La scuola in cui ci si
ammala.
I mali, le delusioni e le contraddizioni dell'insegnamento
e del sistema scolastico italiano, analizzati da uno studente liceale. Di Lorenzo
Picinali, tesina di maturità scientifica, a.s. 1999/2000. Seconda parte.
Novembre 2000.
4. (STORIA-FILOSOFIA)
Mi ha sempre affascinato lo studio della storia
e della filosofia, dal quale ritenevo di poter trarre un insegnamento utile
per la mia vita; i programmi scolastici hanno però deluso in gran parte
le mie attese. In filosofia si studiano talmente tanti filosofi che non resta
il tempo per "impossessarsi" del loro pensiero e si finisce per impararli
a memoria: quale studente ha mai provato a giudicare con mente propria le lezioni
di vita di Socrate o di Platone? Mi rendo conto che alla nostra età è
ancora troppo presto per "filosofare", ma quando mai impareremo a
farlo se non ci proviamo? E lo stesso vale per la storia: quante cose utili
si possono imparare da un avvenimento di storia contemporanea! Purtroppo invece
lo studio della storia e della filosofia si riduce spesso ad un semplice apprendimento
senza riflessioni, e quindi senza insegnamenti. D'altra parte l'organizzazione
dei programmi di storia e di storia della filosofia risulta completamente "sfasata"
dal punto di vista cronologico, e questo rende oltremodo problematico il dialogo
tra le due discipline.
So che è difficile, da un momento all'altro, passare dal semplice studio
alla riflessione, ma per iniziare trovo sarebbe utile elaborare in classe dei
brevi percorsi nei quali sottolineare il pensiero di un filosofo in relazione
agli avvenimenti storici del periodo storico in cui è vissuto. Così
ho provato a riflettere sullo storicismo di un importante filosofo contemporaneo,
Benedetto Croce, in relazione a ciò che accadde in Italia durante la
sua vita:
Seguendo l'evoluzione dello storicismo crociano,
possiamo fissare il primo momento significativo nello scritto pubblicato nel
1893, La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte. Qui Croce
crea la distinzione tra scienza che "cerca sempre il generale" e storia
che "narra i fatti", riducendo così la storiografia a quella
specie particolare di arte che è la "rappresentazione del realmente
accaduto", e interpretandola come agire umano: "La storia la facciamo
noi stessi, tenendo conto, certo, delle condizioni obiettive nelle quali ci
troviamo, ma coi nostri ideali, coi nostri sforzi, con le nostre sofferenze,
senza che ci sia consentito di scaricare questo fardello sulle spalle di Dio
e dell'Idea"
Nel 1906 esce uno scritto nel quale il filosofo sembra "ritrattare"
la propria concezione di storia (Ciò che è vivo e ciò
che è morto nella filosofia di Hegel): difatti, tra il 1895 e il
1906, Croce legge e si confronta con Marx (critica al materialismo storico,
considerato come un "buon paio di occhiali" che consentono di scrutare
meglio nelle vicende storiche ma non rappresentano affatto una valida filosofia
della storia) e con Hegel (critica alla dialettica degli opposti).
Lo storicismo crociano si trasforma così da storia dell'uomo in storia
dello spirito. In quanto tale, la storia viene ad avere come soggetto lo spirito
e come mezzo l'uomo; quest'ultimo è spinto ad agire per la sua utilità
e, facendo ciò, permette allo spirito di realizzarsi. È perciò
una storia razionale e progressiva, che supera in un certo senso la teoria
hegeliana di storia fatta dagli stati, proponendo una storia dello spirito,
che utilizza come mezzo l'uomo.
All'interno di questo storicismo assoluto, è importante chiarire la concezione
che Croce ha della libertà: questa non è più la possibilità
di scelta che ogni uomo ha per se stesso, ma perde il suo individualismo e diventa
la vita dello spirito.
A questo punto, è necessario fermarsi nell'analisi dell'evoluzione dello
storicismo crociano per ricostruire ciò che successe in Italia dal primo
dopoguerra in poi.
Nascita e sviluppo del fascismo in Italia
L'Italia, nell'immediato dopoguerra, si presenta
da un lato come un paese decisamente rinnovato nella struttura sociale ed economica,
dall'altro come uno Stato in preda ad una gravissima crisi sociale e politica
di cui la classe dirigente liberale non pare accorgersi.
