La
scuola ai tempi dell'economia globale.
Cosa
c'entra la globalizzazione con la scuola? Molto. Troppo. REDS. Luglio 2001.
La globalizzazione
capitalistica interessa anche la scuola e i lavoratori della scuola? La contestazione
al G8 di Genova del prossimo luglio riguarda anche studenti e insegnanti?
Con questo articolo vogliamo dimostrare che interessa tutti, lavoratori e
studenti, poiché la scuola - anche quella italiana - è da anni
ormai nell'occhio del mirino della speculazione capitalista. Ancora di più
oggi, che abbiamo in Italia un governo di centrodestra che sul terreno della
scuola e dell'educazione ha intenzione di imprimere un'accelerazione di vasta
portata nella direzione privatistica e affaristica e, come tributo alle componenti
cattoliche della coalizione, anche familistica. Nel fare questo ricorreremo
a citazioni tratte da articoli che analizzano il problema tra la fine degli
anni Ottanta e oggi, comparsi su Reds (quali il pezzo del periodico "Classe
Struggle" del gennaio-febbraio 2000 intitolato Stati Uniti - L'impresa privata all'assalto della scuola pubblica,
e gli estratti della Relazione presentata alla "Iniciativa democratica
para la educacion en las Americas dal titolo L'educazione
e la globalizzazione neoliberale, tratta da ALAI del novembre 1999), o
su Filirossi, come il manifesto neoliberista Scuola libera! Appunti per la nascita di un movimento, e
l'articolo di "Le Monde Diplomatique", del 16 giugno 1998, dal titolo
La scuola, grande affare del XXI secolo. Inoltre riteniamo
molto inetressante e istruttivo anche il cap. 4 del libro di Naomi Klein,
No Logo. Economia globale e nuova contestazione, dal titolo "Il
branding dell'istruzione. Pubblicità nelle scuole e nelle università". Già
nel 1955, Milton Friedman, professore di economia all'Università di
Chicago e più tardi consigliere dei presidenti Nixon e Reagan, affermava
che le scuole saranno più efficienti se saranno sottoposte alle leggi
del mercato capitalistico e, come tutte le aziende, entreranno in concorrenza
le une con le altre per attirare i loro clienti: gli studenti. A questo scopo,
proponeva un sistema di buoni-scuola emessi all'ordine dei genitori di un
figlio in età scolare, che questi avrebbero potuto girare alla scuola
di loro scelta, compresa una scuola privata o confessionale. Oggi in Italia
questa stessa politica è quella che intende perseguire il nuovo ministro
della P.I., Letizia Moratti. Qualche tempo fa insieme a intellettuali e politici
del centrodestra e a esponenti del mondo imprenditoriale, tra cui Ferdinando
Adornato, Innocenzo Cipolletta, Antonio Martino, Angelo Panebianco, Sergio
Romano, Cesare Romiti, Marco Tronchetti Provera, Giorgio Vittadini, ha sottoscritto
un documento dal titolo Scuola libera! Appunti per la nascita di un movimento.
In esso in sostanza si riconosce che la scolarizzazione di massa degli anni
60-70 ha permesso anche ai figli delle classi meno abbienti di studiare e
diventare medici, ingegneri, professionisti, ma che oggi la scuola statale
è diventata una specie di gabbia classista: chi ha più soldi
può mandare i propri figli a studiare all'estero o in scuole private
d'eccellenza; chi invece si trova in condizioni di disagio è costretto
a parcheggiarli in una scuola sempre più dequalificata. Quale la soluzione
proposta? Il buono scuola, che permette anche ai figli dei dei più
poveri di accedere agli istituti migliori. Inoltre si
dice: "La globalizzazione economica richiede standard sempre più
elevati di preparazione per ogni tipo di lavoro e professione. Riteniamo perciò
doveroso dire ai nostri concittadini che, se l'Europa e in essa l'Italia vorranno
mantenere i livelli di benessere raggiunti, dovranno portare la propria efficienza
economica e tecnologica a livelli di eccellenza". Non sono
quindi solo le aree geografiche, del Sud o dell'Est, a interessare il mercato
e a essere mira dei potentati economici, ma anche nuovi settori soprattutto
dei servizi, tradizionalmente gestiti dal potere pubblico, e che oggi fanno
gola agli interessi privati. Che la scuola sia per il capitale una nuova frontiera
di investimento e di profitto impone la necessità ovunque di riformarla.
