La scuola ai tempi dell'economia globale.
Cosa c'entra la globalizzazione con la scuola? Molto. Troppo. REDS. Luglio 2001.


 

La globalizzazione capitalistica interessa anche la scuola e i lavoratori della scuola? La contestazione al G8 di Genova del prossimo luglio riguarda anche studenti e insegnanti? Con questo articolo vogliamo dimostrare che interessa tutti, lavoratori e studenti, poiché la scuola - anche quella italiana - è da anni ormai nell'occhio del mirino della speculazione capitalista. Ancora di più oggi, che abbiamo in Italia un governo di centrodestra che sul terreno della scuola e dell'educazione ha intenzione di imprimere un'accelerazione di vasta portata nella direzione privatistica e affaristica e, come tributo alle componenti cattoliche della coalizione, anche familistica. Nel fare questo ricorreremo a citazioni tratte da articoli che analizzano il problema tra la fine degli anni Ottanta e oggi, comparsi su Reds (quali il pezzo del periodico "Classe Struggle" del gennaio-febbraio 2000 intitolato Stati Uniti - L'impresa privata all'assalto della scuola pubblica, e gli estratti della Relazione presentata alla "Iniciativa democratica para la educacion en las Americas dal titolo L'educazione e la globalizzazione neoliberale, tratta da ALAI del novembre 1999), o su Filirossi, come il manifesto neoliberista Scuola libera! Appunti per la nascita di un movimento, e l'articolo di "Le Monde Diplomatique", del 16 giugno 1998, dal titolo La scuola, grande affare del XXI secolo. Inoltre riteniamo molto inetressante e istruttivo anche il cap. 4 del libro di Naomi Klein, No Logo. Economia globale e nuova contestazione, dal titolo "Il branding dell'istruzione. Pubblicità nelle scuole e nelle università".

Già nel 1955, Milton Friedman, professore di economia all'Università di Chicago e più tardi consigliere dei presidenti Nixon e Reagan, affermava che le scuole saranno più efficienti se saranno sottoposte alle leggi del mercato capitalistico e, come tutte le aziende, entreranno in concorrenza le une con le altre per attirare i loro clienti: gli studenti. A questo scopo, proponeva un sistema di buoni-scuola emessi all'ordine dei genitori di un figlio in età scolare, che questi avrebbero potuto girare alla scuola di loro scelta, compresa una scuola privata o confessionale. Oggi in Italia questa stessa politica è quella che intende perseguire il nuovo ministro della P.I., Letizia Moratti. Qualche tempo fa insieme a intellettuali e politici del centrodestra e a esponenti del mondo imprenditoriale, tra cui Ferdinando Adornato, Innocenzo Cipolletta, Antonio Martino, Angelo Panebianco, Sergio Romano, Cesare Romiti, Marco Tronchetti Provera, Giorgio Vittadini, ha sottoscritto un documento dal titolo Scuola libera! Appunti per la nascita di un movimento. In esso in sostanza si riconosce che la scolarizzazione di massa degli anni 60-70 ha permesso anche ai figli delle classi meno abbienti di studiare e diventare medici, ingegneri, professionisti, ma che oggi la scuola statale è diventata una specie di gabbia classista: chi ha più soldi può mandare i propri figli a studiare all'estero o in scuole private d'eccellenza; chi invece si trova in condizioni di disagio è costretto a parcheggiarli in una scuola sempre più dequalificata. Quale la soluzione proposta? Il buono scuola, che permette anche ai figli dei dei più poveri di accedere agli istituti migliori.

Inoltre si dice: "La globalizzazione economica richiede standard sempre più elevati di preparazione per ogni tipo di lavoro e professione. Riteniamo perciò doveroso dire ai nostri concittadini che, se l'Europa e in essa l'Italia vorranno mantenere i livelli di benessere raggiunti, dovranno portare la propria efficienza economica e tecnologica a livelli di eccellenza".
