Il cagnolino di Bush parte per le crociate.
Senza le ambiguità e le doppiezze che hanno caratterizzato le dichiarazioni di Berlusconi in Italia, il premier australiano Howard ha precisato fin dall'inizio che l'Australia sarebbe stata a fianco degli USA in quest'avventura irachena, con o senza il sostegno dell'ONU, perché l'alleanza con la potenza americana è la prima priorità della politica strategica di difesa dell'Australia. Di Jacky Pinko Dinkum. Maggio 2003.


Il Cagnolino di Bush

Era il trenta marzo, undicesimo giorno di guerra. Ventimila pacifisti sfilavano per le vie del centro di Melbourne, quando ho visto lo slogan, su un cartello artigianale, sotto il faccione rotondo dalla bocca un po' bavosa di John Howard, il primo ministro della federazione australiana: "pensavo che fossi il nostro servitore, non il barboncino di Bush" (1), diceva, e mi è sembrato perfetto, la sintesi precisa della politica estera australiana in questo scorcio di secolo.

Senza le ambiguità e le doppiezze che hanno caratterizzato le dichiarazioni di Berlusconi in Italia, Howard ha precisato fin dall'inizio che l'Australia sarebbe stata a fianco degli USA in quest'avventura irachena, con o senza il sostegno dell'ONU, perché l'alleanza con la potenza americana è la prima priorità della politica strategica di difesa dell'Australia.

Tutte le altre spiegazioni, precisazioni, motivazioni etiche vengono in second'ordine, fanno parte di continui aggiustamenti di posizione del governo e anche commentatori favorevoli all'intervento militare le hanno a volte giudicate inopportune, malposte e maldestre.

Ma l'alleanza con gli USA è fuori discussione e l'Australia fa parte a pieno titolo della "Coalition of the Willings" ed è parte belligerante, con uomini e mezzi sul teatro delle operazioni.

La crociata

A dirigere le operazioni è il generale Cosgrove, capo delle forze armate australiane, già eroe pluridecorato del corpo di spedizione a Timor est (2).

La presenza australiana in Iraq, circa duemila uomini, è quasi simbolica, se rapportata alle centinaia di migliaia di soldati statunitensi e britannici, ma ugualmente una presenza di grande significato politico: l'Australia fa parte a pieno titolo della coalizione, come il presidente Bush ha voluto riconoscere in varie occasioni.

Il personale australiano utilizzato è di altissima specializzazione e il comando di questo corpo di spedizione è indipendente, anche se le mosse strategiche sono decise dal comando centrale in mano agli americani.

I media australiani, come in tutto il mondo, in questi giorni hanno dedicato ore e ore e pagine e pagine alla guerra. Reportage, corrispondenti, commenti, dettagliate descrizioni dell'equipaggiamento utilizzato. Ma quanto a sapere quali fossero gli obiettivi militari del corpo di spedizione australiano, non è dato saperlo. I movimenti dei soldati della federazione sono coperti dal segreto militare, con il pretesto che trattandosi di corpi speciali, le loro mosse non possono essere anticipate. L'unica notizia di qualche rilievo trapelata fra le maglie del riserbo è relativa al rifiuto di attaccare un obiettivo indicato dagli americani. A quanto pare gli australiani hanno rinunziato ad attaccare un sito in mancanza di dati certi sulla sua rilevanza strategica e sulla posizione dei civili.

Notizie trapelate durante i primi giorni, testimonianza forse di una iniziale mancanza di sintonia sul campo fra i comandi, dovuta, qualcuno dice, al fatto che l'esercito australiano applica un codice di condotta più rigoroso degli anglo-americani per garantire il minimo impatto sui civili.

Dopo di allora il silenzio, imposto dal governo australiano, imbarazzato dalle notizie di dissapori al fronte fra i membri della coalizione.

Ad oggi non si hanno notizie di soldati australiani ferito o uccisi in Iraq, il che sembrerebbe confermare che questi corpi non sono in prima linea ma vengono utilizzati per le operazioni specializzate per le quali sono particolarmente addestrati.

Il dibattito

Durante tutta la fase precedente lo scoppio del conflitto il dibattito è stato intensissimo. Sulla stampa, nelle tribune televisive, nelle aule universitarie. Articoli di autorevoli politologi, professori, commentatori e artisti hanno riempito i giornali. Assemblee si sono tenute un po' dappertutto. La sensazione è stata di grande tormento.

Il governo ha intentato un'opera di convincimento sgranando gli argomenti man mano che venivano forniti da Bush: le armi di distruzione di massa, la necessità dell'attacco preventivo, l'importanza di abbattere il tiranno e liberare il popolo iracheno. Argomenti analoghi a quelli utilizzati in tutto il mondo.

Emissari governativi sono stati inviati all'ONU, sperando fino all'ultimo in una soluzione a livello di Nazioni Unite. Ma Howard non ha esitato comunque ad affiancarsi alle decisioni statunitensi, nel momento in cui questa opzione è naufragata. In questo il primo ministro ha dimostrato coraggio politico e spregiudicatezza, scavalcando il parlamento, come i poteri conferitigli gli consentono, e che nella sua maggioranza, all'epoca, non era favorevole all'intervento.

Il fronte degli intellettuali si è interrogato a lungo e tormentosamente, sulla legittimità, moralità e necessità dell'intervento. Più d'uno ha sostenuto che l'intervento non era legittimo, non era giustificato, perché non vi era evidenza del possesso delle armi di distruzione di massa, ma era tuttavia necessario per far cadere la tirannia.

