L'imperialismo
del XXI secolo.
Un
testo di fondamentale importanza che, a partire dalle teorie classiche sull'imperialismo,
disegna i tratti di quello odierno, con una argomentata critica ai concetti
negriani di "impero" e "moltitudine". Di
Claudio Katz (professore all'Università di Buenos Aires e ricercatore
al CONICET, tra i promotori della rete argentina Economistas de Izquierda
- EDI). Dal mensile Inprecor (settembre 2002). Traduzione a cura di REDS.
Novembre 2002.
consigliamo
anche la lettura dei seguenti materiali (più "didattici"
di quello che segue):
Cosa è la globalizzazione e
Paesi imperialisti e Paesi dipendenti
Il rinnovato interesse per lo studio dell'imperialismo ha modificato il dibattito sulla globalizzazione, centrato finora esclusivamente sulla critica al neoliberismo e sui tratti nuovi della globalizzazione. Un concetto sviluppato dai principali teorici marxisti del XX secolo - che ha conosciuto una grande diffusione nel corso degli anni '70 - attira di nuovo l'attenzione degli analisti a causa dell'aggravarsi della crisi sociale del Terzo Mondo, al moltiplicarsi dei conflitti armati e alla concorrenza mortale tra le aziende.
La nozione di imperialismo concettualizza due tipi di problemi: da una parte i rapporti di dominio in vigore tra i capitalisti del centro e i popoli della periferia, e dall'altra i legami che prevalgono tra le grandi potenze imperialiste a ogni evoluzione del capitalismo. Qual è l'attualità della teoria dell'imperialismo? In che modo può contribuire a spiegare la realtà contemporanea?
Una spiegazione della polarizzazione mondiale
La polarizzazione della ricchezza conferma l'importanza della teoria imperialista nel suo senso originario. Quando le rendite di tre multimilionari superano il prodotto interno lordo di 48 nazioni, e quando ogni quattro secondi un individuo della periferia muore di fame, è difficile nascondere che l'allargamento della forbice tra i paesi avanzati e i paesi sottosviluppati obbedisca a rapporti di oppressione. Oggi è incontestabile che questa asimmetria non è un avvenimento "passeggero", che sarà corretto dalla "pioggia" dei benefici della globalizzazione. I paesi periferici non sono soltanto i "perdenti" della globalizzazione, ma sopportano una intensificazione di quel trasferimento di ricchezza che storicamente ha frenato il loro sviluppo.
Questo drenaggio ha provocato la moltiplicazione di misure estreme per contenere il debito nelle 49 nazioni più povere, e gravi deformazioni nella parziale accumulazione capitalistica dei paesi dipendenti semi-industrializzati. In questo secondo caso la prosperità dei settori inseriti nella divisione internazionale del lavoro è vanificata dalla crisi delle attività economiche destinate al mercato interno.
L'analisi dell'imperialismo non offre un'interpretazione di tipo cospirativo del sottosviluppo, né discolpa i governi locali di questa situazione. Ella offre semplicemente una spiegazione della polarizzazione dell'accumulazione su scala mondiale e della riduzione delle possibilità di un livellamento tra economie dissimili. Il margine di sviluppo accelerato che ha permesso nel XIX secolo alla Germania e al Giappone di pervenire allo status di potenza, detenuto allora dalla Francia e dalla Gran Bretagna, oggi non esiste più per il Brasile, l'India o la Corea. La carta del mondo così modellata si caratterizza per una "architettura stabile" del centro e una "geografia variabile" del sottosviluppo, dato che le sole modificazioni possibili sono quelle relative al grado di status periferico di ogni paese dipendente (1).
La teoria dell'imperialismo attribuisce queste asimmetrie al trasferimento sistematico della ricchezza prodotta nella periferia verso i paesi capitalisti del centro. Questo trasferimento si concretizza nella disparità degli scambi commerciali, nell'ampliamento delle rendite finanziarie e nella riduzione dei benefici industriali. L'effetto politico di questo drenaggio è la perdita di autonomia politica delle classi dirigenti periferiche e i crescenti interventi militari del gendarme nordamericano. Questi tre aspetti dell'imperialismo contemporaneo possono essere osservati chiaramente nella realtà latino-americana.
Le contraddizioni delle economie periferiche
Dalla metà degli anni '90 l'America Latina ha subito le conseguenze dell'affondamento dei "mercati emergenti". La maggior parte delle nazioni colpite hanno patito crisi acute, precedute dalla fuga dei capitali e seguite dalla svalutazione che ha rafforzato l'inflazione e ridotto il potere d'acquisto. I crolli hanno provocato fallimenti bancari i cui salvataggi da parte dello stato hanno aggravato il debito pubblico, rendendo più difficile il ricorso a politiche di rilancio e accentuando la perdita di sovranità monetaria e fiscale.
Queste crisi sono l'effetto del dominio imperialista e non solo della strumentalizzazione delle politiche neoliberiste, applicate anche nei paesi centrali. L'affossamento subìto dalla periferia latino-americana è ben più profondo degli squilibri osservati negli Stati Uniti, in Europa o in Giappone, poiché esso si caratterizza per il crollo periodico dei prezzi delle materie prime esportate, la cessazione periodica dei pagamenti del debito e la disarticolazione dell'industria locale. La periferia è più vulnerabile di fronte alle turbolenze finanziarie internazionali poiché il suo ciclo economico dipende dal grado di attività delle economie avanzate. Tuttavia l'avanzamento della globalizzazione accentua questa fragilità approfondendo la segmentazione dell'attività industriale, concentrando il lavoro qualificato nei paesi centrali e allargando le differenze dei livelli di consumo.
Il dominio imperialista permette alle economie sviluppate di trasferire una parte dei loro squilibri verso i paesi dipendenti. Questo spostamento spiega il carattere asimmetrico e non generalizzato della recessione internazionale in corso in questo momento. Più di una crisi equivalente a quella degli anni '30 si è già registrata nella periferia, ma per il centro una situazione simile non è che una eventualità. Le stesse politiche di privatizzazione non hanno prodotto le stesse perdite in tutte le regioni. Il thatcherismo ha accresciuto la povertà in Gran Bretagna, ma in Argentina ha provocato malnutrizione e indigenza; gli interventi a favore delle rendite hanno ridotto i salari negli Stati Uniti, ma in Messico hanno provocato miseria ed emigrazione di massa; l'apertura commerciale ha indebolito l'economia giapponese, ma ha devastato l'Equador. Queste differenze rivelano il carattere strutturalmente centrale o periferico di ciascun paese nell'ordine mondiale.
La dipendenza è la principale causa della grande recessione dell'America latina a partire dalla metà degli anni '90, malgrado le boccate d'ossigeno dovute all'afflusso di capitali investiti a breve termine. La regione ripiomba nella drammatica situazione del "decennio perduto" degli anni '80. Il prodotto interno lordo (PIL) regionale ristagnava lo scorso anno intorno allo 0,3% e si situerà intorno allo 0,5% al termine del 2002. Dopo quattro anni di uscite nette dei capitali gli investimenti esteri si sono esauriti e la specializzazione produttiva nelle attività di base ha provocato lo squilibrio nella bilancia commerciale (le rimesse degli emigrati negli Stati Uniti superano già in numerosi paesi le entrate delle divise estere derivanti dalle esportazioni). Risultato di questa crisi: solo 20 dei 120 titoli di aziende latino-americane quotate sulle borse mondiali da dieci anni a questa parte continuano a trovare acquirenti oggi.
Il dominio imperialista è all'origine dei grandi squilibri economici che hanno provocato il deficit commerciale (Messico), la perdita del controllo fiscale (Brasile) o la crisi della produzione (Argentina). Attualmente questi rovesci hanno provocato una serie di crisi che si irradiano dal Cono Sud, destabilizzano l'economia uruguayana e minacciano Perù e Brasile. Gli economisti neoliberisti si sforzano di analizzare le particolarità di questa crisi, senza comprendere la regola generale che la sottende. Ignorando l'oppressione imperialista essi tendono a cambiare opinione di frequente e a denigrare con una rapidità impressionante i modelli economici che in precedenza innalzavano alle stelle. Ma a partire dal lancio dell'Area di libero commercio per le Americhe (ALCA) è diventato praticamente impossibile evitare l'analisi dell'imperialismo. Questo progetto strategico di dominio nordamericano mira all'espansione delle esportazioni statunitensi per bloccare la concorrenza europea e consolidare il controllo da parte della maggiore potenza mondiale di tutte le iniziative di lucro nella regione (le privatizzazioni rimanenti, gli accordi privilegiati nel settore pubblico, l'esclusiva sui brevetti).
L'ALCA è un trattato neocolonialista che impone l'apertura commerciale dell'America latina senza alcuna contropartita da parte degli Stati Uniti. Per ottenere il voto di "fast truck" (autorizzazione del Congresso a negoziare rapidamente gli accordi con ciascun paese senza dover riferire sui contenuti), Bush ha recentemente introdotto nuove clausole che impediscono il trasferimento di alta tecnologia verso l'America latina e che ostacolano l'ingresso di 293 prodotti regionali sul mercato statunitense. Queste barriere doganali colpiscono in primo luogo i prodotti siderurgici, tessili e agricoli. Di più, Bush ha messo in cantiere un programma di forti aiuti all'agricoltura che, nel corso del prossimo decennio, assesterà un colpo mortale alle esportazioni latino-americane di soia, grano e mais (2).
L'ALCA rivela il doppio gioco imperialista che consiste nella promozione dell'apertura commerciale verso l'esterno e contemporaneamente nel ricorso al protezionismo verso l'interno. La firma degli accordi provocherà l'affondamento dei paesi mediamente industrializzati, come il Brasile, e darà vita ad associazioni regionali come il Mercosur, che permettono un debole adattamento in settori molto specifici delle economie piccole o complementari con quella degli Stati Uniti.
Dopo un decennio di ricette neoliberiste lo slogan imperialista dell'apertura commerciale non convince più nessuno. E' evidente che la prosperità di un paese non dipende affatto dalla sua "presenza sulla scena mondiale", ma dalle modalità di questo inserimento. L'Africa, per esempio, in proporzione al suo PIL detiene un tasso di commercio estero molto più elevato (45,6%) di quello dell'Europa (13,8%) o degli Stati Uniti (13,2%), pur essendo la regione più povera del pianeta (3). Questo caso estremo di subordinazione sfavorevole nei confronti della divisione internazionale del lavoro illustra una situazione di dipendenza generale che le economie periferiche supportano.