Nel nostro paese ciò costituisce il motivo per cui, da vari anni, anche
"a sinistra", parlando di riforma non si intende più allargamento
degli ambiti democratici e innalzamento dei livelli culturali e della scolarizzazione,
ma efficienza, aziendalizzazione, legame col mondo del lavoro. Gli interventi
riformatori del governo di centrosinistra sono tutti informati di questa stessa
ideologia neoliberista. Ad esso dobbiamo la privatizzazione del lavoro nella
pubblica amministrazione, la legge di autonomia e soprattutto la dirigenza
scolastica, la regionalizzazione della formazione professionale e dei corsi
post-diploma, la legge di parità, ecc. Su questa strada tracciata da
tempo dai governi attraverso sperimentazioni e innovazioni legislative di
portata ancora minima, ampliata decisamente dai ministri Berlinguer e De Mauro,
si inserisce ora la neo-ministra della Casa delle libertà, con l'intenzione
di imprimere alla dinamica in atto una velocità maggiore. La conclusione
che si legge nel manifesto sopra citato è la seguente: "La scuola
italiana ha e avrà bisogno in prospettiva di risorse crescenti e la
nostra proposta vuole contribuire a mobilitarle. Noi pensiamo che vi siano
molte energie che possono progressivamente rafforzare il nostro apparato formativo.
Esse vanno fatte scattare come una molla. Il sapere è una risorsa.
L'impresa deve quindi trovare proficuo e vantaggioso investire nella scuola.
Da questo punto di vista gli Stati Uniti possono insegnarci qualcosa"
(Scuola libera! cit.). Ed è
vero che gli Stati Uniti possono insegnarci qualcosa, in quanto per almeno
un ventennio hanno sperimentato quelle formule tanto care ai nostri magnati
dell'industria e del capitale. Ma cosa ci possono insegnare? Anzitutto che
proprio negli Stati Uniti viene oggi messo decisamente in discussione uno
degli aspetti centrali di questo modello della scuola libera: quello della
privatizzazione e soprattutto del finanziamento statale delle scuole private.
Il buono scuola incontra fortissime resistenze sia da parte dell'opinione
pubblica che delle forze politiche e istituzionali. È recentissima
la sconfitta del neopresidente Bush sulla questione del buono scuola al Senato,
dove si è creato un fronte anti-vaucher formato dai democratici e da
tredici senatori repubblicani. La campagna anti-vaucher dei democratici è
sostenuta anche dai sindacati degli insegnanti americani, in particolare dall'Aft,
che hanno ben chiaro come il buono scuola significhi sottrazione di fondi
alle scuole pubbliche. Non bisogna dimenticare che questa battuta d'arresto
giunge dopo le altrettanto sonore sconfitte nei referendum della California
e del Michigan dei mesi scorsi. La proposta del buono scuola è stata
bocciata anche in Svizzera e incontra ostacoli anche da noi. Il Comitato per
la scuola pubblica informa con un comunicato del 26 giugno 2001 che a Bologna
sono state raccolte in poche settimane le 9.000 firme necessarie per sottoporre
a referendum i buoni emessi per asili nido e scuole materne comunali dalla
giunta Guazzaloca. Negli Stati
Uniti già da diversi anni le difficoltà che incontra oggi il
buono scuola erano chiare agli stessi uomini d'affari e profittatori che da
tale strumento sono stati favoriti nella creazione di nuove scuole private.
