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NEW YORK: VIOLENZA E REPRESSIONE
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ROMA-ATTENTATO AD IMMIGRATI
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SPAZIO ANARCHICO: A PROPOSITO DI ATTAC

 

N.Y.: cronache di ordinaria...violenza

Proponendo questo pezzo di Mumia Abu Jamal, giuntomi via posta elettronica dall’Associazione Malcolm X, desidero non solo dare spazio a questo stimatissimo compagno di cui abbiamo già parlato in numeri precedenti a questo, ma anche testimoniare ancora una volta la profonda coerenza della super potenza che si fa promotrice della pace e la giustizia nel mondo…

"(…) Facciamo chiarezza su un punto: non crediamo assolutamente nell'uso indiscriminato della violenza. Non cerchiamo alcun bagno di sangue. Il nostro scopo non è quello di uccidere i bianchi. Al contrario, sono gli sbirri che si arrogano il diritto di usare violenza indiscriminatamente e si allenano quotidianamente nelle loro pratiche. Sono gli sbirri che hanno inondato le comunità di colore con il nostro sangue e che sembrano realmente intenzionati a sterminarci. In questo momento dobbiamo fermarli e urlargli: fermatevi in nome dell'umanità! Non dovete più guerreggiare con neri disarmati, non ucciderete mai più un nero per poi camminare tranquillamente per il quartiere ridendo in faccia agli indifesi amici e familiari della vittima. Da oggi innanzi se ucciderete un altro nero all'interno di questa babilonia, dovrete lasciare il vostro lavoro ed andarvene poiché vi fotteremo e neanche dio sarà in grado di proteggervi. (…)".
(The Black Panther Newspaper, 23 marzo 1968)
La città futura-capitalista americana continua a colpire. Malcolm Ferguson, un giovane di 23 anni è stato assassinato con un colpo di pistola alla nuca. Autori dell'ennesimo delitto legalizzato, la Polizia di New York.

Ricapitoliamo.

Il 4 febbraio 1999, Amandou Diallo, emigrante dall'Africa Occidentale, venditore ambulante nel Bronx di New York, viene trucidato, davanti alla porta di casa con 41 colpi di pistola (proiettili dum dum) - 19 dei quali vanno a segno - da 4 poliziotti bianchi: Sean Carroll, Edward McMellon, Kenneth Boss e Richard Murphy. Diallo, disarmato, viene assasinato dai pistoleri del sindaco Rudolph Giuliani senza nessuna motivazione. Sale la protesta della gente dei quartieri-in-guerra: dal Bronx ad Harlem fino a Brooklyn. Molte sono le iniziative di protesta. Molti sono i momenti pubblici in cui si denuncia una realtà assodata: la Polizia di New York (e degli Stati Uniti in genere) non previene il crimine, lo produce. I 4 poliziotti vengono sospesi dal lavoro di assassini fino al processo a cui verranno sottoposti per "omicidio di secondo grado", "omicidio colposo", "omicidio per negligenza".
Il 25 febbraio 2000, il Giudice di una Corte delllo Stato di New York legge la sentenza per i 4 imputati: innocenti. E liberi di riprendere ad ammazzare per le strade della grande mela. D'altronde, la libertà d'azione per uomini in divisa e armati fino ai denti, è una delle condizioni essenziali per la salvaguardia e il controllo della città-futura-capitalista americana. La morte di Amandou Diallo non è stato un episodio. E' metodo. Prassi. Accaduto lontano dal centro finanziario super protetto. Accaduto lontano dai centri dislocati del profitto. Accaduto nel Bronx. Ma poteva tranquillamente capitare a Brooklyn. O a Harlem. Oppure nel Queens. Quartieri-in-guerra contro la mancanza di tutto, dalla socialità al lavoro dal diritto alla casa al dirittto di vivere. 