Difatti, la guerra ha determinato importanti sconvolgimenti sociali, e gli equilibri
su cui si fondano Stato e società diventano molto presto precari:
In questo modo la società civile,
e in primo luogo il movimento operaio e contadino, non trovando risposta
politica alle proprie richieste, non può che esprimersi nei movimenti
ostili allo stato liberale: il Partito Socialista e, dal 1919, il
Partito Popolare. Questa situazione si concretizza nelle elezioni
del 1919, con il cosiddetto biennio rosso, seguito direttamente dai
governi Giolitti (1920-1921), Bonomi (1921-1922) e Facta (1922): questi
ultimi due risultano però assolutamente inadeguati alla situazione
economica, politica e sociale in cui l'Italia si trova.
Nello stesso periodo, di fronte alla dilagante fobia del pericolo rosso,
Benito Mussolini, ex socialista espulso dal partito, fonda il Movimento
dei fasci di combattimento (marzo 1919); già nelle elezioni del
1921, i fascisti di Mussolini possono contare in parlamento ben 35 seggi.
Da questo momento gli avvenimenti precipitano con il manifestarsi di episodi
di violenza squadrista sempre più frequenti e con la Marcia su
Roma nell'ottobre del 1922: così Vittorio Emanuele III, timoroso
di mettere a repentaglio la monarchia con un eventuale scontro con il fascismo,
incarica Benito Mussolini di formare un nuovo governo (30 ottobre 1922).
Il governo presieduto da Mussolini sembra essere il solo capace di ristabilire
la pace sociale, e anche i politici più esperti sottovalutano il
pericolo fascista; nella prima fase, detta fase legalitaria (1922-1924),
Mussolini adotta una linea relativamente "morbida", cercando così
di ottenere appoggi politici e rispettabilità per il suo governo.
Tra le iniziative più rilevanti:
Nel gennaio del 1925, con un discorso alla camera nel quale si assume le responsabilità civili, politiche e morali del caso Matteotti, pone fine alla fase di transizione che ha visto il fascismo convivere con le istituzioni liberali e dà inizio alla fase dittatoriale del suo governo.
Con quest'ultima riforma, si può dire che lo stato Italiano passa realmente dalla democrazia al totalitarismo, ancorché imperfetto (sia per la presenza della monarchia come vertice del potere, sia per la presenza della Chiesa che contende al fascismo il controllo di vasti strati della popolazione).
Ora possiamo proseguire nell'analisi dello
storicismo di Croce: come reagisce il filosofo, che aveva sviluppato una visione
progressiva della storia, di fronte alla nascita e allo sviluppo della dittatura
fascista?
Già il ravvedimento sulla natura del fascismo, dopo il delitto Matteotti,
lo aveva portato a riesaminare la distinzione delle forme dello spirito, in
particolare l'autonomia della politica rispetto all'etica, avvedendosi della
necessità di esprimere un giudizio morale anche per la storia, e rivedendo
il concetto della storia come progresso. È proprio in questa situazione
che riscopre la libertà come valore in sé e per sé, e
la storia diventa storia della libertà; nella Storia d'Europa nel
secolo decimonono (1932), la presa di coscienza della libertà viene
posta alla base della vita civile, diventando "religione della libertà".
Ma, con la fine della seconda guerra mondiale e del fascismo in Italia, la
rigidità di fondo del sistema crociano rimane intatta; nel 1949 Croce
scrive: "L'attore, l'unico attore della storia è lo spirito del
mondo, che procede per creazione di opere individue, ma non ha per suoi impiegati
e cooperatori gli individui, i quali, in realtà, fanno tutt'uno con
le opere individue che si vengono attuando e, tratti fuori di esse, sono ombre
di uomini, vanità che sembrano persone" (Filosofia e storiografia).
Quanto al progresso, Croce ribadisce che esso deriva dalla tensione tra valore
e disvalore e che la vittoria sempre arride al primo. Anche se si può
assistere a regressi e decadenze (fascismo, nazismo e stalinismo), questi
"se hanno luogo nel nostro sentimento edonistico, e come manifestazione
di questo, effettivamente non hanno luogo nella storia, perché in quei
tempi si prepara con vario travaglio e molteplici prove e tentativi, nuova
materia di vita per nuove opere, cioè nuovi progressi, non attingibili
e non concepibili senza quell'intermedio, che per sé non è soggetto
di storia, ma nota di cronaca dolorosa e vergognosa".