La globalizzazione viene da questi esponenti del nostro padronato assunta come un dato di fatto che non merita neppure di essere definita, tanto meno analizzata e giudicata.
Questa la definizione che ne dà la "Guida del mondo 1999-2000", a cura dell'Instituto del Tercer Mundo: "«Globalizzazione» è un eufemismo per «transnazionalizzazione», che indica l'espansione illimitata delle società transnazionali nell'economia mondiale, in particolare nelle popolose e povere nazioni del Sud. In questo processo giocano un ruolo chiave le tre principali istituzioni multilaterali collegate al credito, all'investimento e al commercio: la Banca Mondiale, il FMI, la OMC (ex GATT)" (pag. 63).
Per globalizzazione intendiamo quindi l'incremento esponenziale del traffico di merci, servizi e capitali su scala planetaria, con l'obiettivo di creare un mercato globale senza regole se non quelle imposte dai poteri forti. La ricetta è quindi semplice: assenza di regole e di diritti, imposizione di diktat che producono squilibri sempre più gravi e miserie sempre più devastanti.
Nella Relazione del novembre 1999 presentata alla "Iniciativa democratica para la educacion en las Americas" viene detto: "La maniera in cui la globalizzazione si sta attualmente sviluppando, rappresenta una minaccia contro la democrazia e l'uguaglianza sociale, così come contro i sistemi di istruzione pubblica che si basano su questi valori. L'educazione è l'area dove gli stati spendono di più ed è dunque un terreno potenziale di privatizzazione. Si tratta, per il progetto neoliberale, di una fetta di mercato potenzialmente vasta, ed è di importanza centrale per l'intera economia. In generale poi sarebbe un problema per le multinazionali se l'educazione avesse successo nel formare cittadini critici" (Vedi L'educazione e la globalizzazione neoliberale, da ALAI).

Non sono quindi solo le aree geografiche, del Sud o dell'Est, a interessare il mercato e a essere mira dei potentati economici, ma anche nuovi settori soprattutto dei servizi, tradizionalmente gestiti dal potere pubblico, e che oggi fanno gola agli interessi privati. Che la scuola sia per il capitale una nuova frontiera di investimento e di profitto impone la necessità ovunque di riformarla. Nel nostro paese ciò costituisce il motivo per cui, da vari anni, anche "a sinistra", parlando di riforma non si intende più allargamento degli ambiti democratici e innalzamento dei livelli culturali e della scolarizzazione, ma efficienza, aziendalizzazione, legame col mondo del lavoro. Gli interventi riformatori del governo di centrosinistra sono tutti informati di questa stessa ideologia neoliberista. Ad esso dobbiamo la privatizzazione del lavoro nella pubblica amministrazione, la legge di autonomia e soprattutto la dirigenza scolastica, la regionalizzazione della formazione professionale e dei corsi post-diploma, la legge di parità, ecc. Su questa strada tracciata da tempo dai governi attraverso sperimentazioni e innovazioni legislative di portata ancora minima, ampliata decisamente dai ministri Berlinguer e De Mauro, si inserisce ora la neo-ministra della Casa delle libertà, con l'intenzione di imprimere alla dinamica in atto una velocità maggiore. La conclusione che si legge nel manifesto sopra citato è la seguente: "La scuola italiana ha e avrà bisogno in prospettiva di risorse crescenti e la nostra proposta vuole contribuire a mobilitarle. Noi pensiamo che vi siano molte energie che possono progressivamente rafforzare il nostro apparato formativo. Esse vanno fatte scattare come una molla. Il sapere è una risorsa. L'impresa deve quindi trovare proficuo e vantaggioso investire nella scuola. Da questo punto di vista gli Stati Uniti possono insegnarci qualcosa" (Scuola libera! cit.).

