluppo
Somministrando una combinazione di due farmaci antiretrovirali
alla madre durante il parto e continuando la terapia per una
settimana sia a lei che al neonato, la trasmissione materno-fetale
dell'HIV si riduce del 37%. Questa nuova strategia terapeutica
è stata comunicata ieri nel corso della sessione plenaria
della 6^ Conferenza sui Retrovirus di Chicago.
Questi dati suggeriscono la possibilità di improntare un metodo
per la riduzione del contagio madre-figlio che potrebbe essere
praticabile nei paesi africani grazie alla minimizzazione
dei costi delle terapie e dell'utilizzo di infrastrutture
sanitarie. Prima di questi risultati il regime terapeutico
più breve prevedeva il trattamento della madre a cominciare
dalla 36^ settimana di gravidanza e doveva continuare per
3-4 settimane dopo il parto.
Lo
studio denominato PETRA (PErinatal TRAnsmission) è stato condotto
in Sud Africa, Uganda e Tanzania, nell'ambito di un progetto
congiunto delle Nazioni Unite (UNAIDS), a cui ha partecipato
anche l'Istituto Superiore di Sanità. L'obiettivo era di mettere
a punto delle strategie terapeutiche semplificate che consentissero
comunque la riduzione del tasso di trasmissione materno-fetale.
Sono
stati valutati tre diversi regimi a base di retrovir ed epivir
(AZT e 3TC - due inibitori della trascrittasi inversa) nei
confronti di placebo. Sono state arruolate 1357 donne, alla
maggioranza delle quali però non è stata offerta la possibilità
di un metodo di allattamento sostitutivo al seno, una nota
fonte di trasmissione del virus.
Dopo sei mesi dal momento del parto la trasmissione del virus
risultava ridotta nelle donne che avevano ricevuto il ciclo
completo di terapia (inizio alla 36^ settimana e fine ad una
settimana di distanza dal parto - 50% di riduzione) e in misura
inferiore in quelle che ricevevano la terapia solo al momento
del parto e fino ad una settimana dopo (riduzione del 37%).
Nei
mesi scorsi vi sono state forti polemiche su questo studio
per il confronto con il placebo, il cui uso pone enormi problemi
di carattere etico ma anche di metodologia della ricerca.
Infatti, per quale motivo è necessario l'impiego del placebo
quando il regime abbreviato è confrontato con uno consolidato
? quanto è etico arruolare donne nella speranza di accedere
a cure altrimenti non disponibili ? quanto è umano dare la
speranza a queste madri che poi vedono i figli contagiarsi
perché, nonostante abbiano acconsentito di fare da cavie,
non le è stata data la possibilità di accedere al latte artificiale
? e quanto pratico si pensa sia, per i governi poveri, sborsare
una somma comunque elevata per mettere in atto una strategia
destinata a fallire per l'intervento dell'allattamento al
seno ? Vice versa, le opinioni favorevoli a questo studio
si sono incentrate sull'impossibilità, comunque esistente
in questi Paesi, delle donne sieropositive ad accedere alle
terapie antiretrovirali. ''Occorre considerare l'etica sulla
base della realtà: nel mio paese il 99% delle persone con
HIV non accesso ai farmaci né a cure sanitarie'' ha dichiarato
il Dr Pius Okong, del San Francis Hospital di Kampala.
Per
quanto riguarda l'effetto negativo dell'allattamento al seno,
che in studi di popolazione ha mostrato di incrementare le
percentuali di trasmissione da madre a figlio dal 25% al 35%,
lo studio PETRA prevede un controllo a distanza di 18 mesi
che ne consentirà la valutazione dell'impatto. D'altronde,
qualcuno, a conoscenza della realtà di quei Paesi ha ipotizzato
che evitare l'allattamento al seno oppure ricevere terapie
di lunga durata comporterebbe l'identificazione delle madri
come persone sieropositive e quindi favovirebbe fenomeni di
emarginazione.
Stefano
Vella a cui abbiamo chiesto un parere su PETRA afferma ''La
distanza esistente tra I paesi industrializzati e quelli in
via di sviluppo è tragicamente enorme e non è un dramma limitato
alla sola infezione da HIV ma va oltre sino a raggiungere
profonde implicazioni sociali ed etiche''.
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37
partner sieronegativi con accertata esposizione al virus sono
albergatori di un'infezione latente
L'HIV
può provocare un'infezione latente già in fase molto precoce
Virus
non completamente eliminato ma mantenuto nelle cellule memoria
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Alcuni
partner "sieronegativi" sono in realtà albergatori di un'infezione
latente senza sieroconversione
Thomas
Zhu, ricercatore presso l'Università di Seattle, ha presentato
uno studio che ha preso in esame, dal 1996 ad oggi, 37 persone
che pur avendo un'attività sessuale ad alto rischio di esposizione
al virus con i relativi partner sieropositivi, sono risultate
persistentemente sieronegativi. Questo studio è riuscito a
dimostrare, per la prima volta, che queste persone risultavano
portatrici di un'infezione latente. Infatti pur non essendo
stato possibile isolare l'HIV dal plasma di queste persone,
si sono riscontrate delle sequenze di parte del genoma virale
nelle cellule CD4 quiescenti (cosiddette cellule della memoria,
deputate a conservare il ricordo dell'esposizione ad agenti
esterni per provocare poi una forte risposta immunitaria nel
caso di un nuovo contatto con questi ultimi).