Ricolonizzazione politica
La ricolonizzazione della periferia costituisce la faccia politica della dominazione economica imperialista. Essa si fonda sull'associazione crescente delle classi dirigenti locali con le loro corrispondenti del Nord. Questo intreccio è la conseguenza della dipendenza finanziaria, dell'appropriazione delle risorse naturali e della privatizzazione dei settori strategici della regione. La perdita di sovranità economica ha concesso al Fondo monetario internazionale (FMI) la manomissione diretta sulla gestione macroeconomica e al Dipartimento di Stato (il ministero degli affari esteri degli Stati Uniti), una influenza equivalente sulle decisioni politiche. Oggi nessun presidente latinoamericano si permette di adottare decisioni importanti senza consultare l'ambasciata USA. Le prediche dei mezzi di informazione e degli intellettuali "americanizzati" contribuisce a legittimare questa subordinazione. A differenza del periodo 1940-1970, i capitalisti latino-americani non pensano più a rafforzare i mercati interni per compensare le importazioni. La loro priorità è quella di legarsi alle aziende estere, in questo modo la classe dirigente locale può vantare crediti nel debito estero oltre che beneficiare della deregulation finanziaria, delle privatizzazioni e della flessibilità del lavoro. Esiste parimenti un ceto di funzionari che è più fedele agli organismi imperialisti che agli stati nazionali. Educati nelle università statunitensi, sistemati negli organismi internazionali e nelle grandi aziende multinazionali, la loro carriera dipende più da queste istituzioni che dai buoni risultati degli stati che governano.
Ma questa ricolonizzazione generalizzata accentua egualmente la crisi dei sistemi politici della regione. La perdita di legittimità dei governi agli ordini del FMI ha prodotto nel corso degli ultimi due anni una crisi dei regimi di quattro paesi (Paraguay, Ecuador, Perù, Argentina). L'esito di un lungo processo di erosione dell'autorità dei partiti tradizionali è la fragilità dei governi, la tendenza alla disgregazione dei regimi, e lo sconquasso di alcuni stati. Questa sequenza corona la frantumazione delle istituzioni, che hanno cessato di essere sensibili alle rivendicazioni popolari e che si comportano come agenti dell'imperialismo. Nella stessa misura in cui il patto costituzionale si disgrega, il Dipartimento di stato americano incoraggia un ritorno alle pratiche dittatoriali del passato, benché il vecchio autoritarismo appaia ricoperto di nuovi artifici costituzionali.
Questa linea fu chiaramente seguita nel recente tentativo di colpo di stato in Venezuela. La sostituzione del governo nazionalista di questo paese è una priorità agli occhi del governo degli Stati Uniti per poter rafforzare l'embargo contro Cuba, per disarticolare lo zapatismo, per prepararsi adeguatamente di fronte a una vittoria del Partito dei lavoratori in Brasile (PT) e per infliggere un colpo alla ribellione popolare in Argentina. La diplomazia statunitense ha già cominciato a valutare la possibilità di restaurare i vecchi protettorati. La Colombia e Haiti sono i due principali candidati per questa prova neocolonialista, che potrà parimenti essere messa in pratica in Yugoslavia, Rwanda, Afghanistan, Somalia e Sierra Leone. Recentemente l'Argentina ha cominciato a figurare tra le nazioni incluse in questo progetto di amministrazione vicereale (4). Queste scelte presuppongono una sempre maggiore ingerenza diretta del gendarme nordamericano.
L'interventismo militare
Il "Piano Colombia" è il principale saggio di questo intervento bellico in America latina. Il Pentagono ha già messo da parte il pretesto del traffico di stupefacenti e, puntando alla rottura dei negoziati di pace, ha iniziato una campagna militare contro la guerriglia. La precauzione per minimizzare la presenza diretta delle truppe nordamericane, al fine di ridurre le perdite statunitensi ("sindrome del Vietnam"), consiste in un più grande massacro di "indigeni".
Con la guerra in Colombia si tratta di restaurare l'autorità di uno stato smembrato e di reintrodurre le condizioni per l'appropriazione imperialista delle risorse strategiche. Come prova la cospirazione in Venezuela, queste azioni hanno anche lo scopo di garantire l'approvvigionamento petrolifero degli Stati Uniti. Per assicurare questo approvvigionamento la CIA ha installato un centro strategico in Ecuador e ha messo sotto controllo le frontiere che circondano l'intero territorio messicano.
L'imperialismo si è impegnato nella modernizzazione delle sue basi militari con effettivi a rapida mobilitazione. A tal fine ha decentrato il vecchio comando panamense e installato nuovi dispositivi a Vieques, Mantas, Aruba e Salvador. Attraverso una rete di 51 basi su tutto il pianeta, le truppe statunitensi realizzano esercitazioni che vedono impiegare simultaneamente in pochi giorni 60.000 soldati in 100 paesi (5). L'aggressione contro Cuba, attraverso i sabotaggi terroristici o un nuovo piano d'invasione, resta un obiettivo sempre presente.
Questo corso bellicista si è accentuato dopo l'11 settembre 2001, dato che gli Stati Uniti scommettono sulla reattività della loro economia rilanciando il riarmo e tengono pronti i piani di guerra contro l'Iraq, l'Iran, la Corea del Nord, la Siria e la Libia. Con il 5% della popolazione mondiale, la principale potenza assorbe il 40% delle spese militari globali e lancia la modernizzazione dei sottomarini, la costruzione di nuovi aerei e la sperimentazione, attraverso un programma di "guerre stellari", di nuove applicazioni delle tecnologie informatiche.
Il rilancio militare costituisce la risposta imperialista alla disgregazione degli stati, delle economie e delle società periferiche, provocate dal crescente dominio USA su queste periferie. E' per questo che l'attuale "guerra totale contro il terrorismo" presenta tante similitudini con le vecchie campagne coloniali. Di nuovo il nemico viene demonizzato per giustificare i massacri delle popolazioni civili sulla linea del fronte e le restrizioni dei diritti democratici. Ma più la distruzione del nemico "terrorista" avanza e più si assiste a una disarticolazione politica e sociale. Lo stato di guerra generalizzato perpetua l'instabilità provocata dal saccheggio economico, la balcanizzazione politica e la distruzione sociale della periferia (6).
Questi effetti sono più visibili in America Latina e in Medio Oriente, due zone di importanza strategica agli occhi del Pentagono, poiché detengono le risorse petrolifere e rappresentano importanti mercati contesi dalla concorrenza europea e giapponese. In ragione di questa importanza strategica esse sono al centro della dominazione imperialista e soffrono processi molto simili di disarticolazione statale, di indebolimento economico della classe dirigente locale e di perdita di autorità delle loro rappresentanze politiche tradizionali.
Il fatalismo neoliberista
L'espropriazione economica, la ricolonizzazione politica e l'interventismo militare sono i tre pilastri dell'imperialismo attuale. Molti analisti si limitano a descrivere in maniera rassegnata questa oppressione come un destino inesorabile. Certi presentano la frattura tra "vincenti e perdenti" della globalizzazione come un "costo dello sviluppo", senza spiegare perché questo prezzo si perpetua nel tempo e resta sempre a carico delle nazioni che lo hanno già pagato in passato.
I neoliberisti tendono a pronosticare che la fine del sottosviluppo si realizzerà nei paesi che puntano sulla "attrazione" dei capitali esteri e sulla "seduzione" delle aziende. Ma le nazioni dipendenti che nel corso del decennio passato si sono impegnate su questo cammino aprendo le loro economie pagano oggi il conto più salato della crisi. Quelle che più si sono orientate sulle privatizzazioni hanno avuto le maggiori perdite sul mercato mondiale. Procurando grandi vantaggi al capitale imperialista esse hanno tolto le barriere che limitavano il saccheggio delle loro risorse naturali e scontano oggi scambi commerciali più iniqui, un'instabilità finanziaria più intensa e una disarticolazione industriale più accentuata.
Certi neoliberisti attribuiscono questi effetti all'applicazione limitata delle loro raccomandazioni, come se un decennio di esperienze nefaste non avesse fornito sufficienti lezioni sui risultati delle loro ricette. Altri suggeriscono che il sottosviluppo è una fatalità dovuta al temperamento perdente della popolazione periferica, al peso della corruzione o all'immaturità culturale dei popoli del Terzo Mondo. In generale l'argomentazione colonialista ha cambiato stile, ma il suo contenuto resta invariato. Oggi non si giustifica più la superiorità dei conquistatori con la purezza razziale, ma per le loro conoscenze superiori e la qualità dei comportamenti.
Transnazionalizzazione imperiale
Reputando che la globalizzazione diluisce le frontiere tra primo e Terzo Mondo, Toni Negri e Michael Hardt (7) mettono seriamente in dubbio la teoria dell'imperialismo. Essi ritengono che un nuovo capitale globale, agendo mediante l'ONU, il G8, il FMI e l'OMC (Organizzazione mondiale del commercio), abbia creato una sovranità imperiale che lega le frazioni dominanti del centro e della periferia in uno stesso sistema di oppressione mondiale.
Questa caratterizzazione presuppone l'esistenza di una certa omogeneità di sviluppo capitalista, che sembra molto difficile da dimostrare. Tutti i dati concernenti gli investimenti, il risparmio o i consumi confermano al contrario l'amplificazione delle differenze tra economie centrali e periferiche e indicano che i processi di accumulazione e di crisi si polarizzano parimenti. Non solo la prosperità nordamericana dell'ultimo decennio contrasta con la rovina generalizzata delle nazioni sottosviluppate, ma ugualmente la crisi sociale della periferia non ha per il momento equivalente in Europa. Inoltre non si troverà alcun indice di convergenza nello status della borghesia venezuelana e statunitense, né similitudini tra la crisi argentina e giapponese. Lungi dall'uniformare la riproduzione del capitale attorno un orizzonte comune, la globalizzazione approfondisce la dualità di questo processo su scala planetaria.