Dall'articolo di Classe Struggle del gennaio-febbraio 2000 si apprende che
"un certo numero di aziende a scopo dichiaratamente di lucro si sono
lanciate sul mercato e controllano già il 10% circa delle scuole sotto
contratto" (cioè scuole private che sottoscrivono un accordo con
lo stato ricevendo da esso finanziamenti). A questi dati va contrapposto quanto
emerso in una conferenza su impresa ed educazione tenuta a a Nashville nell'agosto
1997, nella quale alcuni investitori hanno mostrato di essere "inquietati
per il timore del fallimento politico del sistema dei «buoni»,
poiché tutti i sondaggi effettuati fino a oggi mostrano che la maggior
parte dei genitori è contraria". Di fronte a tale rischio i partecipanti
erano però tutti "d'accordo sulle misure suscettibili di rendere
la «industria» scolastica redditizia: ridurre il numero di insegnanti
(cioè aumentare il numero di alunni per classe); ridurre la massa salariale
degli insegnanti arruolando un maggior numero di giovani e di professori non
abilitati; ridurre o sopprimere gli organismi che rilasciano i diplomi di
insegnamento e affidare la valutazione delle competenze degli insegnanti ai
«manager» delle scuole (parola che essi preferiscono a «direttore»)".
(Vedi Stati Uniti - L'impresa privata all'assalto della scuola pubblica,
cit.). I tagli agli
investimenti sono quindi uno degli aspetti fondamentali della politica neoliberale
sul piano scolastico. Nella Relazione di "Iniciativa democratica"
si sosteneva: "L'educazione primaria è ancora finanziata dallo
stato nella maggioranza dei Paesi e, per la dimensione dei costi, costituisce
il terreno perfetto per attuare tagli di bilancio. Nei Paesi meno sviluppati
si sono fatti tagli a causa dell'imposizione di programmi di aggiustamento
strutturale (FMI). I tagli hanno significato la limitazione del salario degli
insegnanti, la creazione di cattive condizioni nella dinamica di insegnamento-apprendimento,
e in alcuni casi, l'imposizione di rette a spese degli utenti. Nei Paesi sviluppati
simili tagli si sono fatti con la giustificazione che si stanno assottigliando
i margini nella lotta per la concorrenza globale, il che comporterebbe la
riduzione di tasse e dunque una minore consistenza dei beni erogati dal servizio
pubblico. In tutti i luoghi il processo è accompagnato da un incremento
dell'istruzione privata, stabilendo così due livelli di educazione".
(Vedi L'educazione e la globalizzazione neoliberale, cit.). La globalizzazione
neoliberale persegue quindi l'obiettivo di creare un sistema integrato pubblico-privato
secondo il quale lo stato finanzia il sistema e il privato lo gestisce, introducendo
le regole e i valori del mercato e della competizione, e nel contempo aprire
completamente il mondo della scuola a tutte le esigenze dell'impresa. Tornando
al nostro paese, è anche per agevolare queste dinamiche privatistiche
che nel citato documento del centrodestra leggiamo: "si giunga all'abolizione
del valore legale del titolo di studio" (Scuola libera! cit.).
Fino a ieri invece abbiamo avuto una più cauta insistenza all'interno
della riforma sulla "certificazione oggettiva delle competenze"
(libretto o portfolio). Ciò corrispondeva all'idea messa in campo dalla
Commissione europea di una «carta di accreditamento delle competenze»,
pensata per aggirare le normative nazionali in fatto di attribuzione e riconoscimento
dei diplomi. Gerard De Sélys scrive: "L'idea è semplice.
Immaginiamo che un giovane acceda a vari fornitori commerciali di insegnamento
attraverso Internet, ottenendo così, dietro pagamento, «competenze»
in materia tecnica, linguistica e di gestione. A seconda del suo autoapprendimento,
i fornitori di insegnamento gli «accrediteranno» le conoscenze
acquisite. Questo «accreditamento» sarà contabilizzato
su un dischetto (definito «carta»), che lo studente avrà
inserito nel suo computer, collegato con i suoi fornitori. Quando cercherà
un lavoro, introdurrà nel suo computer questo dischetto e si collegherà
a un sito di «offerte di lavoro» gestito da un'associazione padronale.