Molte persone erano presenti in aula il 25 febbraio 2000 durante la lettura della sentenza. Molte persone si sono riversate immediatamente nelle strade per protestare contro il proscioglimento dei 4 assassini e contro l'ingiustizia di un sistema a misura di dollaro. Oltre cento persone sono state arrestate a causa delle loro proteste. Da dietro le barre, gli arrestati, hanno fatto sapere: "Abbiamo passato in cella più tempo noi che gli assassini di Diallo. State attenti, stiamo tutti attenti, perché le prossime vittime saremo noi". Tra i giovani che pronunciavano via telefono (una telefonata è permessa) queste parole c'era Malcolm Ferguson.
Giustiziato dalla Polizia il 2 marzo con un colpo di pistola in testa.





 ROMA - "Lo abbiamo fatto per passare la serata". Così i quattro estremisti
di destra incendiari hanno spiegato ai poliziotti della questura di Roma il
loro incredibile gesto. Così hanno raccontato tranquillamente come stavano
per uccidere un gruppo di extracomunitari dell'Europa dell'Est e africani
dando fuoco alle loro catapecchie messe su alla meglio con assi e cartone
in un sottopasso che unisce il quartiere popolare di San Lorenzo alla
Tangenziale Est passando sotto lo scalo ferroviario.

E' successo la scorsa notte, ma solo durante la giornata l'episodio si è
delineato in tutta la sua gravità. Due giovani, Gino Vasselli e Simone
Santini, 21 anni a testa, ultras della Roma, aderenti al gruppo neonazista
di "Opposta fazione", con precedenti per spaccio e furto, sono stati
fermati. Un altro, appena 17 anni, è stato interrogato e riaffidato ai
genitori. Il quarto sarebbe un detenuto di Rebibbia che beneficiava di un
permesso. 

Tutto organizzato con lucida follia, tutto apparentemente semplice e,
forse, davvero messo su come un divertimento, una bravata per mettere in
pratica le cose tante volte dette o gridate allo stadio. I quattro hanno
individuato con precisione l'obiettivo. Nel sottopasso, autorizzati dal
Comune, si erano installati da qualche tempo una dozzina di profughi
moldavi e marocchini con le loro poche cose. L'amministrazione aveva fatto
installare anche dei gabinetti chimici per migliorare uno standard di vita
davvero ai limiti dell'umano. I quattro hanno pensato di distruggere tutto
col fuoco: il degrado che vedevano e le persone che, per loro,
evidentemente, contavano poco. Per questo, mentre tiravano le bottiglie
molotov e correvano con gli accendini in mano, gridavano: "Vai dall'altra
parte, accendi anche di là...Così gli facciamo fare la fine dei sorci".

Edin è un profugo moldavo trentenne. Con la moglie Anna vive nel sottopasso
dove, adesso, sono rimasti solo i segni neri e spaventosi dell'incendio,
l'odore del fumo, la paura che ha sconvolto la sua notte. Racconta: Eravamo
da poco andati a dormire quando, in uno specchio, ho visto uno che si
avvicinava e tirava qualcosa. Poi le fiamme...Ho cercato di spegnerle con
dell'acqua, ma c'era poco da fare. Siamo riusciti a scappare. Abbiamo
salvato anche i nostri due gatti. E quelli gridavano come pazzi..."

Ma qualcuno ha visto. Un uomo, un signore che festeggiava con amici i suoi
30 anni in un pub vicino ed era uscito a fumare una sigaretta. Ha visto le
fiamme, il fumo, ha sentito le urla, ha visto gente scappare su una vecchia
"Peugeot 205" bianca. Ha ricordato tutto ed è andato alla Polizia a
raccontare. 

C'è voluto poco a individuare i responsabili. Mosche nere in un quartiere,
come San Lorenzo, di antiche tradizioni popolari e di sinistra. Così altri
hanno parlato e indicato i nomi degli estremisti incendiari. Nella case di
Santini e Vasselli la Polizia ha trovato croci celtiche, bandiere con
svastiche, foto e materiale di estrema destra.