5. (LATINO)
Decimo Giunio Giovenale nacque nel Lazio,
ad Aquino, intorno al 60 d.C., ma visse a Roma, dove condusse una vita modesta
esercitando l'avvocatura. Fu, come Orazio e Persio, seguace della filosofia
stoica, per cui si mantenne, in mezzo alla corruzione dei più, singolarmente
illibato. All'età di circa 80 anni fu mandato in esilio dall'imperatore
Adriano (in Egitto, o secondo altri in Caledonia) per avere, nelle sue satire,
offeso il ballerino Paride, favorito del medesimo imperatore.
Con Giovenale si chiude la storia del genere satirico a Roma. Rispetto alle
Saturae di Lucilio molto è cambiato: ad esser prese di mira
sono per lo più figure esemplari fittizie o idealizzate; oppure personaggi
di un passato non troppo lontano, dei quali vengono posti in risalto quei
difetti che si possono osservare anche nella realtà degradata dell'oggi.
Giovenale rivela il disagio di un periodo storico in cui l'esercizio della
libertà di parola non era più praticato e mostra la tendenza
del genere a indirizzarsi verso temi generici, esemplificandoli con episodi
tipici tratti dalla vita quotidiana.
Di Giovenale ci sono arrivate sedici satire, di cui l'ultima incompiuta, divise
in cinque libri. Possono essere divise in due gruppi: le prime nove hanno
intonazione più aggressiva e sono specialmente dirette verso i mali
della società, le altre sette, scritte in età senile, sono meno
aggressive e di carattere più morale che sociale. Giovenale utilizza
una sorta di satira del passato: essa descrive e "sferza"
la società del tempo di Domiziano, mentre l'autore scriveva sotto gli
imperatori Traiano e Adriano, che furono buoni principi; la satira non ha
il sorriso bonario di Orazio o l'austera severità di Lucilio e dello
storico Persio, ma è colma d'ira, che accende l'elevatissimo carattere
morale del loro autore. E poiché l'autore ferisce delle ombre, si ha
esagerazione retorica sia nel contenuto che nella forma.
A prima vista, Giovenale mi è sembrato
assolutamente identico agli altri autori latini affrontati durante quest'anno:
il solito personaggio che finisce in esilio per aver offeso l'imperatore...
dopo qualche tempo, la letteratura latina diventa di una noia incredibile.
Così ho deciso di andare un po' nel particolare, approfondendo lo studio
dell'autore con la lettura di qualche sua opera; mi ha molto incuriosito la
XIV satira, il cui contenuto è così riassunto in un manuale:
"tratta dell'educazione dei giovani, mettendo in rilievo l'efficacia
che può avere su di essi l'esempio dei genitori e dei maestri".
Ne sono rimasto piacevolmente colpito: con un linguaggio piuttosto "accessibile",
l'autore lamenta la cattiva educazione e il cattivo esempio che molti genitori
danno ai loro figli. I vizi dei grandi, dice il poeta, non possono non essere
trasmessi anche ai figli: gioca il figlio del giocatore, è ghiotto
il figlio del crapulone; nessuno potrebbe imparare la mitezza in casa di Rutilo,
che trova divertente bollare a fuoco schiavi tutto il giorno, così
la figlia di Larga non può che essere adultera. Quando i vizi sono
in casa, chi in quella vive e cresce fa presto a impararli.
Trovo che tutto ciò sia di un'attualità incredibile; Giovenale
tratta questi argomenti con degli esempi che chiariscono ancora meglio le
sue posizioni:
"Cretonio si sentiva un costruttore nato; ed ora sul curvo lido di Gaeta,
ora in cima alla rocca di Tivoli, ora sui monti di Preneste, faceva costruire
alte ville con marmi greci e di terre lontane, superando in bellezza il tempio
della Fortuna e quello di Ercole. A furia dunque di costruirsi palazzi, Cretonio
finì col dimezzarsi il suo patrimonio e compromettere la sua fortuna;
e tuttavia la parte che gli era rimasta non era piccola. Ebbene, s'incaricò
di darvi fondo il figlio pazzo, costruendo nuove ville con marmi ancora più
belli."