Il suo profilo sarà allora analizzato da un software, e se le sue «competenze»
corrisponderanno a quelle richieste da un datore di lavoro, sarà assunto.
I diplomi dunque non serviranno più: il padronato gestirà il
suo proprio sistema senza preoccuparsi del controllo degli stati e del mondo
universitario". (La scuola, grande affare del XXI secolo, cit.). Oltre ad
essere un mercato da sfruttare, l'educazione è quindi una delle chiavi
per la nuova fase dello sviluppo economico capitalistico. La diffusione della
tecnologia sta riducendo la quantità di produzione lavorativa che non
richiede addestramento. Le imprese dimostrano quindi un crescente interesse
nell'educazione orientata a soddisfare le necessità dell'impresa. Va
da sé che quando l'istruzione si privatizza ed acquisisce fini commerciali,
le aree didattiche culturali e sociali perdono interesse a meno che non possano
essere utilizzate anche loro come oggetti commerciali. In tal senso è
illuminante la lettura del cap. 4 del libro di Naomi Klein, No Logo. Economia
globale e nuova contestazione, dal titolo "Il branding dell'istruzione.
Pubblicità nelle scuole e nelle università". In esso l'autrice
descrive le fasi del processo di inserimento a vari livelli delle aziende
produttrici nel mercato scolastico e le conseguenze che esso produce sul piano
della didattica e della ricerca. Tale inserimento è stato facilitato
dalle politiche neoliberiste di tagli e ristrutturazioni che hanno costretto
le istituzioni scolastiche a sottoporsi ai ricatti delle imprese per sopravvivere.
"È stata la tecnologia a rinnovare l'urgenza di far fronte alla
cronica mancanza di fondi degli anni Novanta: nel momento in cui le scuole
si trovavano ad affrontare tagli di bilancio sempre più drastici, i
costi per fornire un'educazione moderna aumentavano in modo esponenziale,
costringendo molti istituti a cercare fonti di finanziamento alternative.
L'incalzare della moderna info-tecnologia ha fatto sì che, improvvisamente,
ci si aspettasse che scuole che non potevano permettersi testi aggiornati
mettessero a disposizione degli studenti apparecchiature audiovisive, videocamere,
aule di informatica, i più recenti programmi software, l'accesso a
Internet, e, in alcuni casi, persino impianti di videoconferenza". Ma,
"come hanno sottolineato parecchi esperti del settore scolastico, i benefici
pedagogici della tecnologia in aula sono quantomeno dubbi" (No Logo,
cit., pp. 120-121). Il caso del canale televisivo Channel One, di cui parlano
anche i compagni di Classe Struggle, inserito a pieno titolo nel circuito
scolastico, è paradigmatico: "Channel One fornisce alla scuola
l'equipaggiamento audiovisivo di cui ha bisogno e in cambio la scuola s'impegna
a fare in modo che ogni alunno guardi Channel One, la cui programmazione quotidiana
di venti minuti comprende informazione, reportage, sport, meteo, pubblicità
per Channel One e due minuti di spot commerciali. Questo tipo di audience
è molto ricercato da diverse agenzie ed ogni spot pubblicitario di
30 secondi è venduto da Channel One a 200.000 dollari. Come si vede
il business educativo può essere molto redditizio" (Vedi Stati
Uniti - L'impresa privata all'assalto della scuola pubblica, cit.). "In
cambio, le scuole non hanno un ritorno in denaro dalle emittenti, ma possono
utilizzare le tanto agognate apparecchiature audiovisive per altre lezioni,
e, in alcuni casi, ricevere dei computer «gratis» [...] Oggi Channel
One è presente in 12.000 scuole, e raggiunge un numero di studenti
calcolato intorno agli otto milioni [...]. Come hanno affermato molti critici,
Channel One non limita a vendere le scarpe da ginnastica e le caramelle dei
suoi clienti ai ragazzini delle scuole. Sta anche vendendo il concetto che
il suo programma è un supporto educativo d'immenso valore, un metodo
che contribuisce alla modernizzazione delle risorse educative aride ed obsolete,
rappresentate dai libri e dagli insegnanti. Nel modello rappresentato da questa
emittente, il processo d'apprendimento è poco più che un trasferimento
di «roba» nel cervello degli studenti. Che si tratti dell'ultimo
successo della Disney oppure del teorema di Pitagora, il risultato è
lo stesso: più roba inculcata" (No Logo, cit., pp. 122-126).