Lo
studio dimostra che l'HIV può provocare un'infezione latente
in uno stadio già estremamente precoce, nonostante l'assenza
dei sintomi caratteristici dell'infezione acuta e che esistono
persone in cui l'HIV si replica a livelli estremamente bassi
o addirittura nulli. Altro dato, apparentemente sorprendente
è che in questi soggetti non c'è stata evidenza di reinfezione
nonostante le ripetute esposizioni sessuali a rischio.
Zhu ha dimostrato, utilizzando il metodo di quantificazione
della carica virale (PCR), che vi sono sequenze virali nelle
cellule CD4 quiescenti e di fatto sostiene che non tutti i
soggetti eliminano completamente il virus, ma alcuni lo albergano
nelle cellule dove rimane silente e non espresso formando
quasi un forma di vaccinazione naturalmente indotta.
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9
farmaci antiretrovirali in formulazione pediatrica per una
terapia di combinazione generalmente efficace
2
richieste conflittuali: Inizio precoce della terapia per un'ottimale
controllo del virus esposizione agli antigeni per rafforzare
la risposta immunitaria specifica
Una
soluzione possibile: la terapia immunologica
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Con
le terapie di associazione è possibile controllare l'infezione
da HIV anche nei bambini
Ma
la lotta è ancora aperta e molti problemi devono essere risolti
K.
Luzuriaga, del Medical Center di Worcester - Universita' del
Massachusetts ha mostrato luci ed ombre dell'armamentario
terapeutico per il controllo dell'infezione nei bambini non
ancora ottimale. Nel corso della sessione plenaria il Dr.
Luzuriaga ha passato in rassegna i possibili approcci che
sono attualmente seguiti con i 9 farmaci disponibili per i
bambini.
Vi
sono molti studi su associazioni di tre farmaci che dimostrano
come i potenti regimi terapeutici abbiano un effetto significativo
sulla replicazione virale anche in età infantile. Tuttavia,
anche nel caso del paziente pediatrico tale controllo può
avere una breve durata e sembra che, come negli adulti, il
virus può riuscire a sfuggire al dominio terapeutico riprendendo
la sua replicazione.
I
risultati sono tanto migliori quanto prima si riesce ad intervenire:
L'ideale sarebbe cominciare la terapia subito dopo l'acquisizione
dell'infezione e di mantenerla nel tempo, come nel caso degli
adulti. Rispetto a questi ultimi però, vi è la necessità di
garantire l'instaurarsi di una risposta immune specifica nei
confronti dell'HIV. Questa risposta può instaurarsi soltanto
in seguito all'esposizione continua agli stimoli antigenici
del virus che mal si concilia con l'inizio precoce di potenti
regimi terapeutici. Infatti, il blocco completo della replicazione
virale conseguente all'azione di questi farmaci impedisce
la presenza in circolo degli antigeni virali e quindi può
compromettere l'acquisizione della risposta immunitaria HIV
specifica. Ciò potrebbe spiegare, almeno in parte, lo scarso
controllo dell'infezione a lungo termine osservato nei pazienti
pediatrici.
I
ricercatori si trovano quindi di fronte ad un problema di
non facile soluzione: da un lato impedire al virus di replicarsi
tramite i farmaci e dall'altro permettere al sistema immunitario
di riconoscerlo per aggredirlo con le proprie forze.
Anche
K. Luzuriaga ha quindi sottolineato l'estrema importanza di
approntare quanto prima farmaci che colpiscano bersagli diversi
da quelli attualmente raggiungibili ma soprattutto di sviluppare
di terapie immunologiche aggiuntive, da utilizzare in associazione
ai farmaci antiretrovirali.
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Lipodistrofia
o ridistribuzione del grasso corporeo - una maggiore complicanza
della terapia antiretrovirale
Obiettivo
della terapia: mantenimento dell'efficacia e riduzione degli
effetti collaterali
Complicanze
metaboliche - rischio di abbandono delle terapie
Aumento
dei grassi e zuccheri del sangue, ma limitato rischio di diabete
e patologie cardiovascolari
Lipodistrofia
anche in regimi non contenenti un inibitore della proteasi
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Complicazioni
metaboliche: l'altra faccia della medaglia delle terapie di
combinazione
Tra
le complicanze a lungo termine della terapia per l'infezione
da HIV la fanno da padrone le alterazioni metaboliche. Tali
alterazioni sono caratterizzate sostanzialmente da una ridistribuzione
caratteristica del tessuto adiposo superficiale con assottigliamento
degli arti e un aumento del grasso su addome e torace. Questa
ridistribuzione è accompagnata da un aumento dei livelli di
trigliceridi e di colesterolo nel sangue, e da alterazioni
del metabolismo del glucosio che possono portare alla comparsa
di diabete. Questa sindrome, nota anche come lipodistrofia,
è stata osservata a seguito dell'uso di inibitori della proteasi
nella terapia di combinazione.
Pertanto,
le persone sieropositive in trattamento con farmaci antiretrovirali
possono trovarsi di fronte a due aspetti critici e contrastanti
della terapia associativa: da un lato la necessità di continuare
quest'ultima per periodi indefiniti di tempo al fine di tenere
il virus costantemente sotto controllo, dall'altro di contenere
gli effetti collaterali che possono complicare tali terapie
manifestandosi in forma acuta o in maniera più subdola e silente
e a distanza di tempo dall'inizio della terapia.
