Revisionisti sul Kosova tirano la NATO fuori dai guai.
La drastica riduzione del numero di vittime in Kosova, gli intrecci tra la borghesia serba ed europea e la riabilitazione dell'intervento NATO. Di Michael Karadjis. Da Green Left Weekly. Febbraio 2000.


"I massacri mai avvenuti", titolava in prima pagina lo "Spectator", il quotidiano londinese della destra. L'articolo riportava le proteste del giornalista John Laughland, secondo il quale "soltanto" centinaia di albanesi sono stati uccisi l'anno scorso in Kosova nel corso della guerra della Nato contro la Serbia, e non 10.000, cifra stimata dalle Nazioni Unite. Laughland ha raccontato ai lettori che "in una serie di luoghi nei quali secondo l'accusa sarebbero state commesse incredibili atrocità non è stato rinvenuta in realtà alcuna salma".

Non deve sorprenderci un articolo del genere da parte dello "Spectator", un giornale che è espressione di quei Tories insoddisfatti, per i quali i tradizionali legami tra le classi dirigenti britannica e serba sono da giudicare prioritari rispetto all'opportunità di dare un volto umano al massacro imperialista, preoccupazione cara ai laburisti.

Storie simili saltarono fuori anche sul "Sunday Times" e sul "New York Times" e provenivano dall'ala della sinistra schierata a favore di Milosevic. Questo punto di vista è stato condiviso anche dal carro armato della destra americana Stratfor, il quale ha ammonito a lungo Washington del fatto che la sua guerra sarebbe stata controproducente, perché avrebbe aiutato, invece di impedirla, la guerra di liberazione del Kosova per un Kosova indipendente. Impedire l'indipendenza del Kosova e disarmare l'esercito di liberazione del Kosova erano ragioni chiave per le quali la NATO voleva le proprie truppe sul posto: per fare il lavoro che Milosevic non era riuscito a garantire.

Secondo Stratfor, dal momento che "soltanto" poche centinaia di corpi sono stati rinvenuti, l'uso del termine "genocidio" da parte della NATO per giustificare la propria guerra produce "serie conseguenze non solo per l'integrità della NATO, ma per il principio di sovranità". È certamente vero che la brutale guerra contro i civili serbi getta molti dubbi sulla "integrità" della NATO, ma questa alleanza di destra e sinistra nella negazione del genocidio kosovaro ha anch'essa un ben misera integrità.

Il principale argomento dei revisionisti è stato il dato che un gruppo di avvocati spagnoli è tornato a casa avendo scoperto soltanto 187 corpi. Questo pseudogiornalismo lasciava immaginare al lettore che quello era l'unico gruppo ufficialmente incaricato delle ricerche. In realtà c'erano 20 gruppi del genere in diverse parti del paese: un'altra squadra incaricata ha trovato a Djakovica circa 200 corpi in appena 5 giorni di ricerche.

Quando il Tribunale Internazionale delle Nazioni Unite per l'ex Jugoslavia (ICTY) ha recentemente pubblicato la cifra di 2108 corpi rinvenuti in occasioni di tali ricerche, questi revisionisti, lungi dall'ammettere i propri errori, hanno perseverato. Forse non "centinaia" ma "soltanto 2000", invece di 10.000.

Naturalmente il gruppo degli avvocati ha dovuto interrompere il proprio lavoro a causa dell'inverno. Delle 529 fosse comuni complessivamente individuate, la cifra di 2108 corpi era dovuta alle ricerche compiute su appena 195 di esse sulle quali sono stati effettuati gli scavi. Se la proporzione dovesse soltanto mantenersi costante, potremmo stimare già oltre 6000 cadaveri.

Ma, secondo il Tribunale Internazionale, questa cifra indica soltanto la quota minima accertata delle salme, alla quale ne andranno aggiunte molte altre, data l'evidente diffusione di pratiche di manomissione delle tracce, di disseppellimento di corpi dati poi alle fiamme o occultati o disseminati in più luoghi. I 2108 corpi sono stati scoperti in luoghi dove gli albanesi hanno denunciato l'uccisione di 4256 familiari. Ove siano finiti i restanti 2000 è ancora un mistero.

La stima dei 10.000 corpi non è stata inventata dalla NATO, ma trova fondamento dalle cifre prodotte dal Tribunale Internazionale che ha scritto di 11.334 persone assassinate identificate dai familiari. Difficile dire quanto queste denuncie e questi riconoscimenti siano stati precisi e accurati, ma raramente si fa menzione del fatto che ci sono ancora 17.000 albanesi kosovari che mancano all'appello e della cui sorte non si sa ancora nulla. Se circa 5000 di loro stanno penando in carceri serbe, rimane fuori una cifra dei presunti morti che si avvicina molto a quella solitamente stimata.

Ma cosa ha a che fare tutto questo con la questione del genocidio? Stanno forse affermando i revisionisti che "solo" 2000 morti non fanno un genocidio mentre 10.000 invece sì? Nella Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio, il "genocidio" è definito come quell'insieme di atti "commessi con l'intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso". Tali atti, rivolti a tal scopo, non riguardano esclusivamente l'omicidio, ma comprendono l'atto di "infliggere deliberatamente ad un gruppo condizioni di vita che ne minaccino la distruzione fisica, totale o parziale", come lo sradicamento violento degli abitanti dalle proprie case.

La Carta del Tribunale di Norimberga cita esplicitamente la deportazione della popolazione civile fra i "crimini contro l'umanità". Il genocidio in Kosova non è riducibile soltanto ad una questione di morti, ma riguarda il fatto che metà della popolazione del Kosova è stata cacciata fuori dalle frontiere e che circa l'80% di coloro che sono rimasti nel Kosova è stata costretta ad abbandonare le proprie case.

Per ironia della sorte, i revisionisti, compiendo lo sporco lavoro nei confronti delle vittime albanesi allo scopo di criticare la NATO, in realtà finiscono per tirare la NATO fuori da un guaio. La NATO non ha agito in risposta al genocidio; i suoi bombardamenti l'hanno semmai precipitato. E quando Milosevic ha scatenato il suo genocidio usando il pretesto della NATO, questa non ha fatto nulla per difendere le vittime albanesi. Per paura che un'azione troppo decisa contro le forze militari serbe in Kosova avrebbe aiutato l'Esercito di Liberazione del Kosova, il problema principale che la NATO voleva evitare.

Un vecchio militante kosovaro per i diritti umani, Veton Surroi, descriveva così un ordinario giorno di guerra: "Un'unità di polizia serba non impiegava molto ad incendiare un villaggio, ma loro [la NATO] erano a oltre 15.000 piedi da qui a bombardare i trasmettitori della televisione. Era molto irritante."