Ed è vero che gli Stati Uniti possono insegnarci qualcosa, in quanto per almeno un ventennio hanno sperimentato quelle formule tanto care ai nostri magnati dell'industria e del capitale. Ma cosa ci possono insegnare? Anzitutto che proprio negli Stati Uniti viene oggi messo decisamente in discussione uno degli aspetti centrali di questo modello della scuola libera: quello della privatizzazione e soprattutto del finanziamento statale delle scuole private. Il buono scuola incontra fortissime resistenze sia da parte dell'opinione pubblica che delle forze politiche e istituzionali. È recentissima la sconfitta del neopresidente Bush sulla questione del buono scuola al Senato, dove si è creato un fronte anti-vaucher formato dai democratici e da tredici senatori repubblicani. La campagna anti-vaucher dei democratici è sostenuta anche dai sindacati degli insegnanti americani, in particolare dall'Aft, che hanno ben chiaro come il buono scuola significhi sottrazione di fondi alle scuole pubbliche. Non bisogna dimenticare che questa battuta d'arresto giunge dopo le altrettanto sonore sconfitte nei referendum della California e del Michigan dei mesi scorsi. La proposta del buono scuola è stata bocciata anche in Svizzera e incontra ostacoli anche da noi. Il Comitato per la scuola pubblica informa con un comunicato del 26 giugno 2001 che a Bologna sono state raccolte in poche settimane le 9.000 firme necessarie per sottoporre a referendum i buoni emessi per asili nido e scuole materne comunali dalla giunta Guazzaloca.

Negli Stati Uniti già da diversi anni le difficoltà che incontra oggi il buono scuola erano chiare agli stessi uomini d'affari e profittatori che da tale strumento sono stati favoriti nella creazione di nuove scuole private. Dall'articolo di Classe Struggle del gennaio-febbraio 2000 si apprende che "un certo numero di aziende a scopo dichiaratamente di lucro si sono lanciate sul mercato e controllano già il 10% circa delle scuole sotto contratto" (cioè scuole private che sottoscrivono un accordo con lo stato ricevendo da esso finanziamenti). A questi dati va contrapposto quanto emerso in una conferenza su impresa ed educazione tenuta a a Nashville nell'agosto 1997, nella quale alcuni investitori hanno mostrato di essere "inquietati per il timore del fallimento politico del sistema dei «buoni», poiché tutti i sondaggi effettuati fino a oggi mostrano che la maggior parte dei genitori è contraria". Di fronte a tale rischio i partecipanti erano però tutti "d'accordo sulle misure suscettibili di rendere la «industria» scolastica redditizia: ridurre il numero di insegnanti (cioè aumentare il numero di alunni per classe); ridurre la massa salariale degli insegnanti arruolando un maggior numero di giovani e di professori non abilitati; ridurre o sopprimere gli organismi che rilasciano i diplomi di insegnamento e affidare la valutazione delle competenze degli insegnanti ai «manager» delle scuole (parola che essi preferiscono a «direttore»)". (Vedi Stati Uniti - L'impresa privata all'assalto della scuola pubblica, cit.).

I tagli agli investimenti sono quindi uno degli aspetti fondamentali della politica neoliberale sul piano scolastico. Nella Relazione di "Iniciativa democratica" si sosteneva: "L'educazione primaria è ancora finanziata dallo stato nella maggioranza dei Paesi e, per la dimensione dei costi, costituisce il terreno perfetto per attuare tagli di bilancio. Nei Paesi meno sviluppati si sono fatti tagli a causa dell'imposizione di programmi di aggiustamento strutturale (FMI). I tagli hanno significato la limitazione del salario degli insegnanti, la creazione di cattive condizioni nella dinamica di insegnamento-apprendimento, e in alcuni casi, l'imposizione di rette a spese degli utenti. Nei Paesi sviluppati simili tagli si sono fatti con la giustificazione che si stanno assottigliando i margini nella lotta per la concorrenza globale, il che comporterebbe la riduzione di tasse e dunque una minore consistenza dei beni erogati dal servizio pubblico. In tutti i luoghi il processo è accompagnato da un incremento dell'istruzione privata, stabilendo così due livelli di educazione". (Vedi L'educazione e la globalizzazione neoliberale, cit.).