La frustrazione tra gli insegnanti e i professori universitari è grande.
La scuola perde la sua funzione civica e democratica, di garanzia di autonomia
e libertà. Dice ancora Naomi Klein: "Molti professori parlano
della strisciante invasione della mentalità da centro commerciale:
secondo loro, più i campus assomigliano a centri commerciali, più
gli studenti si comportano come consumatori [...] Un professore della York
University di Toronto, nel cui campus si trova un vero e proprio centro commerciale,
mi racconta che i suoi studenti entrano in aula bevendo un cappuccino, chiacchierano
in ultima fila, quindi se ne vanno. Vanno a caccia di flirt, a far compere,
non hanno interessi" (No Logo, cit., pp. 132-133). Chi crede
nella funzione civile e democratica della scuola ed è convinto che
suo compito sia quello di favorire la crescita serena dell'individuo in rapporto
con la società, fornendolo di strumenti di lettura e comprensione della
realtà; chi si pone come obiettivo quello di capacitare i giovani ad
affrontare i problemi e gli aspetti contraddittori del nostro mondo e della
relazione con il prossimo, senza contribuire a ridurli al rango passivo di
clienti e consumatori non può che opporsi con forza ai processi sopra
descritti, che trovano espressione nell'ideologia ora dominante del neoliberismo
e concretizzazione nelle politiche governative. Chi è convinto di ciò
può vedere oggi nel movimento cosiddetto "di Seattle", che
si oppone alle logiche neoliberiste, uno strumento efficace di opposizione
e di rilancio di una nuova politica, anche scolastica, in cui siano centrali
non i bisogni del mercato ma quelli della persona e delle comunità
civili e democratiche.
La globalizzazione viene da questi esponenti del nostro padronato assunta
come un dato di fatto che non merita neppure di essere definita, tanto meno
analizzata e giudicata.
Questa la definizione che ne dà la "Guida del mondo 1999-2000",
a cura dell'Instituto del Tercer Mundo: "«Globalizzazione»
è un eufemismo per «transnazionalizzazione», che indica
l'espansione illimitata delle società transnazionali nell'economia
mondiale, in particolare nelle popolose e povere nazioni del Sud. In questo
processo giocano un ruolo chiave le tre principali istituzioni multilaterali
collegate al credito, all'investimento e al commercio: la Banca Mondiale,
il FMI, la OMC (ex GATT)" (pag. 63).
Per globalizzazione intendiamo quindi l'incremento esponenziale del traffico
di merci, servizi e capitali su scala planetaria, con l'obiettivo di creare
un mercato globale senza regole se non quelle imposte dai poteri forti. La
ricetta è quindi semplice: assenza di regole e di diritti, imposizione
di diktat che producono squilibri sempre più gravi e miserie sempre
più devastanti.
Nella Relazione del novembre 1999 presentata alla "Iniciativa democratica
para la educacion en las Americas" viene detto: "La maniera in cui
la globalizzazione si sta attualmente sviluppando, rappresenta una minaccia
contro la democrazia e l'uguaglianza sociale, così come contro i sistemi
di istruzione pubblica che si basano su questi valori. L'educazione è
l'area dove gli stati spendono di più ed è dunque un terreno
potenziale di privatizzazione. Si tratta, per il progetto neoliberale, di
una fetta di mercato potenzialmente vasta, ed è di importanza centrale
per l'intera economia. In generale poi sarebbe un problema per le multinazionali
se l'educazione avesse successo nel formare cittadini critici" (Vedi
L'educazione e la globalizzazione neoliberale, da ALAI).