Quest'ultimo
aspetto ha attirato molta attenzione da parte dei relatori
in quanto il verificarsi di queste complicanze rende ancora
più problematico il rimanere a lungo in terapia e potrebbe
comportare l'interruzione dell'assunzione di alcuni farmaci
senza che vi siano alternative terapeutiche.
L'aumento
dei grassi nel sangue potrebbe aumentare il rischio di malattie
cardiovascolari quali l'infarto miocardico. Tuttavia uno studio
presentato da C. Grunfeld, del VA Medical Center e Università
di San Francisco della California, ha presentato uno studio,
basato su modelli matematici e non su dimostrazioni in clinica,
che suggerisce un aumento del rischio cardiovascolare, nella
misura dello persone in terapia con inibitori delle proteasi,
sarebbe aumentato solo dello 0,14%.
Per
quanto riguarda l'alterazione del metabolismo del glucosio
e la resistenza all'insulina, uno studio condotto da F. Sattler,
dell'Universita' della California del Sud - Los Angeles, ha
dimostrato che queste alterazioni sono significativamente
più frequenti nelle persone il cui schema terapeutico prevede
l'utilizzo di un inibitore della proteasi. Tuttavia, l'insorgenza
di diabete conclamato non sembra essere un rischio frequente,
anche se maggiore di quello osservabile in persone non trattate
con inibitori della proteasi. Il significato di queste osservazioni,
nella pratica clinica, non tuttora tuttora chiarito.
Controversa è anche la situazione riguardante la lipodistrofia.
Le dimensioni del fenomeno sono diversi a seconda degli studi
presentati, con frequenza di comparsa variabile dal 2% al
76% dei casi. M. Shambelan, dell'Università di San Francisco,
ritiene che l'incidenza di questi effetti nella pratica si
possa collocare in vicinanza dei valori medio-alti di questo
intervallo.
La lipodistrofia sembra essere di maggiore entità nelle persone
che assumono l'associazione di due inibitori della proteasi
(ritonavir e saquinavir).
Gli
effetti collaterali di tipo metabolico regrediscono dopo l'interruzione
del trattamento con gli inibitori della proteasi ma tale interruzione
riduce sensibilmente le opzioni terapeutiche valide disponibili
alla persona.
Un dato del tutto nuovo emerso durante la conferenza è stato
l'osservazione, in almeno due studi, di lipodistrofia anche
in persone in trattamento con vari regimi antiretrovirali
non contenenti inibitori della proteasi, ma basati interamente
su inibitori della trascrittasi inversa (AZT, 3TC, d4T, ddI,
ddC, Nevirapina). Alcuni Autori ipotizzano che queste alterazioni
siano legate all'uso prolungato di d4T.
In
ogni caso il dato è preoccupante, visto che l'alternativa
attualmente disponibile, all'uso degli inibitori della proteasi
è rappresentata da regimi triplici di inibitori della trascrittasi
inversa. Alcuni studi presentati in altre sessioni del congresso
dimostrano infatti che, almeno nel breve termine, l'efficacia
di questi regimi può essere paragonabile a quella di combinazioni
contenenti inibitori della proteasi.
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top
Adesione
alle terapie: per la lotta all'AIDS non basta la potenza dei farmaci
Come
seguire le attuali terapie secondo gli schemi di assunzione necessari
a garantirne un buon funzionamento?
In
molti casi la terapia dell'infezione da HIV obbliga il paziente
ad seguire regimi terapeutici di combinazione che comportano la
necessità di assumere più farmaci ad orari precisi e con indicazioni
diverse per quanto riguarda l'associazione con cibi o altri medicinali.
E' stato calcolato che alcuni di questi regimi possono richiede
al paziente di assumere 4745 pillole e 1095 dosi in un anno. D'altrone,
una corretta gestione di questi regimi - la cosiddetta adesione
alla terapia, o compliance, è una condizione necessaria per non
pregiudicare i risultati della terapia.
Il
problema è più che mai scottante e nel corso della Conferenza sui
Retrovirus di Chicago le difficoltà di elevata adesione alla terapia
sono emerse come uno dei talloni di Achille della gestione dell'infezione
da HIV.
Affinché
le terapie siano efficaci bisogna ovviamente prendere i farmaci
e l'attitudine a farlo e' influenzata da fattori di varia natura
compresa ovviamente la qualità della vita.
Dr.
Paterson, del VA Medical Center di Pittsburgh, ha presentato i risultati
di uno studio che ha misurato il grado di adesione alla terapia,
in persone riceventi associazioni contenenti un inibitore delle
proteasi, mediante l'uso di contenitori di pillole a rilascio elettronico.
Questi contenitori, in grado di registrare ciascuna apertura del
flacone forniscono una valutazione più accurata del numero degli
salti di terapie o degli sbagli di orario rispetto al diario in
cui le persone devono registrare ogni assunzione di farmaco. In
questo ultimo caso, esiste il rischio di sovrastimare la propria
adesione, come indicato da uno studio di H. Golin dell'Università
del Nord Carolina.
Lo
studio di Paterson ha anche dimostrato una correlazione tra adesione
e valori della carica virale. Infatti, la percentuale di persone
con riduzione della carica virale al di sotto di un limite standard
di efficacia è risultata dell'81% nelle persone che hanno mostrato
livelli di adesione del 95%, ma solo del 6% di quelli la cui adesione
era risultata al di sotto del 70%. La stessa correlazione, si è
osservata anche per gli aumenti di livelli dei CD4.