La globalizzazione neoliberale persegue quindi l'obiettivo di creare un sistema integrato pubblico-privato secondo il quale lo stato finanzia il sistema e il privato lo gestisce, introducendo le regole e i valori del mercato e della competizione, e nel contempo aprire completamente il mondo della scuola a tutte le esigenze dell'impresa.
Moratti e soci, che di questa linea come abbiamo visto sono i portavoce, sostengono: "Particolarmente per le scuole professionali, snodo decisivo [...] del sistema formativo, le imprese, le aziende artigianali, le associazioni di categoria potrebbero essere interessate a partecipare alla gestione di istituti che hanno per scopo quello di preparare i lavoratori di cui esse hanno bisogno. Tutto ciò favorirebbe una maggiore osmosi tra mondo della scuola e mondo del lavoro". (Scuola libera! cit.).
Alle imprese e alle aziende artigianali, a sostegno delle quali intervengono gli enti locali erogatori dei fondi sociali UE e che gestirebbero la scuola né più né meno che come un'agenzia di collocamento, si affiancano le grandi imprese multinazionali specializzate nella formazione a distanza, che trovano nel WTO e negli altri organismi multilaterali e politici (FMI, G8, UE, ecc.) validi strumenti per le loro politiche.
Il disegno è chiaro e si delinea su scala mondiale. La scuola pubblica, in ogni parte del mondo, è attaccata da più direzioni, da soggetti che se è vero che sono tra loro in forte concorrenza, hanno in comune però l'obiettivo di scardinarne le difese per poi lanciarsi nella competizione per la conquista di questo mercato globale lasciato finalmente libero. Anche i governi, che agiscono per conto delle imprese nazionali sono impeganti in questa competizione, all'interno e al di fuori dei propri confini. All'interno, come abbiamo visto, con le opere di ristrutturazione che assumono l'ambigua denominazione di "riforma". All'esterno, in compagnia e in competizione con altri enti politici ed economici sovranazionali, promuovendo lo sviluppo di agenzie formative a distanza. In Francia, ad esempio, il ministro della pubblica istruzione Claude Allègre, lo stesso che ha definito "immotivato" lo sciopero degli insegnanti, ha lanciato nel febbraio '98 un'agenzia per la promozione della formazione all'estero sostenendo: "Venderemo all'estero il nostro savoir-faire; ci siamo fissati un obiettivo di due miliardi di franchi di fatturato in tre anni. Sono convinto che questo sia il grande mercato del XXI secolo. Un solo esempio: un paese come l'Australia guadagna 7 miliardi di franchi esportando formazione" (Vedi La scuola, grande affare del XXI secolo, cit.). In questo articolo, il giornalista Gerard De Sélys, autore di uno studio contro l'aziendalizzazione e la globalizzazione neoliberista dell'istruzione ("Tableau noir, appel à la résistence contre la privatisation de l'enseignement", EPO, Bruxelles, maggio 1998), analizza efficacemente i nessi tra istruzione, politica, mercato e imprese, descrivendone le iniziative e i progetti sostenuti a livello europeo negli anni '90.