 

20 marzo 2000


SPAZIO ANARCHICO

Attac – trasferire allo Stato la nostra sete di giustizia?

Ormai anche la Svizzera italiana ha il suo gruppo di Attac, il movimento internazionale nato attorno alla proposta di tassare le transazioni finanziarie e ridistribuire socialmente le somme così raccolte. L’idea è di una disarmante plausibilità, ma solleva comunque qualche problema di fondo che non possiamo trascurare se riteniamo che il capitalismo non sia un regime economico adeguato all’essere umano. Attac parte come un movimento di massa, di base, benché (almeno qua e là) già in fase di recupero da parte dei capi e capetti delle varie sette marxiste, con il fine di rivendicare qualcosa dallo Stato. Gli si chiede di intervenire e agire per una gestione della ricchezza orientata maggiormente ai bisogni dei poveri. Per raggiungere questo scopo, si chiede allo Stato di dotarsi di strumenti necessari per raccogliere, amministrare ed allocare dei nuovi fondi. Ciò significa necessariamente chiedere un rafforzamento dello Stato (borghese!) e dei suoi apparati di controllo, di esazione e di repressione. Gli si chiede di farsi gigante buono per dar voce alla nostra sete di giustizia sociale, indipendentemente dalla sua configurazione politica. La rivendicazione della tassazione delle transazioni finanziarie può in effetti esser fatta propria da qualsiasi Stato, comunista democratico o fascista che sia. Proprio i fascisti d’altronde se la sono sempre presa con particolare accanimento con i "pescecani" (magari ebrei) dell’alta finanza. L’affidamento all’autorità della nostra sete di giustizia contiene già il rischio di un appello a un regime forte, che sappia imporre con il pugno di ferro ciò che noi ad esso deleghiamo. Ci abituiamo a dire allo Stato: "senti, occupatene tu", e ogni volta gli cediamo un briciolo di autonomia, finché ne saremo privati del tutto, incapaci ormai di decidere alcunché. È da qui che nascono le dittature. A quel punto, lo Stato (al servizio di chi?) sarà forte abbastanza per fregarsene altamente del nostro mandato e imporre quanto più gli aggrada.

Ma c’è un altro fatto che inevitabilmente una rivendicazione come quella di Attac comporta: la dipendenza degli aiuti ai poveri dalla speculazione. Voglio dire che se noi impostiamo una politica di ridistribuzione sul prelievo di una tassa sulle transazioni finanziarie, noi abbiamo bisogno che queste transazioni funzionino, altrimenti dove li prendiamo i soldi? In altre parole: così facendo noi impostiamo una politica che per funzionare ha bisogno delle transazioni finanziarie. Qui si tratta insomma di fare una scelta vogliamo veramente basare la nostra economia sociale sulle attività degli speculatori? Certo, se riteniamo la speculazione un buon motore di sviluppo allora non c’è problema. Ma attenzione: sarebbe come tassare il traffico di eroina per finanziare parchi robinson oppure tassare le bombolette spray per rimediare al buco nell’ozono! Per sfuggire a queste trappole è in corso da qualche decennio una riflessione sull’economia che verte anziché sull’a-tacc sul dis-tacc, ossia sul recupero della piena autonomia a livello tanto di produzione che di consumo. Gli aspetti qualificanti di questo progetto si riconoscono nelle reti autogestionarie che fanno capolino qua e là tra le smagliature del sistema. Le esperienze dei paesi dell’Est e della Jugoslavia in particolare hanno anche evidenziato ciò che senza essere grandi maghi si poteva ben prevedere: affidare allo Stato la nostra sete di giustizia non dà origine all’"uomo nuovo". Questo processo di definirci rispetto agli altri, di definire i nostri bisogni rispetto a quelli degli altri e rispetto all’ecosistema dobbiamo compierlo da soli o assieme ai nostri amici. Ma attenti, lo Stato è un falso amico.