Le
implicazioni di queste osservazioni sul piano clinico sono importantissime
in quanto dimostrano che l'adesione alle terapie è uno dei fattori
che ne determinano il risultato. Mentre in altri settori della Medicina,
un'adesione dell'80% è considerata ottimale, per l'infezione da
HIV lo stesso livello comporta il fallimento terapeutico nella metà
delle persone in terapia.
E'
inoltre evidente che coloro che prescrivono e quelli che ricevono
le terapie devono collaborare affinché i problemi che possano ostacolare
il raggiungimento di un'adesione tanto elevata siano evidenziati
ancor prima dell'inizio della terapia. In questo modo diventa possibile
concordare dei sistemi che, riducendo gli ostacoli che la terapia
può porre alla conduzione di una vita quanto più normale, possano
riflettersi in un aumento dell'adesione. In altri casi, medico e
paziente potranno concordare di favorire uno schema terapeutico
piuttosto di un altro in base ai diversi stili di vita.
E'
essenziale che i medici siano consapevoli della necessità di instaurare
questo dialogo continuo con i pazienti da loro seguiti. Nello studio
di Paterson, infatti, il giudizio espresso dai medici, sull'adesione
alla terapia dei propri pazienti è risultato spesso inesatto. Nel
32% dei casi i medici sbagliavano il giudizio ritenendo le persone
aderenti quando lo erano scarsamente e nel 45% dei casi stimando
una bassa adesione in persone che invece rispettavano i regimi terapeutici
per l'80-95%. Questa scarsa capacità dei medici a giudicare l'adesione
trova ulteriore conferma in un altro studio presentato da H. Liu,
dell'Università di Los Angeles, in cui una persona su quattro di
quelle che un gruppo di medici americani riteneva avere una elevata
adesione risultava prendere solo l'80% o meno dei farmaci prescritti.
Tra
le tante variabili che possono essere correlate con l'adesione,
sono stati evidenziati anche fattori legati alla persona quali il
grado di scolarità che in uno studio è risultato correlato con l'adesione
terapeutica.
Dai
vari studi sull'adesione alle terapie emerge l'importanza fondamentale
dello sviluppo di regimi terapeutici potenti ma contemporaneamente
semplici da assumere, per consentire, alla maggioranza delle persone
con infezione da HIV, di avere un'adesione ottimale alla propria
terapia.
top
Ulteriore
alternativa terapeutica: un'associazione di 2 inibitori nucleosidici
e un inibitore non nucleosidico della trascrittasi inversa
Tre
inibitori della trascrittasi - efficacia simile a alla combinazione
con inibitore della proteasi
|
Aumentano
le alternative terapeutiche per combattere l'infezione da
HIV
Nuovi
regimi con potenza ed efficacia simile a quelli contenenti
inibitori della proteasi si aggiungono all'armamentario terapeutico
a disposizione di medici e persone sieropositive.
A Chicago sono stati presentati vari studi che utilizzano
regimi terapeutici contenenti un'associazione di due classi
di inibitori della trascrittasi inversa - nucleosidici e non
nucleosidici ma non inibitori della proteasi.
Gli obiettivi di questi studi sono molteplici: offrire alternative
terapeutiche a persone che non possono o non vogliono assumere
gli inibitori della proteasi, risparmiare questi ultimi per
le fasi più avanzate dell'infezione, aumentare l'adesione
alla terapia tramite l'adozione di regimi semplificati con
un numero minore di pastiglie.
Di
particolare interesse sono i risultati emergenti da un vasto
studio internazionale - denominato Atlantic, che ha visto
anche la partecipazione italiana. In questo studio un potente
regime triplice contenente un inibitore della proteasi è stato
messo a confronto con due altri regimi triplici a base di
soli inibitori della trascrittasi inversa: tre farmaci nucleosidici
o due inibitori nucleosidici ed uno non nucleosidico. Dopo
24 settimane di terapia i risultati nei tre gruppi di trattamento
erano praticamente sovrapponibili con una riduzione della
carica virale al di sotto dei limiti di rilevazione intorno
all'80%. Lo studio continuerà sino al raggiungimento di 72
settimane di terapia. Sarà allora possibile verificare se
il beneficio connesso all'uso di questi regimi si prolunga
anche nel tempo.
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La
salute della donna sieropositiva a convegno
Donne
sieropositive: incidenza di lesioni genicologiche da papillomavirus
16 volte superiore a quella nelle donne sieronegative
|
Le
donne HIV positive sono ad elevato rischio di cancro vulvovaginale
e della cervice uterina
La salute della donna sieropositiva e le diversità delle esigenze
di salute tra donne e uomini nel campo della lotta all'AIDS
sono tornate alla ribalta nel corso della Conferenza di Chicago.
Infatti, sono stati presentati dei dati che dimostrano come
le donne con HIV siano a rischio elevato di sviluppare carcinomi
vulvovaginali e della cervice uterina. Ciò si è osservato
in due studi separati condotti dai ricercatori dei Centers
for Diseases Control di Atlanta e della John Hopkins University
di Baltimora. La causa di questo maggiore rischio è da ricercarsi
nella maggior incidenza di lesioni locali provocate dal Virus
del Papilloma Umano (HPV) e dalla sua elevata persistenza
a livello vaginale ed uterino nelle donne sieropositive.