Da un lato "lo sviluppo dell'educazione a distanza offre la via più semplice per i progetti educativi transnazionali: portata a tutte le frontiere dalle nuove tecnologie, risulta meno cara l'educazione transnazionale che qualsiasi altra forma d'educazione. I vantaggi di produrre capitale nell'area educativa sono simili ai vantaggi di fare cinema o televisione. I corsi possono essere sviluppati per il mercato e la maggioranza dei costi possono essere recuperati. Con un piccolo investimento addizionale questi corsi possono essere offerti in altri Paesi, a basso costo. Non sorprende che l'educazione a distanza sia sostenuta come la forma d'educazione dell'era della globalizzazione. Gli USA sono il maggiore esportatore d'educazione, pertanto non deve meravigliare che tra le intenzioni dell'OMC ci sia anche quella di ridurre le barriere che impediscono la crescita dell'esportazione educativa in altri Paesi, sia sviluppati che in via di sviluppo" (L'educazione e la globalizzazione neoliberale, cit.). Dall'altro però gli USA in questo settore non sono i soli; si trovano ad affrontare sicuramente la concorrenza delle società informatiche europee (Olivetti, Philips, Siemens, Ericsson, Bertelsmann,British Telecom, ecc.). Già alla fine degli anni '80 questi soggetti constatavano che l'istruzione e la formazione sono "investimenti strategici vitali per il futuro successo dell'impresa", e deploravano che esse fossero appannaggio esclusivo dei governi, che gli insegnanti avessero "un'insufficiente comprensione della realtà economica, degli affari e della nozione di profitto", e che l'industria avesse "una modestissima influenza sui programmi didattici". Pertanto concludevano che "industrie e istituti scolastici e universitari dovrebbero lavorare «congiuntamente per lo sviluppo di programmi di insegnamento», in particolare con il ricorso al «teleapprendimento», al «teleinsegnamento» e alla messa a punto di «Software didattici» (per l'apprendimento attraverso il computer)". (Vedi La scuola, grande affare del XXI secolo, cit.). L'invito è stato accolto dalla Commissione europea che nel marzo '90 ha adottato un documento nel quale si legge: "L'insegnamento a distanza è particolarmente utile per assicurare un insegnamento e una formazione redditizi. Un insegnamento di elevata qualità può essere così concepito e prodotto in una sede centrale, per essere quindi diffuso ai livelli locali, con la possibilità di fruire di economie di scala. Il mondo degli affari sta divenendo sempre più attivo in questo campo, sia in quanto utente e beneficiario dell'insegnamento multimediale e a distanza, sia per quanto riguarda la messa a punto e la fornitura di materiali formativi di questo tipo". Un anno dopo la Comunità europea sosteneva che "l'insegnamento superiore a distanza è una nuova industria. Quest'impresa deve vendere i suoi prodotti sul mercato dell'insegnamento permanente, governato dalle leggi della domanda e dell'offerta". Quindi sottolineava "la necessità di impegnarsi in azioni per estendere la portata, l'impatto e le applicazioni dell'apprendimento aperto e a distanza, per rimanere competitivi sul mercato globale". (Vedi La scuola, grande affare del XXI secolo, cit.).
Il Rapporto della tavola rotonda degli industriali europei, Ert, del febbraio 1995 sosteneva in maniera perentoria: "La responsabilità della formazione deve, in definitiva, essere assunta dall'industria. Sembra che nel mondo della scuola non si percepisca chiaramente quale sia il profilo dei collaboratori di cui l'industria ha bisogno. L'istruzione deve essere considerata come un servizio reso al mondo economico. I governi nazionali dovrebbero vedere l'istruzione come un processo esteso dalla culla fino alla tomba. Istruzione significa apprendere, non ricevere un insegnamento. Non abbiamo tempo da perdere". A questo si ricollegano tutti i discorsi di questi anni sull'educazione permanente o continua. Una intenzione di per sé lodevole ma determinata e sottoposta anch'essa alle esigenze del profitto! Nel 1996 l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) aggiungeva: "l'apprendimento a vita non può fondarsi sulla presenza permanente di insegnanti", ma deve essere assicurato "da prestatori di servizi educativi. La tecnologia crea un mercato mondiale nel settore della formazione. La nuova possibilità di proporre programmi didattici in altri paesi, senza obbligare studenti e insegnanti a spostarsi, potrebbe avere senz'altro importanti ripercussioni sulla struttura del sistema scolastico e formativo su scala mondiale". Se il ruolo dei pubblici poteri non viene disconosciuto, è comunque limitato ad "assicurare l'accesso all'apprendimento a coloro che non costituiranno mai un mercato redditizio, e la cui esclusione dalla società in generale si accentuerà nella misura in cui gli altri continueranno a progredire". Qui l'Ocse esprime a chiare lettere ciò che l'Ert e la Commissione non avevano osato dire: gli insegnanti residuali si occuperanno della popolazione "non redditizia". (Vedi La scuola, grande affare del XXI secolo, cit.).