Moratti e soci, che di questa linea come abbiamo visto sono i portavoce, sostengono:
"Particolarmente per le scuole professionali, snodo decisivo [...] del
sistema formativo, le imprese, le aziende artigianali, le associazioni di
categoria potrebbero essere interessate a partecipare alla gestione di istituti
che hanno per scopo quello di preparare i lavoratori di cui esse hanno bisogno.
Tutto ciò favorirebbe una maggiore osmosi tra mondo della scuola e
mondo del lavoro". (Scuola libera! cit.).
Alle imprese e alle aziende artigianali, a sostegno delle quali intervengono
gli enti locali erogatori dei fondi sociali UE e che gestirebbero la scuola
né più né meno che come un'agenzia di collocamento, si
affiancano le grandi imprese multinazionali specializzate nella formazione
a distanza, che trovano nel WTO e negli altri organismi multilaterali e politici
(FMI, G8, UE, ecc.) validi strumenti per le loro politiche.
Il disegno è chiaro e si delinea su scala mondiale. La scuola pubblica,
in ogni parte del mondo, è attaccata da più direzioni, da soggetti
che se è vero che sono tra loro in forte concorrenza, hanno in comune
però l'obiettivo di scardinarne le difese per poi lanciarsi nella competizione
per la conquista di questo mercato globale lasciato finalmente libero. Anche
i governi, che agiscono per conto delle imprese nazionali sono impeganti in
questa competizione, all'interno e al di fuori dei propri confini. All'interno,
come abbiamo visto, con le opere di ristrutturazione che assumono l'ambigua
denominazione di "riforma". All'esterno, in compagnia e in competizione
con altri enti politici ed economici sovranazionali, promuovendo lo sviluppo
di agenzie formative a distanza. In Francia, ad esempio, il ministro della
pubblica istruzione Claude Allègre, lo stesso che ha definito "immotivato"
lo sciopero degli insegnanti, ha lanciato nel febbraio '98 un'agenzia per
la promozione della formazione all'estero sostenendo: "Venderemo all'estero
il nostro savoir-faire; ci siamo fissati un obiettivo di due miliardi di franchi
di fatturato in tre anni. Sono convinto che questo sia il grande mercato del
XXI secolo. Un solo esempio: un paese come l'Australia guadagna 7 miliardi
di franchi esportando formazione" (Vedi La scuola, grande affare del
XXI secolo, cit.). In questo articolo, il giornalista Gerard De Sélys,
autore di uno studio contro l'aziendalizzazione e la globalizzazione neoliberista
dell'istruzione ("Tableau noir, appel à la résistence contre
la privatisation de l'enseignement", EPO, Bruxelles, maggio 1998), analizza
efficacemente i nessi tra istruzione, politica, mercato e imprese, descrivendone
le iniziative e i progetti sostenuti a livello europeo negli anni '90.