E' chiaro che l'associazione tra le classi dominanti della periferia e le grandi aziende è più difficile, come è chiaro che la povertà si è estesa al cuore del capitalismo avanzato. Ma questo processo non trasforma alcun paese dipendente in centrale, né provoca la terzomondizzazione di alcuna potenza centrale. L'intreccio più stretto tra le classi dominanti coesiste con il consolidamento dello storico abisso che separa i paesi sviluppati dai paesi sottosviluppati. Il capitalismo non si livella, non più di quanto si frantumi attorno a un nuovo asse transnazionale, ma rafforza la polarizzazione determinatasi nel corso del secolo scorso.
Il potere detenuto dai capitalisti di una ventina di nazioni sulle circa 200 rimanenti è la principale evidenza della persistenza dell'organizzazione gerarchica del mercato mondiale. Attraverso il Consiglio di sicurezza dell'ONU essi esercitano il dominio militare, per mezzo dei trattati iniqui dell'OMC impongono la loro egemonia commerciale e con il FMI si assicurano il controllo finanziario del pianeta.
Nell'analisi dei legami principali tra le classi dirigenti, la tesi transnazionalista confonde "associazione" e "spartizione del potere". Che un settore di gruppi capitalisti della periferia accresca la sua integrazione con gli alleati del centro non li colloca per questo nella cerchia dei dominatori planetari e non elimina la loro debolezza strutturale. Mentre le aziende nordamericane sfruttano i lavoratori latino-americani, la borghesia equadoregna o brasiliana non partecipa allo sfruttamento del proletariato statunitense. Benché il balzo registrato nell'internazionalizzazione dell'economia sia di grandi dimensioni, i capitali continuano a operare nel quadro dell'ordine imperialista che determina una frattura tra il centro e la periferia.
Classi e Stati - I
Certi autori sostengono che la transnazionalizzazione del capitale si è estesa alle classi e agli stati, creando così una nuova frattura trasversale nella dominazione globale che attraversa tutti i paesi e gli strati sociali (8).
Questa tesi identifica il processo di integrazione regionale con la "transnazionalizzazione" sociale e statale, senza percepire la differenza qualitativa che separa l'associazione tra gruppi imperialisti e la riconolizzazione periferica. L'Unione Europea e l'ALCA, per esempio, non fanno parte di una stessa tendenza verso la "transnazionalizzazione", ma sono espressione di due processi molto differenti. Non bisogna confondere un'alleanza tra settori dominanti sul mercato mondiale e il piano neocoloniale di una certa potenza.
In realtà solo l'alta burocrazia dei paesi periferici, che appartiene agli organismi internazionali, costituisce un gruppo sociale pienamente "transnazionalizzato". La lealtà di questi settori nei confronti di OMC o FMI è più forte che verso gli stati nazionali che essi dirigono. Si potrebbe affermare che i comportamenti e le prospettive di questi funzionari anticipa il corso futuro delle classi dominanti del Terzo Mondo. Ma una tale evoluzione costituisce tutt'al più una possibilità, e non rappresenta oggi una realtà verificabile, in particolare nei paesi della periferia superiore (quali il Brasile o la Corea del Sud), le cui classi dominanti sono più legate ai processi di accumulazione che dipendono dai mercati interni. La situazione è totalmente differente nei piccoli paesi (per esempio dell'America Centrale), altamente integrati nel mercato di una grande potenza. Queste differenze contraddicono l'esistenza di un processo generale o uniforme di transnazionalizzazione.
Certi difensori della tesi imperiale affermano che il grado di assemblaggio effettivo tra le classi centrali e periferiche è superiore a ciò che indicano i parametri obsoleti delle contabilità nazionali. E' vero che queste categorie sono già inadeguate per valutare il corso attuale della globalizzazione, ma esse completano altri indicatori indiscutibili della separatezza tra il centro e la periferia. L'approfondimento di queste ineguaglianze si verifica su tutti i piani della produttività, della rendita, del consumo o dell'accumulazione.
E' d'altra parte falso supporre che "il nuovo Stato globale" abbia cancellato la distinzione tra Stati dominanti e decolonizzati. Questa differenza salta agli occhi quando si vede l'influenza delle borghesie del Terzo Mondo su tutte le decisioni dell'ONU, del FMI, dell'OMC o della Banca mondiale. Le classi dominanti della periferia non sono delle vittime del sottosviluppo e praticano in grande stile lo sfruttamento dei lavoratori del loro paese. Ma questo non le autorizza affatto ad avvicinarsi al dominio mondiale.
La tesi dell'impero ignora questo ruolo marginale e misconosce la persistenza del dominio imperialista nei settori strategici della periferia. Essa non registra che questo assoggettamento attualmente non è meramente coloniale, né si centra esclusivamente sull'appropriazione delle materie prime o sulla gestione diretta del territorio, ma sussiste in quanto meccanismo di controllo metropolitano dei settori strategici dei paesi sottosviluppati (9).
Questo dominio non è esercitato da un "potere mondiale" misterioso, ma per mezzo di azioni militari e diplomatiche di ciascuna potenza nelle sue aree di influenza principale. Il ruolo degli Stati Uniti è più marcato nel "Piano Colombia" che nel conflitto dei Balcani e l'intervento dell'Europa è meglio definito nella crisi mediterranea che nello sviluppo dell'ALCA. Questa specificità riguarda gli interessi che ciascun gruppo imperialista indirizza nelle azioni geopolitiche condotte dai suoi stati; cosa che i teorici dell'impero non riescono a percepire.
Ritorno al capitalismo industriale?
La maggior parte dei critici delle zone periferiche al modello neoliberista riconosce che la dipendenza resta la causa centrale del sottosviluppo. Ma essi propongono di superare questa forma di assoggettamento mediante la costruzione di un modello capitalista differente. "Oggi non è più questione di un progetto strettamente nazionale, autonomo e centrato sulla sostituzione delle importazioni" - come avevano immaginato i loro predecessori della CEPAL (Commissione economica per l'America latina e i Caraibi) - "ma di un modello regionale, regolato e fondato sui mercati interni". Essi si basano sugli schemi keynesiani per costruire degli "Stati-assistenziali nella periferia", sostenuti dalle trasformazioni istituzionali (sradicare la corruzione, ricomporre la legittimità) e di grandi cambiamenti commerciali (frenare l'apertura), finanziari (limitare il pagamento del debito) e industriali (riorientare la produzione verso l'attività locale) (10).
Ma come si costruirà un "capitalismo efficace" nei paesi sottomessi a un drenaggio sistematico delle loro risorse? Come si realizzerà attualmente un obiettivo abbandonato dalla classe dominante della metà del XIX secolo? Quali gruppi vorranno edificare questo sistema di misure sociali e di massimalizzazione dei profitti?
I partigiani del nuovo capitalismo periferico non danno risposte a queste domande cruciali. Ignorano che i margini per realizzare i loro progetti si sono ridotti ulteriormente con l'associazione crescente delle classi dirigenti periferiche con il capitale metropolitano. Questo legame è un ostacolo all'accumulazione interna, moltiplica la fuga dei capitali e rende più difficile l'applicazione delle politiche volte a riattivare la domanda interna. Le borghesie che in passato non hanno tentato di fondare un capitalismo autonomo hanno attualmente ancor meno capacità di avvicinarsi a un obiettivo del genere. La loro attitudine pro-imperialista limita anche la riuscita di progetti regionali come il Mercosur. Questo accordo è vacillante, dopo un decennio di fallimenti dei tentativi volti a dotarlo di istituzioni economiche e politiche comuni. Ogni proponimento d'azione concertata (moneta, organismi, istanze d'arbitrato) è stato archiviato man mano la crisi si estendeva a tutta la zona. Il fallimento è stato aggravato dalle politiche di "differenziazione" tentate da tutti i governi per dimostrare al FMI che essi "non sono irresponsabili". La frattura regionale replica così la storia della balcanizzazione latino-americana e conferma l'incapacità delle borghesie locali di adottare politiche di accumulazione autocentrate.
Numerosi autori spiegano questo risultato con il carattere tradizionalmente legato alla rendita della borghesia nella regione, e di conseguenza con l'assenza di imprenditori disposti a investire o ad assumere dei rischi. Ma allora si deve concludere che questa assenza di impulsi per un'accumulazione sostenuta si è accentuata. Perché dunque puntare su un disegno privo del soggetto? Quale può essere il senso di costruire un capitalismo senza capitalisti interessati alla concorrenza e all'innovazione?
Proporre ai lavoratori che si sostituiscano alla classe dominante in questo compito equivale a incitarli a fabbricare gli strumenti del loro stesso sfruttamento. La speranza che altri settori sociali rimpiazzino gli imprenditori nel portare a compimento un capitalismo prospero (burocrazia, classe media) non ha alcun fondamento né precedenti pratici.
Coloro che vorrebbero erigere "un altro capitalismo" dovrebbero ricordarsi che il modello che prevale in ogni paese è il prodotto di precise condizioni storiche e non della libera scelta dei suoi gerenti. C'è una dinamica oggettiva in questo processo che spiega perché lo sviluppo del centro accentua il sottosviluppo delle periferie. E' evidente che tutti i membri delle nazioni periferiche desidererebbero un destino da potenza sviluppata, ma sul mercato mondiale c'è poco spazio per i gruppi dominanti e molto per le economie dipendenti. E' perché le "economie di mercato che avvantaggiano" la periferia sono eccezionali o transitorie. Per uscire dal sottosviluppo non bastano politiche anti-liberiste. Bisogna, più che latro, intraprendere un'azione antimperialista e costruire una società socialista.
Tre modelli in discussione
La validità della teoria classica dell'imperialismo per spiegare le relazioni di dominio tra il centro e la periferia è schiacciante. Ma la sua attualità per chiarire i rapporti contemporanei tra le grandi potenze è alquanto controversa. In questo secondo senso il concetto di imperialismo non mira più a spiegare le cause del ritardo strutturale dei paesi sottosviluppati, ma pretende di chiarire il tipo di alleanze e di rivalità predominanti in seno al campo imperialista. Diversi autori (11) hanno rimarcato l'importanza della distinzione tra i due significati, sottolineando che le modalità di dominio periferico e quello dei rapporti tra le potenze seguono percorsi storici differenti.
La distinzione tra la fase imperialista e la fase liberoscambista del capitalismo, proposta dai teorici marxisti dell'inizio del XX secolo, è il punto di partenza tradizionale per analizzare questo secondo aspetto. Con questa distinzione essi cercavano di delineare una nuova tappa del sistema, caratterizzata dalla ripartizione dei mercati tra le potenze attraverso la guerra.