Tornando al nostro paese, è anche per agevolare queste dinamiche privatistiche che nel citato documento del centrodestra leggiamo: "si giunga all'abolizione del valore legale del titolo di studio" (Scuola libera! cit.). Fino a ieri invece abbiamo avuto una più cauta insistenza all'interno della riforma sulla "certificazione oggettiva delle competenze" (libretto o portfolio). Ciò corrispondeva all'idea messa in campo dalla Commissione europea di una «carta di accreditamento delle competenze», pensata per aggirare le normative nazionali in fatto di attribuzione e riconoscimento dei diplomi. Gerard De Sélys scrive: "L'idea è semplice. Immaginiamo che un giovane acceda a vari fornitori commerciali di insegnamento attraverso Internet, ottenendo così, dietro pagamento, «competenze» in materia tecnica, linguistica e di gestione. A seconda del suo autoapprendimento, i fornitori di insegnamento gli «accrediteranno» le conoscenze acquisite. Questo «accreditamento» sarà contabilizzato su un dischetto (definito «carta»), che lo studente avrà inserito nel suo computer, collegato con i suoi fornitori. Quando cercherà un lavoro, introdurrà nel suo computer questo dischetto e si collegherà a un sito di «offerte di lavoro» gestito da un'associazione padronale. Il suo profilo sarà allora analizzato da un software, e se le sue «competenze» corrisponderanno a quelle richieste da un datore di lavoro, sarà assunto. I diplomi dunque non serviranno più: il padronato gestirà il suo proprio sistema senza preoccuparsi del controllo degli stati e del mondo universitario". (La scuola, grande affare del XXI secolo, cit.).

Oltre ad essere un mercato da sfruttare, l'educazione è quindi una delle chiavi per la nuova fase dello sviluppo economico capitalistico. La diffusione della tecnologia sta riducendo la quantità di produzione lavorativa che non richiede addestramento. Le imprese dimostrano quindi un crescente interesse nell'educazione orientata a soddisfare le necessità dell'impresa. Va da sé che quando l'istruzione si privatizza ed acquisisce fini commerciali, le aree didattiche culturali e sociali perdono interesse a meno che non possano essere utilizzate anche loro come oggetti commerciali. In tal senso è illuminante la lettura del cap. 4 del libro di Naomi Klein, No Logo. Economia globale e nuova contestazione, dal titolo "Il branding dell'istruzione. Pubblicità nelle scuole e nelle università". In esso l'autrice descrive le fasi del processo di inserimento a vari livelli delle aziende produttrici nel mercato scolastico e le conseguenze che esso produce sul piano della didattica e della ricerca. Tale inserimento è stato facilitato dalle politiche neoliberiste di tagli e ristrutturazioni che hanno costretto le istituzioni scolastiche a sottoporsi ai ricatti delle imprese per sopravvivere. "È stata la tecnologia a rinnovare l'urgenza di far fronte alla cronica mancanza di fondi degli anni Novanta: nel momento in cui le scuole si trovavano ad affrontare tagli di bilancio sempre più drastici, i costi per fornire un'educazione moderna aumentavano in modo esponenziale, costringendo molti istituti a cercare fonti di finanziamento alternative. L'incalzare della moderna info-tecnologia ha fatto sì che, improvvisamente, ci si aspettasse che scuole che non potevano permettersi testi aggiornati mettessero a disposizione degli studenti apparecchiature audiovisive, videocamere, aule di informatica, i più recenti programmi software, l'accesso a Internet, e, in alcuni casi, persino impianti di videoconferenza". Ma, "come hanno sottolineato parecchi esperti del settore