È incredibile quanti insegnamenti si possono trarre anche solo da quest'esempio,
per non parlare poi dei consigli e dei suggerimenti dell'autore:
"Se qualcuno mi chiede un consiglio, gli dico io che proporzioni debba
avere la ricchezza. Ecco: dev'esser tanta quanta è sufficiente a vincere
la sete, la fame e il freddo, quanta, o Epicuro, ti bastava nel tuo piccolo
orto; quanta ce n'era, ancor prima, in casa di Socrate. Mai la natura ha
un linguaggio e la sapienza un altro."
Quante cose si possono imparare da un autore così "antico",
ma nello stesso tempo così moderno; il problema è che non si
trova il tempo per leggerne e approfondirne gli scritti, poiché si
è subito impegnati nello studio di un altro autore.
Studiare meno autori ma capirli e trarne insegnamento è più
logico che studiarne di più senza i necessari approfondimenti, e quindi
senza poterne trarre la giusta "lezione".
Nel quattrocento si pensava che l'uomo contemporaneo, pur non essendo grande
come l'uomo del passato, potesse vedere più lontano poiché gli
saliva sulle spalle: facciamo in modo che questo sia vero, e cerchiamo di
imparare anche noi da quelli che sono vissuti prima di noi!
6. (INGLESE)
"... era un bravo ragazzo, anche se non
studiava abbastanza; molto timido, molto svagato, durante le lezioni guardava
sempre nel vuoto. Qualche giorno fa abbiamo consegnato le pagelle, e da quel
momento lui non si è più presentato a scuola, è sparito.
Mi hanno riferito come è stato trovato, e ne sono rimasta profondamente
colpita: come può un ragazzo così giovane compiere un qualcosa
di così tremendo!"
(Corriere della Sera, 7 febbraio 1997)
Questa è la reazione di un'insegnante
di II liceo di fronte al suicidio di un suo allievo, impiccatosi nella cantina
di casa sua dopo aver ricevuto la pagella scolastica contenente tre insufficienze.
Credete che si tratti di un avvenimento isolato, che nessun adolescente possa
reagire in questo modo di fronte alla vita e alla scuola?
Ogni anno si suicidano centinaia di ragazzi, e una gran parte di questi lo
fa per problemi scolastici! Il terrore che gli studenti hanno nei confronti
di alcuni professori, delle interrogazioni e dei compiti in classe molte volte
li porta alla tristezza, alla paura, all'apatia, alla depressione e, per fortuna
solo in alcuni casi, al suicidio.
In effetti, non ha molto senso insegnare le discipline scolastiche agli studenti
quando poi questi si dimenticano qual è la cosa più importante
di tutte: la vita, e con questa la felicità.
Mi fa quasi ridere: avere il terrore di imparare! Quando vedo un compagno
di classe triste e avvilito per aver preso un quattro in un'interrogazione,
cerco di spiegargli che in fondo non è così importante un voto,
che se fra qualche anno ripenserà a questo momento, molto probabilmente
ci riderà sopra; ma non c'è assolutamente niente da fare, rimarrà
triste per tutto il giorno, e magari anche per qualche giorno successivo!
E' così che la scuola riesce a rubarci gli anni migliori: c'è
chi dice che se non studiamo adesso non lo faremo mai più, che a quarant'anni
sarà molto più duro passare del tempo sui libri, che si deve
studiare da giovani. Ma quanta voglia avremo a quarant'anni di passare delle
giornate fuori al sole correndo e facendo sport, di uscire con gli amici e
tornare alle cinque di mattina, di fare un viaggio con il solo biglietto di
andata, poi si troverà il modo di ritornare!
Dalle esperienze si imparano un sacco di cose, molte di più di quanto
non si impari a scuola! E' presunzione il credere che non si possa imparare
nulla se non sui libri. Il giusto sarebbe una via di mezzo, ma la scuola,
impostata come lo è adesso, non lo rende possibile; cinque ore ogni
mattina, per sei giorni la settimana, più almeno due ore e mezza di
studio pomeridiano (per uno studente medio): non vi sembra siano tante? Non
vi sembra che andrebbero dedicate più ore all'esperienza diretta della
vita libera?