L'associazione
tra infezioni da HPV e aumento del rischio di neoplasie dell'apparato
genitale femminile è da tempo conosciuta. Le donne HIV positive
hanno però un'incidenza di lesioni da HPV 16 volte superiore
a quella di donne sieronegative.
E' quindi estremamente importante effettuare una diagnosi
precoce di infezione da HIV anche per poter monitorare adeguatamente
le donne ad alto rischio di sviluppare una neoplasia, in modo
tale da identificare qualsiasi lesione in fase precoce e quindi
intervenire in tempo.
I comuni metodi che vengono utilizzati nella routine dei controlli
ginecologici non bastano però a fare diagnosi di infezione
da HPV, come dimostrato da uno studio di CJ Hoesley dell'Universita'
dell'Alabama. Il Pap test, da anni utilizzato per evidenziare
lesioni neoplastiche dell'apparato genitale femminile non
è in grado di escludere la presenza di un'infezione da HPV
e devono quindi essere utilizzate tecniche più sofisticate
|
Donne
vs. uomini: a parità di CD4 - carica virale inferiore
E'
necessario aggiustare i valori di carica virale per il sesso
per operare le scelte terapeutiche
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La
quantità di virus nel sangue è diversa tra uomini e donne
Il sesso va considerato nell'interpretazione dei risultati
della carica virale e quindi nel monitoraggio della terapia
Un importante contributo ottenuto mediante la collaborazione
di ricercatori del Catholic Medical Center di New York e della
John Hopkins, ha dimostrato che a parità di valori di CD4,
le donne hanno valori più bassi di carica virale rispetto
a quelli degli uomini.
Questo
dato risulta di estrema importanza nella pratica clinica dove
la carica virale viene utilizzata per monitorare l'andamento
dell'infezione e della terapia antiretrovirale. Se non si
tiene conto di questa differenza si può ritenere erroneamente
che una donna sieropositiva non abbia bisogno di trattamento
oppure, se già in trattamento, che non necessiti di modifiche
della terapia. Al contrario, l'aggiustamento del calcolo dei
valori di carica virale in base al sesso consentirebbe di
evitare questo pericolo.
E' stato quindi richiesto che l'aggiustamento della carica
virale in base al sesso venga inserito quanto prima nelle
linee guida di terapia antiretrovirale che stabiliscono quando
iniziare e se modificare la terapia antiretrovirale.
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Terapie
immunomodulante - un partner da associare al trattamento antiretrovirale
IL-2
+ terapia di combinazione: verso un più rapido svuotamento
dei serbatoi del virus
42%
dei pazienti trattati - assenza di virus anche nelle cellule
memoria
Trattamenti
immunomodulanti: farmaci immunosoppressivi dei CD4 proliferanti
e vaccini terapeutici
Il
prossimo passo - sospendere i farmaci nei pazienti con assenza
di virus nei serbatoi.
|
Ora
è possibile ridurre il numero delle cellule cronicamente infette
dal virus
Nuove speranze date dalla terapia immunologica associata
a quella antiretrovirale - qualcuno riparla di eradicazione
Molti
dei 3600 ricercatori riuniti a Chicago nel congresso sui retrovirus
sono convinti che, per ottenere un controllo efficace dell'infezione,
occorre incorporare strategie di stimolazione del sistema
immunitario ai farmaci anti-HIV rivolti contro il virus. Uno
studio presentato oggi dal gruppo di Anthony Fauci, direttore
del dipartimento AIDS del National Institute of Health ha
dimostrato che associando una molecola dotata di azione immunomodulante
- l'interleuchina-2 (IL-2) alla terapia antiretrovirale contenente
inibitori della proteasi è possibile arrivare a eliminare
il virus infettante addirittura nelle cellule non replicanti
del sistema immunitario.
Si
tratta delle cosiddette cellule memoria, deputate a riconoscere
un agente esterno a cui sono gia' state esposte e a sviluppare
una risposta immune potente. Queste cellule hanno una vita
lunghissima e pertanto rappresentano uno dei principali serbatoi
che l'HIV usa per "nascondersi" dagli attacchi delle terapie.
Iinfatti, con l'impiego di modelli matematici si è calcolato
che a causa della lunga vita di queste cellule sarebbero necessari
23 anni di trattamento antiretrovirale, costantemente efficace,
per poter eradicare l'infezione.
Pertanto, negli ultimi anni gli studiosi avevano abbandonato
l'idea dell'eradicazione del virus, per concentrarsi di più
sulla possibilita' di cronicizzare l'infezione.
Tuttavia,
questo recente studio ha rivelato, in 14 persone a cui è stata
somministrata interleuchina-2 (IL-2) insieme ai farmaci antiretrovirali,
la riduzione della presenza del virus nelle cellule CD4 di
memoria circolanti nel sangue. Per di più, in 6 delle 14 persone
(42%) è stata evidenziata addirittura l'assenza del virus
in cellule memoria prelevate e coltivate in laboratorio.
Vice
versa, nel gruppo di controllo dello studio, composto da altre
12 persone che avevano ricevuto solo la terapia antiretrovirale,
l'HIV era presente nelle cellule memoria di tutti e 12 le
persone.
Si
tratta della prima volta in cui è stata ottenuta una assenza
del virus in circolo indotta da una terapia. Tuttavia, il
basso numero di persone coinvolte nello studio non permette
di affermare con certezza che tale assenza non possa essere
il risultato di un virus difettoso né di escludere che il
virus possa essere ancora presente in serbatoi diversi dalle
cellule della memoria (ad esempio linfonodi, testicoli etc.).