Lenin attribuiva questa tendenza al conflitto inter-imperialista aperto dalla centralità dei monopoli e del capitale finanziario, Rosa Luxemburg alla necessità di trovare vie d'uscita all'esterno alla restrizione della domanda, Bucharin allo scontro tra gli interessi espansionistici e quelli protezionisti delle grandi aziende, Trotzkij all'aggravamento delle disuguaglianze economiche generate dall'accumulazione stessa. Queste interpretazioni intendevano spiegare perché la concorrenza tra i gruppi monopolisti, che aveva preso il via dal confronto commerciale e dallo stabilimento di vaste zone monetarie, era sboccata in un conflitto sanguinoso.
Questa caratterizzazione sembra inattuale dopo la seconda guerra mondiale, quando la prospettiva di conflitti armati tra le potenze tende a sparire. L'ipotesi di un tale scontro era scartata o perlomeno resa molto improbabile man mano che la concorrenza economica tra le diverse multinazionali e i loro stati si era concentrata in rivalità più continentali. Questi cambiamenti hanno modificato i termini dell'analisi del secondo aspetto della teoria dell'imperialismo.
Nel corso degli anni '70, Ernest Mandel (12) ha sintetizzato la nuova situazione mediante l'analisi di tre modelli possibili dell'evoluzione dell'imperialismo: la concorrenza inter-imperialista, il transnazionalismo (originariamente chiamato "ultra-imperialismo") e il superimperialismo. Stimando che il tratto dominante dell'accumulazione è la rivalità crescente, attribuiva alla prima alternativa le maggiori probabilità. Egli pronosticava anche che la concorrenza intercontinentale andava ad aumentare con la formazione di alleanze regionali.
L'economista belga metteva in discussione la seconda prospettiva, anticipata da Kautsky e difesa dagli autori contrari alla costituzione di società transnazionali svincolate dalle origini geografiche dei loro componenti (13). Mandel riteneva che benché l'internazionalizzazione delle imprese multinazionali indebolisse le loro radici nazionali, una grande proliferazione di fusioni tra proprietari di aziende di origini diverse fosse poco probabile. Tenendo conto del carattere concorrenziale della riproduzione capitalista, egli stimava ancor meno fattibile che un tale processo fosse favorito dalla costituzione di "Stati mondiali". Di più, egli considerava molto improbabile che le ditte fossero indifferenti alla congiuntura economica nel loro paese d'origine e che di conseguenza non avessero corso politiche anti-cicliche nazionali, come un'integrazione del genere ("transnazionale") dovrebbe far supporre. Egli ha quindi scartato questo scenario, arguendo che lo sviluppo ineguale del capitalismo e le sue crisi creano delle tensioni incompatibili con la durata a lungo termine di alleanze transnazionali.
La terza alternativa, superimperialista, supponeva il consolidamento del dominio di una potenza sulle altre e la sottomissione delle perdenti a rapporti simili a quelli in atto con i paesi periferici. Mandel reputava in questo caso che la supremazia raggiunta dagli Stati Uniti non metteva in comunque l'Europa e il Giappone allo stesso livello di dipendenza delle nazioni sottosviluppate. Egli sottolineava che l'egemonia politica e militare nordamericana non ne determinava necessariamente una supremazia economica strutturale a lungo termine.
A quale tipo di analisi possono oggi dare luogo tre prospettive? Quali sono le tendenze che prevalgono all'inizio del XXI secolo: la concorrenza inter-imperialista, l'ultra-imperialismo o il superimperialismo?
I cambiamenti della concorrenza inter-imperialista
L'interpretazione iniziale dell'imperialismo come tappa della rivalità bellica tra le potenze non ha praticamente più sostenitori. Esiste per contro una versione attenuata di questa visione, centrata attualmente non sull'aspetto militare ma sull'analisi della concorrenza economica. Alcuni studiosi sottolineano l'intervento attivo degli Stati imperialisti per puntellare questa concorrenza e dar vigore alle politiche neo-mercantiliste adottate per indebolire le aziende rivali (14). Altri autori rimarcano l'omogeneità dell'origine dei proprietari delle aziende e il carattere prioritario dei rispettivi mercati interni nella loro attività (15). Questo assoggettamento delle ditte alla loro base nazionale permette di spiegare, secondo alcuni studi, perché la tendenza alla formazione di blocchi regionali è più significativa della globalizzazione commerciale, finanziaria o produttiva (16). Allo stesso modo, il fatto che la crescita nordamericana dell'ultimo decennio si sia realizzata a spese dei loro rivali è interpretato come l'espressione del ritorno alla concorrenza inter-imperialista. Questi modi di vedere trovano coincidenza nel presentare la globalizzazione come un processo ciclico di fasi di espansione e di contrazione del livello di internazionalizzazione dell'economia (17).
Questa varietà di argomenti contribuisce a rigettare la mitologia neoliberale sulla "fine degli Stati", la "sparizione delle frontiere" e la "mobilità senza limiti del lavoro". La tesi della concorrenza inter-imperialista dimostra come questa rivalità condizioni le delocalizzazioni industriali, la liberalizzazione finanziaria e l'apertura commerciale, mettendo in rilievo il fatto che la concorrenza tra blocchi esige una certa stabilità geografica degli investimenti, che restringe i movimenti di capitale e le politiche commerciali di ciascuno stato.
Smentendo in maniera convincente le semplificazioni sulla globalizzazione, questi contributi non arrivano però a mettere in luce le differenze esistenti tra il contesto attuale e quello dell'inizio del XX secolo. E' certo che la concorrenza inter-imperialista continua a determinare il corso dell'accumulazione. Ma perché la concorrenza tra le potenze non conduce oggi a conflagrazioni belliche dirette? La stessa concorrenza si dipana oggi nel quadro di una forte solidarietà capitalista, che vede gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone perseguire gli stessi obiettivi della NATO e agire all'interno di un blocco comune di Stati dominanti di fronte ai vari conflitti militari.
Lo si potrebbe spiegare dicendo che la reciproca portata distruttiva delle armi nucleari ha cambiato il carattere delle guerre, neutralizzando i conflitti aperti. Ma un simile ragionamento chiarisce solo le modalità della dissuasione tra Stati Uniti ed ex-URSS, non il fatto che i tre imperialisti evitano allo stesso modo un confronto diretto. Inoltre, se è certo che la "lotta contro il comunismo" ha diluito la concorrenza tra potenze capitaliste, questo conflitto non ha cambiato natura a partire dalla fine della "guerra fredda".
In realtà il conflitto tra le potenze ha avuto risalto mediatico con la globalizzazione. L'attività capitalista internazionale tende a intrecciarsi con una crescita del commercio superiore a quella della produzione, la formazione di un mercato finanziario planetario e la gestione su scala mondiale degli affari delle più grandi imprese multinazionali.
La strategia produttiva di queste ditte si fonda sulla combinazione di tre opzioni: accaparramento dei fattori produttivi, produzione integrale per il mercato locale e frammentazione dell'assemblaggio delle parti fabbricate in paesi diversi. Questo mix di produzione orizzontale (che ricrea in ogni regione il modello del paese d'origine) e di produzione verticale (divisione del processo di produzione in base a un piano mondiale di specializzazione) implica un livello di associazione più alto tra i capitali allocati sul piano internazionale (18). Le aziende che definiscono le loro strategie su scala mondiale tendono d'altronde a predominare sulle meno internazionalizzate, come dimostra per esempio il peso delle aziende del primo tipo nelle fusioni dell'ultimo decennio (19).
Questa avanzata della globalizzazione spiega anche perché le tendenze protezioniste non raggiungono attualmente la dimensione degli anni '30 e non sortiscono la formazione di blocchi completamente chiusi. Il neo-mercantilismo coesiste con la tendenza opposta favorevole alla liberalizzazione commerciale, dato che gli scambi interni tra imprese localizzate in differenti paesi si sono accresciuti notevolmente. Questo non appare con chiarezza nelle statistiche correnti, poiché le operazioni tra aziende internazionalizzate che si realizzano su un mercato nazionale sono generalmente contabilizzate come transazioni interne a quel paese (20).
Il procedere della globalizzazione che indebolisce la concorrenza tradizionale tra le potenze imperialiste esprime una tendenza dominante e non solo un "va e vieni" ciclico del capitalismo. I periodi di ripiego nazionale o regionale sono movimenti contrari a questo impulso centrale d'amplificazione del raggio d'azione geografico del capitale. Il freno a questa tendenza proviene dagli squilibri generati dall'espansione mondiale e non dalla pendolarità strutturale del processo. In ultima istanza la pressione globalizzatrice è la forza dominante poiché riflette l'azione crescente della legge del valore su scala internazionale. Più le imprese transnazionali assumono importanza e più è grande il campo della valorizzazione del capitale su scala globale a detrimento delle aree esclusivamente nazionali. Questa influenza esprime la tendenza alla formazione di prezzi mondiali i quali sono la rappresentazione dei nuovi campioni di tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione di merci (21).
La gestione internazionalizzata degli affari erode il vigore del modello classico della concorrenza inter-imperialista. Ma questa trasformazione non è percepibile se si osserva la globalizzazione in corso come "un processo vecchio quanto il capitalismo stesso". Una simile attitudine tende a ignorare le differenze qualitative che separano ogni tappa di questo processo, e questa distinzione è vitale se si vuole comprendere perché l'internazionalizzazione della Compagnia delle Indie del XVI secolo, per esempio, ha poco in comune con la produzione mondialmente segmentata della General Motors.
La rivalità contemporanea tra le aziende si svolge in un quadro di attività più concertato. E' in seno agli organismi politici mondiali (ONU, G8), economici (FMI, BM, OMC) o militari (NATO) che si negozia questa attività comune. A differenza del passato, l'attività tradizionale dei blocchi concorrenti coesiste con l'influenza crescente di queste istituzioni, che agiscono assecondando gli interessi delle aziende internazionalizzate.
E' perciò che il rimodellamento contemporaneo dei territori, delle legislazioni e dei mercati si accompagna con queste istanze e non per mezzo della guerra tra le potenze. Se è evidente che la nuova configurazione imperialista si nutre di massacri bellici sistematici, la scena di questi massacri è periferica. La moltiplicazione di questi conflitti non conduce a guerre inter-imperialiste e questo cambiamento rappresenta un salto qualitativo della globalizzazione, che il vecchio modello di concorrenza inter-imperialista non permetteva di vedere né di spiegare.