"Mentre altri si riempiono la memoria
di una quantità di parole inutili, che dimenticheranno prima di una
settimana, l'ozioso può imparare qualche cosa di veramente utile: suonare
il violino, riconoscere un buon sigaro, parlare con garbo e naturalezza a
tutti i tipi di uomini. [...] provate a ricordare i tempi della vostra scuola,
sono sicuro che non rimpiangerete le intense, vivide, istruttive ore in cui
avete marinato le lezioni. Piuttosto cancellereste volentieri certi opachi
momenti, in classe, vacillanti tra il sonno e la veglia. Per quanto mi riguarda
ai miei tempi ho assistito ad alcune buone lezioni. Ricordo ancora che il
roteare della trottola è un caso di stabilità cinetica, che
l'enfiteusi non è una malattia, né lo stillicidio un crimine.
Eppure anche se non rinuncerei volentieri a questi brandelli di scienza, non
mi sembrano importanti quanto certi rimasugli della mia vita vagabonda, quando
marinavo la scuola.
(Robert Louis Stevenson "Elogio dell'ozio")
È bello scoprire che l'autore de La
strana avventura del dottor Jekyll e di mister Hyde e de L'isola del
tesoro ha scritto qualcosa di così "moderno" e anticonformista.
Questo saggio, tratto dalla raccolta Virginibus Puerisque, è
un'appassionata difesa di una vita libera e spontanea, contro ogni imposizione
di dogmi o comportamenti; l'autore prende in esame la vita dell'ozioso e quella
del diligente, mostrando i vantaggi del primo e le assurdità del secondo.
Arriva in questo modo alla conclusione che, quando la natura è così
noncurante di una singola vita, la cosiddetta diligenza dev'essere più
di ogni altra cosa diretta alla ricerca della felicità.
Stevenson ci mostra l'incongruenza che c'è tra la necessità
pratica di procurarsi il pane e la necessità morale di dedicarsi a
"qualche professione remunerativa". Questa seconda esigenza porta
ad un'assurda deviazione dall'obiettivo di Viver Bene, al quale si sostituisce
quello "delle Monetine", scelta che porta con sé un'esistenza
frenetica e arida, sintomo di scarsa voglia di vivere. Coloro che si pongono
in quest'ottica "non provano il piacere nell'esercizio delle proprie
facoltà se non hanno uno scopo": una tendenza che si trova spesso
espressa all'interno della scuola.
E' vero, a scuola ci si imbottisce di "conoscenze" che non ci risulteranno
mai utili nella vita pratica di tutti i giorni, e ci si dimentica che molte
cose si possono imparare solo attraverso l'esperienza diretta, e che "...
non c'è dovere che sottovalutiamo di più del dovere di essere
felici...".
PERCHÉ NO?
Mi sono sempre chiesto perché le ore
in un liceo scientifico siano state distribuite in quel modo: un po' assurdo,
se si pensa che si fanno 9 ore di discipline scientifiche e 14 di discipline
classiche, ma soprattutto per il fatto che nella cultura di base di stampo
scientifico che il mio liceo pretende di dare, è compresa la conoscenza
della lingua latina.
Sono d'accordo sul fatto che il latino contribuisca allo sviluppo della logica,
ma, per quanto riguarda l'esercizio logico, un'ora di matematica fatta bene
vale almeno 10 ore di latino! Personalmente trovo molto affascinante la letteratura
latina e, per quello che ne so, anche la letteratura greca, ma perché
continuare a tradurre autori difficili quando si possono benissimo apprezzare
già tradotti?
"I classici latini e greci, per esempio, sono stati tradotti e commentati
innumerevoli volte e sono disponibili in ottime edizioni economiche non scolastiche.
Perché nei licei si continua a fare finta che questi libri non esistano
e che un testo di Cicerone o Tucidide possa essere tradotto così, sapendo
appena un po' di grammatica, col solo aiuto del vocabolario e in un paio d'ore?
Come si fa a credere che degli adolescenti che non sanno quasi niente di cultura
greca e latina, hanno letto solo qualche romanzo contemporaneo e sfogliano
a malapena i giornali, abbiano una tale padronanza dell'italiano da tradurre
un passo di Tacito o di Demostene?" (Alfonso Berardinelli "Lezioni
di noia").