''Questo studio dimostra che mediante una terapia immunitaria
associata alla terapia antiretrovirale si ottiene un controllo
dell'infezione più efficace di quello raggiungibile con la
sola terapia antiretrovirale'', è stato il commento di Giuseppe
Pantaleo dell'Hospital Beaumont di Losanna, ''e oggi iniziano
a diventare più numerosi i farmaci 'immunologici' da testare''.
Si
tratta di due tipi di approcci immunomodulanti. Il primo si
basa sulla somministrazione di molecole in grado di bloccare
in modo selettivo le cellule proliferanti, in cui l'HIV si
replica, impedendo loro di entrare nel ciclo cellulare. Il
secondo approccio è rappresentato dai cosiddetti vaccini terapeutici.
Questi vaccini possono essere composti da frammenti del virus
detti vettori virali che, esprimendo solo alcune proteine
del virus, inducono una risposta anti HIV senza comportare
un rischio di infezione. L'altro tipo di vaccini terapeutici
utilizza il virus intero ma ucciso.
"Entro
un anno sapremo se questi vaccini funzionano'' afferma Pantaleo.
Ma la fretta motiva anche i ricercatori che lavorano sugli
altri farmaci immunomodulanti. Infatti, sono attualmente in
fase di sviluppo dei gli studi a breve e medio termine. Si
tratta di protocolli che prevedono l'associazione della terapia
antiretrovirale con immunomodulanti per un certo periodo seguito
dalla sospensione della terapia antiretrovirale. I risultati
di questi studi deriverebbero dall'osservazione di quello
che succede ai pazienti che hanno interrotto la terapia. Il
bilancio dei rischio e benefici è pesante: da un lato queste
persone possono sperare che, una volta soppresso in modo efficace
il virus nei serbatoi, sarà possibile loro vivere senza le
costrizioni della terapia antiretrovirale, da un lato rischiano
di vedere dopo breve tempo il riemergere della replicazione
di virus ancora nascosto in qualche altro distretto cellulare.
L'impatto di questo fallimento è notevolmente aggravato dal
rischio che il virus emergente abbia subito mutazioni e si
riveli resistente anche ai farmaci assunti in precedenza,
lasciando le persone che coraggiosamente hanno accettato di
essere le cavie per il bene loro ma anche di molte altre persone
sieropositive, con alternative terapeutiche molto ridotte.
|
Farmaci
antiretrovirali e IL-2 nell'infezione acuta - stimolazione
di una risposta immunitaria HIVspecifica
Farmaci
antiretrovirali nell'infezione avanzata: recupero di cellule
naive e aumento dell'attività delle cellule memoria
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La
rieducazione del sistema immunitario
Ci sono buone speranze per il recupero delle difese immunitarie
nelle persone in terapia con regimi anti HIV altamente efficaci
Ci si chiede da molto tempo se il trattamento precoce con
potenti combinazioni di farmaci antiretrovirali, possa prevenire
il danno al sistema immunitario o se nella persone con un'infezione
avanzata sia possibile una ripresa delle funzioni immunitarie
compromesse dal virus. Alcuni Autori riuniti a Chicago per
la Conferenza sui Retrovirus hanno cercato di fornire delle
risposte a questi interrogativi.
E. Rosenberg del Massachusetts General Hospital ha presentato
i dati di un gruppo di 20 pazienti individuati nel periodo
di dell'infezione acuta, a cui è stata somministrata una terapia
triplice comprendente un inibitore della proteasi già in questa
fase estremamente precoce dell'infezione. A distanza di 6
mesi, 12 su 12 persone i cui dati erano valutabili presentavano
una attiva risposta immunitaria specifica contro il virus.
Questo tipo di risposta non è stato finora osservato in persone
con infezione acuta non trattate. La risposta virus-specifica
risulta simile a quella osservata nei "long-term non progressors"
cioè in quelle persone sieropositive che, pur in assenza di
terapia antiretrovirale, non mostrano segni di replicazione
virale e di progressione di malattia. "Come accade anche per
altri virus è possibile che il sistema immunitario, se messo
in condizioni di farlo dalla presenza terapia antiretrovirale,
possa controllare l'infezione" ha dichiarato Bruce Walker
del Massachusetts General Hospital e coautore del lavoro.
"Vi sono cellule immunitarie cosiddette naïve, i linfociti
CD8 responsabili dell'uccisione dell'HIV, che possono essere
in un certo senso "rieducate" a sviluppare delle potenti risposte
virus specifiche che ne determinano la distruzione". Per ora
si tratta di dati preliminari che necessitano di ulteriori
approfondimenti per valutare il valore, anche nel lungo termine,
dell'inizio precoce della terapia antiretrovirale.
Uno
studio presentato da Brigitte Autran, dell'Ospedale Pitie'-Salpetriere
di Parigi, si è invece focalizzato sulla possibilità di ricostituzione
immunitaria in persone in stadio avanzato dell'infezione,
già trattate in precedenza con antiretrovirali. In questo
gruppo di persone è stata osservata una ricostituzione lenta
ma costante delle cellule CD4 naïve ed una ripresa dell'attività
delle cellule memoria nei confronti di antigeni esterni (come
il citomegalovirus o microbi responsabili di infezioni opportunistiche)
che sembrava persa in passato. Vice versa, al contrario di
quanto osservato nello studio coinvolgente le persone in stadio
precoce dell'infezione, nella popolazione avanzata non si
e' osservata una risposta' specifica rivolta contro l'HIV.