L'esagerazione transnazionalista
Certi difensori dell'ipotesi transnazionalista stimano che le ditte attualmente operino già in maniera disgiunta dal loro paese d'origine (22). Altri (23) attribuiscono l'apparizione del "capitale mondiale (globale)" all'informatizzazione dell'economia, alla sostituzione dell'attività industriale per l'azione delle reti e l'espansione del lavoro immateriale. Concludono che questa congiunzione elimina la centralità del processo di produzione, favorisce la gestazione di un mercato planetario e rafforza "l'extraterritorialità dell'impero".
Questa visione interpreta delle tendenze allo stato embrionale come fossero dei fatti consolidati e a dedurre dall’associazione crescente tra i capitali internazionali un livello di integrazione che non si verifica affatto. La transnazionalizzazione dei capitali non costituisce attualmente che l’inizio di un processo di trasformazione strutturale. In passato trasformazioni analoghe hanno richiesto secoli. Nessun fatto dell’ultimo decennio suggerisce la presenza di un accorciamento così radicale del ritmo storico del capitalismo (24).
Il transnazionalismo esagera il rialzo del capitale mondiale, riflettendo una certa pressione mediatica per costruire novità teoriche al ritmo del consumo giornalistico. E’ sufficiente osservare il parametro indicato da Mandel sulla sensibilità delle multinazionali ad ogni congiuntura economica nazionale, per invalidare la tesi ultra-imperialista. I quattro caratteri centrali del corso economico degli anni ’90 — crescita nordamericana, stagnazione europea, depressione giapponese, crollo della periferia — illustrano l’esistenza di una evoluzione comune del "capitale globalizzato". I profitti e le perdite di ciascun gruppo di aziende sono dipese dalla loro situazione in ogni regione. Che la crescita statunitense sia stata sostenuta dalla caduta dei loro rivali conferma l’esistenza di un blocco vincente differenziato di aziende europee e giapponesi.
Certe forme di associazione mondiale cominciano a emergere, e per la prima volta delle alleanze strutturali transatlantiche e transpacifiche sono sorte tra imprese europee, nordamericane e nipponiche. Connessioni di questo tipo indeboliscono la coesione dell’Unione Europea, obbligano gli Stati Uniti a fissare la loro politica economica in funzione del finanziamento estero e spingono il Giappone a perseguire malvolentieri l’apertura dei suoi mercati. Ma queste linee non eliminano l’esistenza di blocchi concorrenti strutturati attorno ai vecchi nodi statali.
Nelle sue varianti moderate il transnazionalismo ignora che l’ALENA (Accordo di libero-scambio nordamericano), l’Unione Europea e l’ASEAN esprimono questi poli rivali. Ma nella variante estrema di Negri questa concezione propaga ogni sorta di fantasia circa il "decentramento" geografico, misconoscendo che l’attività strategica delle aziende continua a basarsi sugli Stati Uniti, l’Europa o il Giappone. Il legame mondiale ha creato un nuovo quadro comune per la concorrenza, senza eliminare comunque il livello territoriale di questa competizione.
D’altra parte è certo che la rivoluzione informatica favorisce l’intreccio mondiale del capitale, poiché tende ad amalgamare l’attività finanziaria, accelera le transazioni commerciali e accentua la riorganizzazione dei processi di lavoro. Ma l’innovazione tecnologica rafforza contemporaneamente la concorrenza e la necessità di alleanze regionali tra le ditte che si disputano i mercati. "L’economia di rete" non solo unifica ma anche accentua la competizione nazionale. L’applicazione delle nuove tecnologie informatiche è regolata dai parametri capitalisti del profitto, della concorrenza e dello sfruttamento, che impediscono flussi indiscriminati di investimenti su scala mondiale o movimenti senza limiti della manodopera. La loro localizzazione dipende dalle condizioni di accumulazione e valorizzazione del capitale, che obbligano le 200 multinazionali a concentrare i loro centri direzionali in un piccolo numero di paesi centrali.
Classi e Stati - II
Certi ritengono che la transnazionalizzazione del capitale ha dato luogo a un processo analogo sia sul terreno delle classi dominanti che degli Stati, citando come prove di questo cambiamento l'incremento degli investimenti esteri, l'internazionalizzazione del lavoro e il peso degli organismi mondiali (25). Negri (26) reputa inoltre che si sia stabilito un nuovo ordine giuridico "ispirato alla Costituzione americana", basato sul trasferimento di sovranità all'ONU, centro dell'impero.
Uno schema simile è una forzatura totale, perché non esiste alcun indizio di una globalizzazione completa della classe dominante. Quali che siano le sue divisioni interne, la borghesia nordamericana costituisce un raggruppamento chiaramente differenziato dalle sue omologhe europea e giapponese. Queste classi agiscono mediante governi, istituzioni e Stati distinti, che difendono politiche doganali, fiscali, finanziari e monetari proprie, in funzione dei loro interessi specifici. Anche l’integrazione di alcune borghesie attorno ad uno Stato sovranazionale — come nel caso dell’Europa — non converte i loro membri in "capitalisti mondiali", poiché non sono legati alla stessa maniera coi loro concorrenti extra-continentali all’interno di uno stesso stato.
L’eventuale transnazionalizzazione dei centri di gestione di alcune aziende e dei settori dirigenti di organismi internazionali non testimonia il sorgere di una classe dominante mondiale. Questo staff di funzionari cosmopoliti forma un ceto burocratico di alte responsabilità, ma non costituisce una classe (27). Il principale parametro per valutare l’esistenza di una tale classe sociale — la proprietà dei mezzi di produzione — indica chiaramente una frammentazione geografica della borghesia che segue la vecchia struttura delle nazioni. I proprietari di ogni impresa transnazionale sono nordamericani, europei o giapponesi e non "cittadini del mondo". Gli atti di proprietà delle 500 aziende più importanti confermano questa connessione nazionale: il 48% di esse appartengono a capitalisti nordamericani, il 30% a europei e il 10% a nipponici (28).
Inoltre, il FMI, l’OMC o il WEF (Forum mondiale dell’economia) non sono strutture statali omogenee, ma centri di negoziazione di aziende diverse che difendono attraverso i loro rappresentanti statali diverse concezioni di accordi commerciali e di investimenti. Le imprese si appoggiano su queste strutture per lottare contro le loro rivali. Quando, per esempio, Boeing e Airbus si disputano il mercato aeronautico mondiale, fanno maggiormente ricorso ai lobbysti degli Stati Uniti o dell’Europa che ai funzionari dell’OMC. Nella concorrenza inter-imperialista ci sono degli scontri tra stati o tra blocchi regionali e non dei conflitti interaziendali del tipo Toyota-General Motors contro Chrysler-Daimler Benz.
Il ruolo privilegiato che gli Stati conservano dimostra che le principali funzioni capitaliste di questa istituzione (garantire il diritto di proprietà, favorire le condizioni della realizzazione del plusvalore, assicurare la coercizione e il consenso) non possono globalizzarsi così rapidamente quanto gli affari (29). Anche se uno stato transnazionale potesse trovare ora le risorse, l’esperienza e il personale necessario per riempire pienamente, per esempio, le funzioni repressive, gli mancherebbe l’autorità che ogni borghesia ha conquistato nella sua nazione attraverso i secoli per esercitare questo compito.
Negri ignora queste contraddizioni quando ipotizza l’esistenza di una nuova sovranità imperiale dell’ONU. Egli deduce questa situazione da un’analisi giuridica parziale e totalmente slegata dalla logica di funzionamento del capitale. Ma ciò che più sorprende è la sua candida presentazione delle Nazioni Unite come un sistema oppressivo al vertice (Consiglio di sicurezza) e democratico alla base (Assemblea generale), dimenticando che questa istituzione — a ogni livello — agisce come un pilastro dell’ordine imperiale attuale. Questa ingenuità si fonda su una visione apologetica della Costituzione degli Stati Uniti, che misconosce come l’élite di quel paese abbia edificato un sistema politico oppressivo, mediato da un meccanismo di contro-potere destinato a controllare il mandato popolare (30).
Questa interpretazione della sovranità imperiale spinge all’estremo gli errori della prospettiva transnazionalista, dato che esagera la sua principale debolezza: la sottovalutazione del fatto che la più grande integrazione mondiale di capitali si realizza nel quadro degli Stati e delle classi dominanti esistenti o regionali.
Gli errori del "superimperialismo"
La caratterizzazione del dominio assoluto degli Stati Uniti è particolarmente intrinseca nella tesi dell’impero. Benché Negri (31) sottolinei che l’impero "manca di centro territoriale", egli sostiene anche che tutte le istituzioni del nuovo stadio derivano da antecedenti statunitensi, e si erigono in opposizione alla decadenza europea.
Questa interpretazione converge con tutte le caratterizzazioni che identificano l’attuale leadership statunitense con il "predominio d’una sola potenza", la "unipolarità del mondo" o il consolidamento "dell'era statunitense". Queste visioni attualizzano la teoria del superimperialismo, che postula l’egemonia totale di un rivale sui suoi concorrenti.
Il supporto empirico di questa tesi si situa nell’avanzata nordamericana esplosa nel corso dell’ultimo decennio, in particolare sul terreno politico e militare. Mentre l’azione delle Nazioni Unite si è allineata sulle priorità degli Stati Uniti, la presenza del gendarme nordamericano si è estesa a tutti gli angoli del pianeta, attraverso gli accordi con la Russia e l’intervento nelle regioni — quali l’Asia centrale o l’Europa orientale — che fino ad allora erano fuori dal suo controllo.
Gli Stati Uniti detengono un’evidente superiorità tecnologica e produttiva nei confronti dei loro rivali. Questa supremazia si è verificata nell’attuale recessione mondiale, in quanto il livello di attività economica mondiale presenta un grado straordinario di dipendenza dal ciclo nordamericano.
Gli Stati Uniti hanno ripreso nel corso degli anni ’90 la leadership che l’Europa deteneva negli anni ’70 e il Giappone negli anni ’80. A partire dal governo Reagan la prima potenza al mondo sfrutta i vantaggi che le dà la sua supremazia militare per finanziare la sua riconversione economica con le risorse strappate al resto del mondo. In certi periodi essa fa abbassare il valore del dollaro (per rilanciare le esportazioni) e in altri lo rilancia (per assorbire i capitali stranieri). Inoltre stimola alternativamente il libero-scambio e il protezionismo nei settori in cui ha rispettivamente una superiorità o un’inferiorità concorrenziale. Questo recupero dell’egemonia si spiega anche con l’installazione internazionale di imprese nordamericane e con il fatto che il capitalismo statunitense si è orientato dal secolo scorso alla penetrazione dei mercati interni dei suoi concorrenti.