scolastico, i benefici pedagogici della tecnologia in aula sono quantomeno dubbi" (No Logo, cit., pp. 120-121). Il caso del canale televisivo Channel One, di cui parlano anche i compagni di Classe Struggle, inserito a pieno titolo nel circuito scolastico, è paradigmatico: "Channel One fornisce alla scuola l'equipaggiamento audiovisivo di cui ha bisogno e in cambio la scuola s'impegna a fare in modo che ogni alunno guardi Channel One, la cui programmazione quotidiana di venti minuti comprende informazione, reportage, sport, meteo, pubblicità per Channel One e due minuti di spot commerciali. Questo tipo di audience è molto ricercato da diverse agenzie ed ogni spot pubblicitario di 30 secondi è venduto da Channel One a 200.000 dollari. Come si vede il business educativo può essere molto redditizio" (Vedi Stati Uniti - L'impresa privata all'assalto della scuola pubblica, cit.). "In cambio, le scuole non hanno un ritorno in denaro dalle emittenti, ma possono utilizzare le tanto agognate apparecchiature audiovisive per altre lezioni, e, in alcuni casi, ricevere dei computer «gratis» [...] Oggi Channel One è presente in 12.000 scuole, e raggiunge un numero di studenti calcolato intorno agli otto milioni [...]. Come hanno affermato molti critici, Channel One non limita a vendere le scarpe da ginnastica e le caramelle dei suoi clienti ai ragazzini delle scuole. Sta anche vendendo il concetto che il suo programma è un supporto educativo d'immenso valore, un metodo che contribuisce alla modernizzazione delle risorse educative aride ed obsolete, rappresentate dai libri e dagli insegnanti. Nel modello rappresentato da questa emittente, il processo d'apprendimento è poco più che un trasferimento di «roba» nel cervello degli studenti. Che si tratti dell'ultimo successo della Disney oppure del teorema di Pitagora, il risultato è lo stesso: più roba inculcata" (No Logo, cit., pp. 122-126). La frustrazione tra gli insegnanti e i professori universitari è grande. La scuola perde la sua funzione civica e democratica, di garanzia di autonomia e libertà. Dice ancora Naomi Klein: "Molti professori parlano della strisciante invasione della mentalità da centro commerciale: secondo loro, più i campus assomigliano a centri commerciali, più gli studenti si comportano come consumatori [...] Un professore della York University di Toronto, nel cui campus si trova un vero e proprio centro commerciale, mi racconta che i suoi studenti entrano in aula bevendo un cappuccino, chiacchierano in ultima fila, quindi se ne vanno. Vanno a caccia di flirt, a far compere, non hanno interessi" (No Logo, cit., pp. 132-133).

Chi crede nella funzione civile e democratica della scuola ed è convinto che suo compito sia quello di favorire la crescita serena dell'individuo in rapporto con la società, fornendolo di strumenti di lettura e comprensione della realtà; chi si pone come obiettivo quello di capacitare i giovani ad affrontare i problemi e gli aspetti contraddittori del nostro mondo e della relazione con il prossimo, senza contribuire a ridurli al rango passivo di clienti e consumatori non può che opporsi con forza ai processi sopra descritti, che trovano espressione nell'ideologia ora dominante del neoliberismo e concretizzazione nelle politiche governative. Chi è convinto di ciò può vedere oggi nel movimento cosiddetto "di Seattle", che si oppone alle logiche neoliberiste, uno strumento efficace di opposizione e di rilancio di una nuova politica, anche scolastica, in cui siano centrali non i bisogni del mercato ma quelli della persona e delle comunità civili e democratiche.