Una spiegazione possibile a questo fatto è che una terapia
antiretrovirale altamente soppressiva risulta in una riduzione
della replicazione virale talmente efficace da non lasciare
in circolo una quantità sufficiente di antigeni dell'HIV da
permettere la stimolazione di questa risposta. Questa spiegazione
è supportata dall'osservazione che le cellule deputate a questo
tipo di risposta immunitaria specifica sono infatti presenti
nelle persone trattate. I ricercatori francesi stanno attualmente
verificando la possibilità di stimolarne la ripresa dell'attività
con l'aggiunta di interleuchina-2 al regime antiretrovirale,
per ottenere anche in questo caso la "rieducazione" del sistema
immunitario
|
L'avvento
delle terapie antiretrovirali potenti non ha ridotto l'incidenza
di HIV
Ma
chi infetta è già in trattamento ?
Virus
coltivabile da cellule seminali di 3 su sette uomini sieropositivi
con carica virale negativa nel sangue
La
raccomandazione attuale: SESSO SICURO
|
Non
abbassare la guardia: il sesso sicuro è l'unico modo per prevenire
la trasmissione dell'HIV
L'impatto delle nuove e potenti terapie sulla trasmissione
sessuale del virus è ancora incerto e le misure preventive
vanno ancora considerate prioritarie
Oggi,
nel corso della Conferenza sui Retrovirus di Chicago, J. Kaplan
dei Centers for Diseases Control di Atlanta ha presentato
gli ultimi dati sulla trasmissione sessuale dell'infezione
da HIV, discutendo il possibile impatto che la terapia antiretrovirale
potente possa giocare su questo quadro epidemiologico.
Sebbene molti studi dimostrino che le terapie sono in grado
di ridurre il rischio di trasmissione dell'infezione dalla
madre al figlio e che abbassano i livelli di virus presenti
nelle secrezioni vaginali e nello sperma, i più recenti dati
statunitensi non mostrano una riduzione dell'incidenza di
infezione da HIV nel periodo 1994-97, cioè negli anni in cui
si è cominciato ad utilizzare terapie più potenti.
Al
momento attuale non sembra quindi che l'avvento delle nuove
terapie abbia influenzato le percentuali di trasmissione dell'infezione.
Ovviamente, la valutazione di questo impatto è resa difficile
anche a questioni di carattere puramente psicosociale, sempre
coinvolte nelle indagini di tipo epidemiologico. Ad esempio,
è difficile sulla base di questi dati, supporre quale percemtuale
della trasmissione può essere attribuita a persone già in
trattamento e quale invece si verifica da soggetti che ignorano
il proprio stato sierologico e perciò non sottoposti al trattamento.
Tuttavia, un importante monito sul rischio biologico di trasmissione
in persone sottoposte a terapie combinate, proviene da uno
studio condotto da R. Pomeranz, del Jefferson Medical College
di Filadelfia. Questa indagine ha riscontrato la presenza
di virus in grado di replicarsi nelle cellule seminali di
3 uomini sui 7 presi in esame, nonostante avessero livelli
di virus nel sangue non rilevabili. I dati presentati suggeriscono
che non esiste una soglia di carica virale al di sotto della
quale ci si possa ritenere al sicuro dalla trasmissione dell'infezione.
Questo messaggio è stato rinforzato da un ulteriore studio
di J. Evans, del Wilford Hall Medical Center - Texas, condotto
su 103 donatori di sperma. Questo studio ha evidenziato la
possibilità di far crescere il virus in coltura dal seme,
anche quando la carica virale del virus nello sperma non era
dosabile. Entrambi gli Autori hanno quindi concluso raccomandando
di continaure a praticare sesso sicuro, anche per le persone
con buoni risultati della propria terapia antiretrovirale.
|
Una
delle conseguenze negative delle terapie antiretrovirali -
l trasmissione di ceppi virali resistenti
89%
dei neonati a madri in trattamento presentano virus resistente
E'
necessario valutare l'archivio virale delle persone recentemente
infettate
Trasmissione
di resistenze anche tra partner sieropositivi
|
E'
possibile trasmettere virus resistenti in tutte le diverse
forme di contagio
Tutti i farmaci antiretrovirali possono essere coinvolti
e sono notevoli le implicazioni per la sanità pubblica
Nel
corso dell'ultimo congressi diversi contributi si sono focalizzato
sulla possibilità che l'infezione da HIV possa essere acquisita
con la trasmissione di tipi virali già mutanti a quindi resistenti
ai farmaci. Ciò avrebbe notevoli implicazioni nella pratica,
visto che le persone con nuova infezione potrebbero non rispondere
adeguatamente già all'inizio della terapia poiché alobergano
virus resistente ai farmaci.
E'
certo comunque che la trasmissione di virus resistenti avviene
sia dalla madre al figlio sia nel caso di contatti sessuali.
R. Colgrove, della Harvard Medical School di Boston, ha presentato
i risultati di uno studio condotto su 85 neonati nati tra
il 1989 ed il 1994. Il 53% di questi neonati presentava almeno
una mutazione che conferisce resistenza all'AZT, mentre l'89%
aveva mutazioni multiple. Anche le resistenze agli inibitori
della proteasi possono essere trasmesse dalla madre al figlio
come ha osservato VA Johnson dell'Università dell'Alabama.