Tuttavia nessuno di questi fatti prova l'esistenza di un superimperialismo, tanto che la supremazia nordamericana non ha portato alla sottomissione dell'Europa e del Giappone. I conflitti che oppongono le grandi potenze hanno la dimensione di conflitti inter-imperialisti e non sono comparabili agli scontri tra paesi centrali e periferici. Nelle controversie commerciali con gli Stati Uniti, la Francia non si comporta come l'Argentina; in seno al FMI il Giappone non mendica crediti, ma si comporta come creditore; la Germania è coautrice non vittima delle risoluzioni del G8.
Le relazioni tra gli USA e i loro concorrenti non presentano i tratti di una dominazione imperiale. Il primato nordamericano nelle relazioni geopolitiche è indiscutibile, ma "il legame transatlantico" non implica la subordinazione dell'Europa e "l'asse pacifico" non si caratterizza per un assoggettamento del Giappone a ogni esigenza degli Stati Uniti (32).
La tesi superimperialista esagera la leadership nordamericana e misconosce le contraddizioni di questa leadership. Gowan (33) ritiene giustamente che la forma di dominio "suprematista" (a detrimento dei rivali) e non "egemonica" (che suddivide i frutti del potere) degli Stati Uniti demolisce la loro leadership. La forza degli USA si costruisce attraverso i legami politico-economici e non - come in passato - attraverso la disfatta armata dei loro concorrenti. Questa modalità obbliga a forgiare delle alleanze che, non basandosi su soluzioni militari, sono più fragili. Il carattere elitario dell'imperialismo attuale - cioè privo del sostegno di massa, sciovinista e patriottico dell'inizio del XX secolo - erode ugualmente la superiorità della maggiore potenza.
La supremazia statunitense si esercita in pratica mediante le guerre nelle zone periferiche più calde del pianeta. Pertanto il bellicismo stesso indebolisce il corso superimperialista, dato che le aggressioni sistematiche aumentano l'instabilità. La nuova dottrina della "guerra senza fine" applicata dall'amministrazione Bush accentua questa perdita di controllo, poiché rompe con la tradizione di conflitti limitati e soggetti a una carta proporzione tra mezzi impiegati e fini perseguiti. Nelle campagne contro l'Irak, il "traffico di stupefacenti" o il "terrorismo" gli Stati Uniti cercano di creare un clima di paura permanente delle aggressioni senza durata stabilita né obiettivi precisi (34).
Questo tipo d'azione imperialista non solo sconvolge le nazioni, disintegra gli Stati e distrugge le società, ma in più genera quel tipo di "effetto boomerang" che gli USA hanno sperimentato sulla propria pelle con i talebani. La "guerra totale" senza scrupoli giuridici destabilizza "l'ordine mondiale" e deteriora l'autorità dei suoi artefici. E' per questo che la prospettiva del superimperialismo non si è realizzata ed è minacciata dall'azione di dominio degli Stati Uniti stessi.
Una combinazione di tre modelli
Nessuno dei tre modelli alternativi a quello dell'imperialismo classico permette di chiarire i rapporti attualmente predominanti tra le grandi potenze. La tesi della concorrenza inter-imperialista non spiega le ragioni che inibiscono il confronto militare e ignora il progredire dell'integrazione dei capitali che si è registrato. L'orientamento transnazionalista misconosce che la rivalità tra le aziende continua a essere mediata dall'azione delle classi e degli stati nazionali o regionali. L'ottica superimperialista non tiene conto dell'assenza di relazioni di subordinazione tra le economie sviluppate, per nulla comparabili con quelle periferiche.
Queste aporie conducono a pensare che la rivalità, l'integrazione e l'egemonia contemporanee tendono a combinarsi in un nuovo tipo di legami, più complessi di quelli immaginati negli anni '70. Studiare questo viluppo è più utile che domandarsi quale dei tre modelli descritti è prevalente in questo momento. Nel corso degli ultimi decenni l'avanzata della globalizzazione ha stimolato l'associazione transnazionale dei capitali e allo stesso tempo ha condotto una potenza ad assumere la leadership per mantenere la coesione del sistema (35).
Riconoscere questa combinazione permette di comprendere il carattere transitorio della situazione attuale. Per il momento né la rivalità, né l'integrazione, né l'egemonia predominano pienamente, ma si osserva un cambiamento dei rapporti di forza all'interno di ciascuna potenza, che favorisce i settori transnazionalisti a detrimento dei settori nazionali in seno agli Stati e alle classi esistenti (36). Questa incertezza di posizioni differisce da un paese all'altro (in Canada o nei Paesi Bassi la proprietà globalizzata è senza dubbio più forte che negli Stati Uniti o in Germania) e da un settore all'altro (nell'industria automobilistica la transnazionalizzazione è più avanzata che nella siderurgia). Il capitale si internazionalizza quando i vecchi Stati nazionali continuano a garantire la riproduzione generale del sistema.
La nuova combinazione di rivalità, integrazione e supremazia imperialiste fa parte delle grandi e recenti trasformazioni del capitalismo. Essa si inscrive nel quadro di uno stadio caratterizzato dall'offensiva del capitale contro il lavoro (aumento della disoccupazione, della povertà, della flessibilità) mediante la sua espansione settoriale (privatizzazioni) e geografica (verso i paesi "ex-socialisti"), la rivoluzione informatica e la deregolamentazione finanziaria.
Questi processi hanno alterato il funzionamento del capitalismo e moltiplicato gli squilibri del sistema, indebolendo la regolamentazione statale dei cicli economici e acutizzando la rivalità tra le aziende. Le vecchie istituzioni politiche perdono autorità man mano che una parte di potere reale si disloca verso i nuovi organismi mondiali, che a loro volta mancano di legittimità e sostegno popolare. Inoltre, l'escalation militare imperialista provoca sconquassi nelle regioni periferiche, accrescendo l'instabilità mondiale (37).
Queste contraddizioni sono caratteristiche del capitalismo e non presentano affatto quelle somiglianze con l'impero romano che numerosi autori affermano. Tra le analogie sottolineano i meccanismi d'inclusione o d'esclusione dei gruppi dominanti nel centro imperiale (38), la similitudine istituzionale (Monarchia-Pentagono, Aristocrazia-Azienda, Democrazia-Assemblea ONU) (39) o la decadenza comune dei due sistemi (la caduta di Roma - la "decomposizione" del regime attuale) (40). Ma il capitalismo contemporaneo non è eroso da un'espansione territoriale smisurata, non è corroso dal rallentamento dell'agricoltura, dall'improduttività del lavoro o dagli sprechi della casta dominante. A differenza del modo di produzione schiavista, il capitalismo non genera la paralisi delle forze produttive ma il loro sviluppo incontrollato e soggetto a crisi cicliche.
Le contraddizioni derivanti dall'accumulazione, dalla estrazione del plusvalore, dalla valorizzazione del capitale o dalla realizzazione del profitto conducono a delle crisi, ma non all'agonia patita nell'antichità. Comunque la differenza cruciale risiede nel ruolo giocato dai soggetti sociali con capacità di trasformazioni storiche, che non esistevano al tempo della decadenza romana.
Il futuro della resistenza popolare
I lavoratori sfruttati e oppressi di tutto il pianeta sono gli avversari dell'imperialismo del XXI secolo. La loro azione ha modificato nel corso degli ultimi anni il clima di trionfante neoliberismo che prevaleva nell'élite della classe dominante dall'inizio degli anni '90. Un sentimento di disorientamento ha cominciato a diffondersi tra l'establishment globalizzatore, come provano le critiche contro il corso economico attuale formulate dai padri del neoliberalismo.
Soros, Stiglitz o Sachs scrivono oggi dei libri per denunciare l'assenza di controllo dei mercati, gli eccessi dell'austerità o gli inconvenienti degli aggiustamenti radicali. Anche se i loro contenuti sono molto superficiali e non apportano alcuna riflessione interessante, testimoniano comunque un malessere apparso ai vertici dell'imperialismo davanti al disastro sociale prodotto negli anni dell'euforia privatizzatrice.
Questa messa in discussione del "capitalismo selvaggio" è il riflesso della crescita della resistenza popolare, tanto che i signori del mondo non possono più riunirsi in pace. I loro incontri nei luoghi isolati e le riunioni blindate devono sempre affrontare le manifestazioni del movimento anti-global (movimento per un'altra mondializzazione, detto anche movimento contro la globalizzazione neoliberista). Essi non possono isolarsi a Davos, far dimenticare la scandalosa repressione di Genova, né ignorare le sfide di Porto Alegre. Non c'è più il "pensiero unico", né la "sola alternativa" e lo sviluppo delle rivendicazioni popolari sgretola l'immagine dell'onnipotenza imperialista.
I partecipanti al movimento no-global sono i principali artefici di questo cambiamento. Questa resistenza ha già superato l'impatto mediatico provocato dal boicottaggio del summit di presidenti, capi di imprese e banchieri. Seattle ha segnato "un prima e un dopo" per lo sviluppo di questa lotta, che non è stata fermata dopo l'11 settembre 2001. Le previsioni di un grande riflusso sono state rapidamente smentite e l'intimidazione "anti-terrorista" non ha fatto vacillare i ranghi dei manifestanti. Tra ottobre e dicembre dello scorso anno 250.000 giovani si sono mobilitati a Perugia, 100.000 a Roma, 75.000 a Londra e 350.000 a Madrid. In febbraio il secondo incontro del Forum sociale mondiale a Porto Alegre ha superato la rappresentatività delle riunioni anteriori e poco dopo una marcia a Barcellona ha raccolto 300.000 manifestanti. La mobilitazione più recente, a Siviglia contro "l'Europa del capitale", ha riunito 100.000 persone. Questi avvenimenti confermano la vitalità di un movimento che tende a incorporare nelle sue azioni la lotta contro il militarismo. Un movimento contro la guerra comincia a sorgere, sulle tracce delle lotte contro i crimini di guerra in Algeria negli anni '60 e in Vietnam negli anni '70 (41).