E poi, in base a cosa le materie sono definite di "cultura generale"?
Ad esempio, perché tra le discipline umanistiche non sono affatto contemplate
la musica e il teatro? Che cos'hanno di meno del latino, della letteratura
e dell'arte? Molti studenti non hanno nemmeno idea di come sia piacevole e
rilassante ascoltare un'opera di Mozart o un concerto di Beethoven o Chopin,
o una vertiginosa sonata di Rachmaninov! Ma, a dire la verità, non
oso immaginare cosa sarebbe se la musica fosse insegnata così come
si pretende di insegnare la poesia o l'arte.
"... dato che siamo nel paese delle belle arti, perché non fondare
la cultura umanistica più sulla musica o sulle arti visive che sulla
letteratura? Perché non cominciare fin dall'inizio a prescrivere l'ascolto
di Pergolesi e di Rossini, lo studio di una decina di quadri e di palazzi
rinascimentali e barocchi nelle vicinanze? Non si tratta di muoversi in gruppo,
in gita scolastica, come un branco di alienati e di coatti. Queste cose si
fanno da soli o in due." (Alfonso Berardinelli "Lezioni di noia")
E la politica? L'"educazione civica", come viene definita, dovrebbe
essere insegnata dal professore di storia e filosofia ma, per quello che ricordo,
l'unica "educazione civica" che ho mai fatto a scuola è stato
l'imparare a memoria due o tre leggi, lo studiare a grandi linee il funzionamento
del parlamento e... e basta! In un paese dove viene proposto un referendum
come "elezione alla camera dei deputati, abolizione del voto di lista
per l'attribuzione con metodo proporzionale del 25% dei seggi" non è
accettabile che degli studenti maggiorenni, e quindi votanti, non abbiano
neanche idea di che cosa siano il sistema proporzionale e il sistema maggioritario.
Poi ci si lamenta del fatto che gli italiani disertino le urne: se uno non
ha la benché minima idea di cosa comporterà il proprio voto,
o si astiene o vota senza pensare! Certo, la scuola italiana non si preoccupa
mica di tenere dei corsi su come votare e su cosa significhi il votare, tanto
i ragazzi votano quello che vedono di più in televisione, o quello
che ha più manifesti sui muri, o quello che i propri genitori consigliano
loro... se la gente non pensa, è molto più comodo!
E l'inglese? In 5 anni si fanno 476 ore di inglese contro 560 ore di latino!
Eppure una persona per lavorare deve saper parlare in inglese, mentre
del latino...
E l'informatica? Un ragazzo esce dal liceo scientifico con qualche piccola
base di Lotus e Pascal. E ms-dos? E Windows? E internet? Il liceo pretende
di fornire una cultura di base tralasciando il computer, in un mondo in cui
già ora, e figuriamoci fra dieci anni, si lavora praticamente solo
con quello?
Ci si adegua alle normative europee con la riforma dei cicli, l'innalzamento
dell'obbligo scolastico e la nuova maturità quando la scuola non riesce
nemmeno a fornire un'adeguata conoscenza dell'informatica e della lingua inglese?
Io trovo sia una follia!
In cinque anni di liceo, ho osservato tutto ciò che accadeva a me, ai miei compagni e ai professori; ho ragionato su quanto fosse illogico spendere ben più di metà giornata sui libri, soprattutto se poi il ricavato di tale fatica era così insignificante; ho litigato con compagni che "aderivano" alla filosofia del "metterlo in quel posto agli altri, così a me andrà meglio"; ho visto ragazzi distrutti da una brutta pagella; ho capito che il saper pensare è molto più importante dell'imparare a memoria; ho imparato che sopportando non si cambia nulla, che bisogna lottare, ma non da soli e in silenzio... ho cercato di imparare dalla scuola ciò che lei non mi ha voluto insegnare: la felicità, perché "un uomo felice non ruba né ammazza, un principale felice non opprime i dipendenti, una donna felice non brontola in continuazione con il marito e i figli. I delitti, l'odio, le guerre si possono spiegare con l'infelicità." (Alexander S. Neill)
Mi piacerebbe che la storia continuasse in questo modo:
"... così ci si rese conto
di ciò che non andava bene, e qualcosa cambiò..."
- fine -