Il suo studio ha dimostrato la possibilità di trasmissione
di resistenze multiple nei confronti di più farmaci di classi
diverse. J Feinberg, dell'Università di Cincinnati, ha invece
presentato il primo caso di trasmissione eterosessuale di
virus resistente ad un inibitore non nucleosidico della trascrittasi
inversa.
Le implicazioni della trasmissione di virus resistente possono
essere diverse. Occorre innanzitutto capire quale è il rischio
per le persone infettatesi recentemente di avere un archivio
virale che contenga ceppi con mutazioni che conferiscono resistenza.
Infatti, se esiste una resistenza nei confronti di un farmaco,
iniziare una terapia contenente quel farmaco significa praticare
in realtà una terapia duplice, oggi ritenuta non sufficiente.
Questo fatto va considerato con attenzione anche nel caso
di una trasmissione di virus mediante rapporti sessuali non
protetti tra due partner entrambi sieropositivi. La rilevanza
nella pratica clinica è facilmente intuibile: si tratta infatti
di un allargamento dell'archivio virale di una persona che
in condizioni naturali dovrebbe aumentare esclusivamente con
l'esposizione più o meno prolungata ai diversi farmaci. In
queste eventualità le opzioni terapeutiche della persona possono
essere ridotte in modo significativo.
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Test
fenotipico e genotipico rivelano resistenza ai virus nelle
persone recentemente infette
John
Mellors: "non allarmarsi irragionevolmente, la resistenza
è sempre relativa"
La
resistenza misurata all'inizio della terapia è predittiva
della risposta "
La
resistenza andrebbe valutata prima di iniziare la terapia
e in tutti i casi di fallimento terapuetico"
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Alta
percentuale di ceppi resistenti nelle persone recentemente
infettate con l'HIV
I
risultati di due studi mostrano che le dimensioni del problema
sono maggiori di quanto ritenuto finora
Nel
corso dell'ultima sessione della Conferenza sui Retrovirus
di Chicago, S.Wegner del US Military HIV Research Program,
ha presentato i risultati di uno studio condotto con le metodiche
oggi disponibili per la determinazione la resistenza ai farmaci
antiretrovirali (i cosiddetti test genotipico e fenotipico).
E' stato analizzato il plasma di 114 persone sieropositive,
mai trattate in precedenza, con infezione contratta nell'arco
dei tre anni precedenti lo studio. L'incidenza di resistenze
a due differenti classi di farmaci (inibitori della trascrittasi
inversa e inibitori della proteasi) variava dal 2.2 al 3.2%
a seconda della metodica utilizzata. Sempre tra il 2.1% e
il 3.3% delle persone risultava resistente a tutte e tre le
classi di farmaci finora utilizzati (inibitori nucleosidici
e non nucleosidici della trascrittasi inversa e inibitori
della proteasi). Ben il 21% delle persone risultava resistente
ad almeno uno dei due test praticati.
S. Little, dell'Università di San Diego, ha invece illustrato
i dati relativi a 69 pazienti con sieroconversione nota nei
12 mesi precedenti lo studio e non trattati con antiretrovirali.
In questo caso le percentuali di ceppi virali resistenti sono
state ancora più elevate: 5% nei confronti degli inibitori
nucleosidici della trascrittasi inversa, 5% nei confronti
di quelli non nucleosidici e 3% verso gli inibitori delle
proteasi. I virus di queste persone erano resistenti ad uno
o più farmaci antiretrovirali nel 28% dei casi.
Abbiamo chiesto a John Mellors, dell'Universita' di Pittsburgh
e uno dei maggiori esperti mondiali in materia, un breve commento.
Prof.
Mellors, la trasmissione dei ceppi resistenti sembra essere,
almeno negli USA, piuttosto elevata...
"Sicuramente
la resistenza ai farmaci antiretrovirali è al momento attuale
un grosso problema. Il virus può evolvere in modo tale da
sviluppare resistenze nei confronti di tutti i farmaci finora
noti e se ha abbastanza spazio, quindi se non viene adeguatamente
controllato dalla terapia, può con il tempo sviluppare resistenze
crociate alle varie molecole di classi diverse di farmaci.
La resistenza è tuttavia sempre relativa e non assoluta, quindi
non bisogna allarmarsi irragionevolmente".
Quale è l'utilità clinica dei test per la misurazione delle
resistenze attualmente disponibili?
"Si
stanno accumulando dati che ci dicono che la resistenza misurata
al momento dell'inizio della terapia è predittiva della risposta
che possiamo ottenere. In un trial che è stato presentato
oggi dal gruppo per lo studio CPCRA 046, le persone la cui
terapia veniva scelta sulla base dei risultati dei test di
resistenza aveva mediamente una carica virale più bassa di
quelli in trattamento senza questo monitoraggio, anche se
i risultati si riferiscono a sole 12 settimane".
Quali
sono le indicazioni potenziali per il monitoraggio delle resistenze
a tutt'oggi?
"La
resistenza andrebbe valutata prima di iniziare la terapia
per sapere quali farmaci scegliere, vista l'incidenza di trasmissione
di ceppi resistenti, e in tutti i casi di fallimento terapeutico
dimostrato da una ripresa della replicazione virale, in particolare
nei casi di primo fallimento".
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