La classe operaia si profila come l'altro avversario dell'imperialismo, sia per la sua convergenza con il movimento no-global (molto significativa a Seattle) che per il rinnovarsi delle lotte rivendicative. Il severo riflusso inaugurato dalle sconfitte degli anni '80 (FIAT-Italia nel 1980, minatori inglesi nel 1984-85) tende a ribaltarsi a partire dalla metà degli anni '90, scandito da importanti mobilitazioni in Europa (scioperi in Francia e Germania) e nelle periferie più industrializzate (Corea, Sud Africa, Brasile). La straordinaria manifestazione di milioni di lavoratori italiani il 23 marzo scorso e l'imponente sciopero generale in Spagna confermano questa ripresa della classe operaia.
I sollevamenti popolari nella periferia rappresentano la terza sfida per l'imperialismo. Gli esempi di questa resistenza in America del Sud sono incontestabili, a cominciare dalla significativa estensione della ribellione argentina. Man mano che il "contagio economico" colpisce le nazioni vicine (fuga dei capitali, fallimenti bancari, riduzione degli investimenti) si spande anche il "contagio politico" con la manifestazioni e i "concerti" dei casseroles in Uruguay, le grandi mobilitazioni contadine in Paraguay e i sollevamenti di massa contro le privatizzazioni in Perù.
D'altra parte l'intervento popolare contro il colpo di stato in Venezuela segna l'inizio di una reazione di massa contro la politica pro-dittatoriale dell'imperialismo nordamericano. Questo successo degli oppressi costituisce solo il primo round di uno scontro che vedrà numerosi episodi, poiché il Dipartimento di Stato ha intrapreso un'escalation di provocazioni contro tutti i governi, tutti i popoli e tutte le politiche che non si piegano servilmente davanti alle loro esigenze.
Su scala mondiale il caso più drammatico di queste aggressioni è il massacro dei Palestinesi. Il livello della brutalità imperialista in Medio Oriente ricorda le grandi barbarie della storia coloniale ed è per questo che la resistenza popolare in questa regione è emblematica e suscita la solidarietà di tutti i popoli del pianeta.
Il movimento no-global, la ripresa della classe operaia e le rivolte nella periferia mostrano i limiti dell'offensiva del capitale. Al culmine di un decennio di massacro sociale i rapporti di forza cominciano a modificarsi e ciò apre un nuovo spazio ideologico per il pensiero critico che ridarà attrattiva alle idee socialiste. Man mano che il neoliberismo perde prestigio, il socialismo cessa di essere una parola vietata e il marxismo già non è più considerato come un pensiero arcaico. Questa rinascita pone di nuovo all'ordine del giorno le diverse questioni della strategia socialista.
Quattro sfide politiche
Un nuovo internazionalismo ha fatto irruzione con le marce cosmopolite in favore di "un'altra globalizzazione". Queste mobilitazioni sono marcate da una forte messa in discussione dei valori della competizione, dell'individualismo e del profitto e hanno già prodotto un avanzamento della coscienza anticapitalista, che si riflette in alcune parole d'ordine di queste marce ("il mondo non è una merce"). Contribuire a trasformare questa critica embrionale al capitale in una proposizione emancipatrice è il primo compito che tocca ai socialisti.
Questa possibilità è già dibattuta in numerosi forum mondiali, quando vengono analizzate le prospettive sociali dell'internazionalismo spontaneo del movimento. In questo movimento prevale un'opposizione decisa verso il fondamentalismo come reazione alle atrocità imperialiste e un rigetto analogo degli scontri etnici o religiosi tra i popoli sfruttati, provocati dalla destra. La solidarietà internazionalista è incompatibile con qualunque progetto capitalista, poiché un tal progetto non può che promuovere lo sfruttamento e quindi accendere i contrasti nazionali. Solo il socialismo offre una prospettiva di comunanza reale tra i lavoratori del mondo.
Il risveglio generalizzato della lotta antimperialista alla periferia rappresenta la seconda sfida per i socialisti. Certi teorici ignorano questa irruzione, dato che hanno decretato la fine del nazionalismo e ne celebrano la sparizione senza essere in grado di distinguere tra correnti reazionarie e progressiste di questo movimento. Questi autori sono inoltre convinti dell'inefficacia di ogni tattica, strategia o priorità politica nei confronti delle nuove "lotte orizzontali" poiché, secondo loro, si tratta di conflitti tra capitale e lavoro senza alcuna forma di mediazione (42).
Questa impostazione rappresenta una grossolana semplificazione della lotta nazionale, dato che mette nello stesso sacco i talibani e i Palestinesi, gli esecutori dei massacri etnici in Africa o nei Balcani e i partigiani delle guerre di liberazione degli ultimi decenni (Cuba, Vietnam, Algeria). Essa non permette di distinguere dove si situa il progresso e dove la reazione. Per questa ragione non comprende perché i popoli del Terzo Mondo lottano per l'abolizione del debito estero, la nazionalizzazione delle risorse energetiche o la tutela doganale della produzione locale.
Definire le tattiche e concepire le strategie specifiche è d'altronde più importante che le rivendicazioni nazionali sostenute dagli sfruttati della periferia e non hanno senso per i lavoratori dei paesi centrali. Il punto di vista transnazionalista fa propria la vecchia ostilità liberale verso le forme concrete della resistenza popolare nei paesi sottosviluppati, usando un linguaggio più radicale. Le sue imprecisioni diffondono un sentimento di impotenza di fronte alla dominazione imperialista, dato che il mondo che descrivono è senza frontiere, senza centri e senza territori: è impossibile localizzare l'oppressore, né si riesce a scegliere il metodo per affrontarlo.
La terza sfida per la politica socialista è concepire le strategie di conquista e trasformazione radicale dello stato, al fine di aprire la via all'emancipazione. Obiettivo che esige di demistificare la questione neoliberista dell'utilità dell'intervento statale e la credenza neutralista del costituzionalismo che maschera il controllo detenuto dalla classe dominante su questa istituzione. In particolare la diffusa contrapposizione tra neoliberisti senza regole e regolatori antiliberisti non fa che celare una comune gestione capitalista dello stato. Questa manovra è la causa della separazione crescente tra la società e lo stato. Più gli affari pubblici dipendono dai benefici imprenditoriali e più grande è il peso acquisito dagli apparati e dalle burocrazie, distanti dai bisogni della maggior parte della popolazione.
Il superamento di questa frattura statale esige di inaugurare una gestione collettiva che permetta di arrivare fino all'estinzione progressiva del carattere elitario e oppressivo dello stato. Questo obiettivo non può essere raggiunto mediante un atto magico di dissoluzione di istituzioni che hanno radici millenarie, né può essere realizzato impegnandosi sull'enigmatico cammino emancipatore che propongono quelli che puntano a un cambiamento della società ritornando alla presa dello stato e l'esercizio del potere (43).
Certi teorici argomentano che nell'odierna "società del controllo" le forme di dominio sono così invasive che impediscono ogni trasformazione sociale fondata sulla gestione popolare dello stato (44). Ma questa suggestione di un potere onnipresente ("che è dovunque e in nessuna parte") riduce ogni dibattito concreto sulla lotta contro lo sfruttamento a una riflessione metafisica sull'impazienza dell'individuo di fronte al suo ambiente oppressivo. Eludendo l'analisi delle ragioni oggettive e dei fondamenti sociali di questa subordinazione diventa impossibile concepire le vie concrete di superamento del dominio capitalista (45).
Precisare quali siano gli agenti di questo progetto di trasformazione anticapitalista è la quarta sfida a cui sono chiamati i socialisti. Se si osservano i lavoratori in sciopero, i giovani del movimento anti-global e le masse mobilitate della periferia non è difficile definire gli artefici di un cambiamento emancipatore. Questo nuovo protagonismo popolare mina il discorso neoliberista individualista sulla fine dell'azione collettiva, ma non genera ancora il riconoscimento del ruolo centrale delle classi oppresse (e specialmente quella dei salariati) nella trasformazione sociale.
Questa omissione è dovuta, da una parte, all'importanza che si accorda alla "cittadinanza" nei cambiamenti politici, dimenticando che questa categoria accomuna oppressori e oppressi, concedendo loro lo stesso statuto e nascondendo il fatto che il "cittadino operaio" non ha alcun accesso alle funzioni esercitate quotidianamente dal "cittadino capitalista" (licenziare, accumulare, dissipare, dominare). Compresa nelle caratterizzazioni più radicali che parlano di "cittadinanza insorta" o di "cittadinanza mondiale", questa frontiera di classe è dissolta e l'antagonista sociale è relegato in secondo piano.
Un altro modo di diluire l'analisi di classe consiste nel sostituire i termini lavoratore o salario con il concetto di "moltitudine". Questo raggruppamento si presenta come embrione di un "contro-impero" basato sulla sua capacità di coagulare le "aspirazioni di liberazione" dei soggetti "cosmopoliti, nomadi e migranti" (46).
Gli stessi promotori di questa categoria riconoscono il suo significato essenzialmente poetico, e quindi non pretendono di applicarlo all'azione politica (47). Questo trasferimento genera innumerevoli confusioni, poiché la stessa "moltitudine" può significare un raggruppamento amorfo di individui (nomadi) e riferirsi in altre occasioni all'azione di particolari forze (immigrati). In ciascuno dei due casi non ci si spiega perché questa categoria occupi un posto così significativo nella lotta sociale di un impero che non è localizzabile e che non affronta oppositori ben definiti. Ma ciò che è più difficile in questo rompicapo è capire a cosa possa servire.
Abbandonando i giochetti verbali e analizzando piuttosto il potenziale emancipatore della classe lavoratrice per orientare un progetto socialista si può arrivare a conclusioni più utili. Questa riflessione può partire dalla crescente "proletarizzazione del mondo", cioè dal peso sociale strategico raggiunto dai lavoratori, definiti in senso lato come la massa complessiva dei salariati (48). Questa forza impressionante può trasformarsi in un potere anticapitalista effettivo a condizione di realizzare un salto significativo della coscienza socialista degli sfruttati.
Le condizioni per un tale avanzamento politico sono già presenti, come testimoniano i dibattiti sull'internazionalismo, lo stato e il soggetto della trasformazione sociale. Ripetendo ciò che è successo nel periodo 1890-1920, il dibattito sull'imperialismo si pone di nuovo al centro di questa maturazione politica. Queste somiglianze si estenderanno fino alla crescita del movimento socialista? Forse l'apparizione di partiti, dirigenti e pensatori comparabili ai marxisti classici del secolo scorso sarà la sorpresa del nuovo decennio!