Da un lato "lo sviluppo dell'educazione a distanza offre la via più
semplice per i progetti educativi transnazionali: portata a tutte le frontiere
dalle nuove tecnologie, risulta meno cara l'educazione transnazionale che
qualsiasi altra forma d'educazione. I vantaggi di produrre capitale nell'area
educativa sono simili ai vantaggi di fare cinema o televisione. I corsi possono
essere sviluppati per il mercato e la maggioranza dei costi possono essere
recuperati. Con un piccolo investimento addizionale questi corsi possono essere
offerti in altri Paesi, a basso costo. Non sorprende che l'educazione a distanza
sia sostenuta come la forma d'educazione dell'era della globalizzazione. Gli
USA sono il maggiore esportatore d'educazione, pertanto non deve meravigliare
che tra le intenzioni dell'OMC ci sia anche quella di ridurre le barriere
che impediscono la crescita dell'esportazione educativa in altri Paesi, sia
sviluppati che in via di sviluppo" (L'educazione e la globalizzazione
neoliberale, cit.). Dall'altro però gli USA in questo settore non
sono i soli; si trovano ad affrontare sicuramente la concorrenza delle società
informatiche europee (Olivetti, Philips, Siemens, Ericsson, Bertelsmann,British
Telecom, ecc.). Già alla fine degli anni '80 questi soggetti constatavano
che l'istruzione e la formazione sono "investimenti strategici vitali
per il futuro successo dell'impresa", e deploravano che esse fossero
appannaggio esclusivo dei governi, che gli insegnanti avessero "un'insufficiente
comprensione della realtà economica, degli affari e della nozione di
profitto", e che l'industria avesse "una modestissima influenza
sui programmi didattici". Pertanto concludevano che "industrie e
istituti scolastici e universitari dovrebbero lavorare «congiuntamente
per lo sviluppo di programmi di insegnamento», in particolare con il
ricorso al «teleapprendimento», al «teleinsegnamento»
e alla messa a punto di «Software didattici» (per l'apprendimento
attraverso il computer)". (Vedi La scuola, grande affare del XXI secolo,
cit.). L'invito è stato accolto dalla Commissione europea che nel marzo
'90 ha adottato un documento nel quale si legge: "L'insegnamento a distanza
è particolarmente utile per assicurare un insegnamento e una formazione
redditizi. Un insegnamento di elevata qualità può essere così
concepito e prodotto in una sede centrale, per essere quindi diffuso ai livelli
locali, con la possibilità di fruire di economie di scala. Il mondo
degli affari sta divenendo sempre più attivo in questo campo, sia in
quanto utente e beneficiario dell'insegnamento multimediale e a distanza,
sia per quanto riguarda la messa a punto e la fornitura di materiali formativi
di questo tipo". Un anno dopo la Comunità europea sosteneva che
"l'insegnamento superiore a distanza è una nuova industria. Quest'impresa
deve vendere i suoi prodotti sul mercato dell'insegnamento permanente, governato
dalle leggi della domanda e dell'offerta". Quindi sottolineava "la
necessità di impegnarsi in azioni per estendere la portata, l'impatto
e le applicazioni dell'apprendimento aperto e a distanza, per rimanere competitivi
sul mercato globale". (Vedi La scuola, grande affare del XXI secolo,
cit.).
Il Rapporto della tavola rotonda degli industriali europei, Ert, del febbraio
1995 sosteneva in maniera perentoria: "La responsabilità della
formazione deve, in definitiva, essere assunta dall'industria. Sembra che
nel mondo della scuola non si percepisca chiaramente quale sia il profilo
dei collaboratori di cui l'industria ha bisogno. L'istruzione deve essere
considerata come un servizio reso al mondo economico. I governi nazionali
dovrebbero vedere l'istruzione come un processo esteso dalla culla fino alla
tomba. Istruzione significa apprendere, non ricevere un insegnamento. Non
abbiamo tempo da perdere". A questo si ricollegano tutti i discorsi di
questi anni sull'educazione permanente o continua. Una intenzione di per sé
lodevole ma determinata e sottoposta anch'essa alle esigenze del profitto!
Nel 1996 l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE)
aggiungeva: "l'apprendimento a vita non può fondarsi sulla presenza
permanente di insegnanti", ma deve essere assicurato "da prestatori
di servizi educativi. La tecnologia crea un mercato mondiale nel settore della
formazione. La nuova possibilità di proporre programmi didattici in
altri paesi, senza obbligare studenti e insegnanti a spostarsi, potrebbe avere
senz'altro importanti ripercussioni sulla struttura del sistema scolastico
e formativo su scala mondiale". Se il ruolo dei pubblici poteri non viene
disconosciuto, è comunque limitato ad "assicurare l'accesso all'apprendimento
a coloro che non costituiranno mai un mercato redditizio, e la cui esclusione
dalla società in generale si accentuerà nella misura in cui
gli altri continueranno a progredire". Qui l'Ocse esprime a chiare lettere
ciò che l'Ert e la Commissione non avevano osato dire: gli insegnanti
residuali si occuperanno della popolazione "non redditizia". (Vedi
La scuola, grande affare del XXI secolo, cit.).