Buenos Aires giugno 2002
NOTE
1. Ho analizzato questo processo in: Claudio Katz, "Les nouvelles turbulences d'une economie malmenee par l'imperialisme", Inprecor, n. 457 aprile 2001; "Las crisis recientes en la periferia", Realidad Economica, n. 183, ottobre-novembre 2001, Buenos Aires; "Une recession globale entre guerres et rebellions", Inprecor, n. 470/471 maggio-giugno 2002. La polarizzazione tra il centro e la periferia è riconosciuta anche dagli autori che classificano le nazioni in quattro cerchi gerarchici (potenze centrali, paesi recettori degli investimenti stranieri, recettori potenziali di questi flussi, economie periferiche) e che stimano che il solo cambiamento possibile di questa gerarchia sia l'ascesa dei paesi del terzo rango al secondo (o viceversa). Altri cambiamenti sono considerati molto improbabili (dal secondo al primo rango o dal quarto al secondo). Cfr. Charles Albert Michalet, "La seduction des nations", Parigi 1999 (cap. 2).
2. Carlos Montero, "Efecto en America Latina de nuevos subsidios al agro en EEUU", (ATTAC, 29-5-02).
3. Samir Amin, "Africa: living on the fringe", Monthly Review, vol. 53, n. 10, marzo 2002.
4. "El fantasma del protectado", Clarin, 9 giugno 2002.
5. "US military bases and empire" (editoriale), Monthly Review, vol. 53, n. 10, marzo 2002.
6. Phil Hearse, "Guerre à la terreur, un premier bilan", Inprecor, 466/467, gennaio-febbraio 2002; Yvan Lemaitre, "La paix et la justice impossibles" e Christian Piquet, "Nouvelle donne, nouveaux defis", Critique Communiste, n. 165, inverno 2002; Janette Habel, "Etats Unis-Amerique Latine", Contretemps, n. 3, febbraio 2002.
7. Antonio Negri e Michael Hardt, Impero, Parigi 2000 (prefazione, capitoli I-2 e II-1); T. Negri "El imperio, supremo estadio del imperialismo", Desde los cuatro puntos, n. 31, maggio 2001; T. Negri, "Imperio: el nuevo lugar de nuestras conquistas", Cuadernos del sur, n. 32, novembre 2001.
8. William Robinson, "Global capitalism and nation-state-centric", Science and Society, vol. 65, n. 4, inverno 2001-2002.
9. Joh Bellamy Foster, "Imperialism and empire", Monthly Review, vol. 53, n. 7, dicembre 2001; Daniel Bensaid, "El imperio estado terminal", Desde los cuatro puntos, n. 31, maggio 2001; Daniel Bensaid, "Le nouveau desordre mondial", Contretemps, n. 2, settembre 2001.
10. Queste posizioni sono abitualmente sostenute dalle correnti antiliberiste nei forum del movimento no-global (in favore di un'altra globalizzazione, chiamata anche "movimento antiglobalizzazione")
11. Bob Sutcliffe, "Conclusion", Robert Owen "Introduccion" et Tom Kemp "La teoria marxista del imperialismo", in Robert Owen e Bob Sutcliffe, Estudios sobre la teoria del imperialismo, Era, Mexico 1978.
12. Ernest Mandel, Le troisieme âge du capitalisme, Editions de la Passion, Paris 1997 (nuova edizione, prima edizione tedesca con il titolo Der Spetkapitalismus, Suhrkampf Verlag, Frankfurt M. 1972), capitolo 10; Ernest Mandel, "Las leyes del desarrollo desigual", Ensayos sobre el neocapitalismo, Era, Mexico 1969. Un'analisi simile è stata formulata da Bob Rowthorn, "El imperialismo en la decada de 1970", Capital monopolista y capital monopolista europeo, Granica, Buenos Aires 1971.
13. Stephen Hymer, "Empresas multinacionales", Internacionalizacion del capital, Ediciones Periferia, Buenos Aires, 1972; Martin Nicolaus, "La contradiccion universal", El imperialismo hoy, Ediciones Periferia, Buenos Aires 1971.
14. James Petras, "Imperialismo versus imperio", Laberinto, n. 8, febbraio 2002.
15. Paolo Giussani, "Hay evidencia empirica de una tendencia hacia la globalizacion" in J. Arriola e D. Guerrero, La nueva economia politica de la globalizacion, Universidad de Pais Vasco, Bilbao 2000.
16. Stavros Tombazos, "La mondialisation liberale et l'imperialisme tardif", Contretemps, n. 2, settembre 2001.
17. Tony Smith, "Pour une theorie marxiste de la globalisation", Contretemps, n. 2, settembre 2001.
18. Wladimir Andreff, Interventions et debats, Mondialisation, Espaces Marx, Paris 1999; Philippe Zarifian, Interventions et debats, Mondialisation, Espaces Marx, Paris 1999.
19. Richard D. Boff e Edward Herrman, "Merger, concentration and the erosion of democracy", Monthly Review, vol. 53, n. 1, maggio 2001.
20. Certi studi che hanno cominciato a tener conto di questa problematica dimostrano, per esempio, che il deficit esterno nordamericano calcolato tenendo conto della localizzazione delle aziende costituisce in realtà un'eccedenza, dal punto di vista delle aziende. Cfr. D. Bryan, "Global accumulation and accounting for national economic identity", Review of Radical Political Economics, vol. 33, 1999.
21. Michel Husson, Interventions et debats, Mondialisation, Espaces Marx, Paris 1999.
22. Odile Castel, "La naissance de l'Ultra-imperialisme", dans Gerard Dumenil e Dominique Levy, Le triangle infernal, PUF, Paris 1999.
23. Antonio Negri e Michael Hardt, Empire, Exils Editeurs, Paris 2000 (prefazione) ; Toni Negri, "Entrevista", Pagina 12, 31 marzo 2002; Tony Negri "El imperio, supremo estadio del imperialismo", Desde los cuatro puntos, n. 31, maggio 2001.
24. E' l'obiezione motivata di Giovanni Arrighi: "Global capitalism and the persistence of north-south divide", Science and Society, vol. 65, n. 4, inverno 2001-2002.
25. William Robinson, "Global capitalism and nation-state-centric", Science and Society, vol. 65, n. 4, inverno 2001-2002.
26. Antonio Negri e Michael Hardt, Empire, Exils Editeurs, Paris 2000 (cap. I-1, II-5, III-5, III-6).
27. Michael Mann, "Globalization is among other things, transnational, international and american" et Kees van der Pijl, "Globalization or class society in transition", Science and Society, vol. 65, n. 4, inverno 2001-2002.
28. Financial Times, 10 maggio 2002.
29. Went Robert. "Globalization: towards a transnational state", Science and Society, vol. 65, n. 4, inverno 2001-2002.
30. Atilio Boron, "Imperio" Imperialismo, Buenos Aires 2002 (cap. 4 et 6).
31. Antonio Negri e Hardt Michael, Empire, Exils Editeurs, Paris 2000 (cap. IV-1)
32. Claude Serfati, "Une bourgeoisie mondiale pour un capitalisme mondialise", Bourgeoisie: etats d'une classe dominante, Syllepse, Paris 2001; Claude Serfati, "Violences de la mondialisation capitaliste", Contretemps, n. 2 , settembre 2001.
33. Peter Gowan, "Cosmopolitisme liberal et gouvernance globale", Contretemps, n. 2, settembre 2001.
34. Cfr. Contretemps, n. 3, febbraio 2002: Gilbert Achcar, "Le choc des barbaries"; Daniel Bensaid, "Dieu, que ces guerres sont saintes"; Ellen Meiksins Wood, "Guerre infinie".
35. Michel Husson, "Le fantasme du marche mondial", Contretemps, n. 2, settembre 2001.
36. Leo Panitch, "The state, globalization and the new imperialism", Historical Materialism, vol. 9, inverno 2001.
37. Alejandro Dabat, "La globalizacion en perspectiva historica" (Mimeo), Mexico 1999; Christian Barrere, Interventions et debats, Mondialisation, Espaces Marx, Paris 1999.
38. Toni Negri, "Imperio: el nuevo lugar de nuestras conquistas", Cuadernos del sur, n. 32, novembre 2001.
39. Toni Negri e Michael Hardt, "La multitude contre l'empire", Contretemps, n. 2, settembre 2001.
40. Antonio Negri e Michael Hardt, Empire, Exils Editeurs, Paris 2000 (cap. IV-1); Gerard De Bernis, Interventions et debats, Mondialisation, Espaces Marx, Paris 1999; Marcos Del Roio, "Las contradicciones del imperio" et Carlos Martins, "La nueva encrucijada", Herramienta, n. 18, estate (australe) 2001-2002.
41. Tariq Ali (intervista con), "Le choc des fondamentalismes", Inprecor, 466/467, gennaio-febbraio 2002
42. Antonio Negri e Michael Hardt, Empire, Exils Editeurs, Paris 2000 (prefazione, cap. I-3, II-2, II-3 e intermezzo).
43. E' la tesi di John Holloway: "Entrevista", Pagina 12, 3 dicembre 2001.
44. Antonio Negri e Michael Hardt, Empire, Exils Editeurs, Paris 2000 (cap. I-2).
45. Vedi l'eccellente critica di Alex Callinicos, "Toni Negri in perspective", International Socialism, n. 92, Autunno 2001 [la seconda parte di questo articolo è stata pubblicata in francese: Alex Callinicos, "Du pouvoir constituant à l'Empire: Toni Negri en perspective", Contretemps, n. 3, febbraio 2002].
46. Antonio Negri e Michael Hardt, Empire, Exils Editeurs, Paris 2000 (cap. III-6)
47. Toni Negri, "Entrevista", Pagina 12, 31 mars 2002.
48. Questa forza si è enormemente accresciuta nel corso del XX secolo, passando da 50 milioni nel 1900 a 2 miliardi nel 2000 (quando nello stesso tempo la popolazione mondiale passava da 1 a 6 miliardi). Cfr. Daniel Bensaid, Les irreductibles: theoremes de la resistance a l'air du temps, Textuel, Paris 2001.