L'opposizione politica e intellettuale alla guerra non è stata particolarmente dettata da posizioni pacifiste tout court, ma si è piuttosto concentrata sulla illegittimità di un intervento senza mandato da parte delle Nazioni Unite. Il timore più diffuso è stato quello di un'Australia che si pone al di fuori della legittimità internazionale, che attacca deliberatamente un paese sovrano senza esserne stata minacciata. Ciò è stato spesso additato come motivo di vergogna nazionale.

Il dibattito ha preso una piega diversa dopo lo scoppio delle ostilità. La macchina propagandistica si è messa in moto e il governo ha saputo efficacemente richiamare gli australiani al loro patriottismo. Molti che in linea di principio erano contrari all'intervento hanno deciso di interrompere la loro ostilità, perché "ormai ci siamo dentro" e "i nostri uomini sono al fronte". Ormai bisogna ballare. La vecchia idea che, una volta in guerra, tutto il paese deve schierarsi al fianco dei propri uomini, mostrare coesione, amor di patria, è ancora di moda.

Molte certezze si sono poi incrinate di fronte alle notizie sempre più frequenti di massacri di civili, ma le folle inneggianti l'arrivo degli alleati a Baghdad hanno dato respiro ad una improvvisa, esaltata campagna su praticamente tutti i media. Dimenticate le obiezioni in merito alla legittimità e moralità della guerra, gli opinionisti sono passati a santificare senza esitazioni l'esercito di liberazione che ha posto fine al tiranno e "avviato un'era di prosperità e democrazia per l'Iraq".

Un'ondata di temibile orgoglio nazionale si riversa dai giornali sul Paese: l'idea che anche l'Australia abbia contribuito alla caduta delle statue mette in secondo piano le bombe, le distruzioni, il terrore. Vittime eccellenti di questa campagna di stampa sono, in questo momento, le Nazioni Unite e la Francia, attaccata con particolare virulenza, non comune in editorialisti e opinionisti dallo stile solitamente asciutto e moderato.

I Partiti

La politica australiana è stata fortemente condizionata dagli avvenimenti internazionali, a partire dai fatti dell'11 settembre. L'alleanza strategica con gli Stati Uniti, che come si ricorderà ha portato il paese ad una immediata adesione alla "War on Terror" lanciata da Bush, ha fatto temere che anche l'Australia potesse essere vittima del terrorismo internazionale. Timore alimentato dal governo con una campagna informativa che è giunta in tutte le case, a giustificazione di un incremento della repressione e del controllo interno.

La convinzione è stata rafforzata in occasione dell'attentato al Sari Club di Bali, dove hanno perso la vita molti australiani, fra cui alcuni popolari giocatori di football, e che è stato qui raffigurato come un atto terroristico principalmente in chiave anti-australiana.

In questo quadro politico i partiti fanno fatica a differenziarsi. Tuttavia il dibattito è stato aspro.

I membri della coalizione al governo federale appoggiano ora senza tentennamenti la linea scelta dal governo, ma non hanno visto di buon grado il parlamento completamente ignorato nella fase decisionale. Il partito laburista, maggior partito d'opposizione, si presenta con un leader, Simon Crean, tentennante. Crean ha avuto espressioni di condanna ma è anche andato a salutare le truppe in partenza per il fronte, nel tentativo di mostrare contemporaneamente opposizione alla guerra e solidarietà nei confronti degli australiani impegnati al fronte. La stessa condanna della guerra non è stata priva di ambiguità (citiamo dal discorso di Crean dopo l'annuncio della partecipazione australiana: "siamo d'accordo sugli obiettivi ma non sui mezzi scelti"… "l'azione del governo ci rende meno sicuri nella regione, trasformandoci in un possibile obiettivo", ecc.). e dopo l'occupazione di Baghdad e le scene di giubilo Crean ha tentato alcuni dietrofront che hanno fatto infuriare vari membri del suo partito e sorridere i suoi oppositori politici, fornendo il pretesto per nuovi attacchi da parte della destra. A livello locale le posizioni di questo partito sono ancora più differenziate e mentre il premier laburista del New South Wales (Sydney) manda la polizia a impedire le manifestazioni di protesta, importanti esponenti laburisti del Victoria (Melbourne) partecipano alle marce pacifiste.

Solo i verdi hanno espresso una chiara e netta posizione contraria all'intervento militare e sono presenti con le proprie insegne in tutte le manifestazioni. Questo partito, ancora poco rappresentato in parlamento a causa del sistema maggioritario uninominale, sta lentamente raccogliendo il voto di protesta dei tanti laburisti delusi dalle ambiguità politiche del proprio partito.

Chiara, militante e intransigente contro la guerra, è la posizione dei piccoli partiti dell'estrema sinistra. Da qui vengono le analisi più lucide e spregiudicate, che mettono a nudo senza esitazione gli aspetti più torbidi della faccenda, attaccando l'affarismo ammantato di solidarietà e denunciando le brutalità della guerra. Purtroppo il linguaggio utilizzato, la netta ostilità verso gli Usa, le simpatie per una vecchia retorica di stampo marxista-leninista, rischiano spesso di inficiare l'efficacia di tali analisi o perlomeno la presa che possono avere sul pubblico australiano.

Statistiche

Allo scoppio delle ostilità le statistiche indicavano chiaramente che gli australiani erano, in larga maggioranza, sfavorevoli ad una partecipazione in questa guerra. La percentuale andava oltre il 75%, se si consideravano coloro che, in linea di principio, non si opponevano alla guerra purché fosse combattuta nel quadro di un mandato delle Nazioni Unite.

La fanfara militarista ha però suonato con grande trambusto le sue trombe. La trasformazione delle motivazioni della guerra, cominciata come "preventiva" per eliminare le armi di distruzioni di massa irachene, continuata per liberare gli iracheni dall'oppressione del Rais, ha finito per rendere le obiezioni iniziali meno attraenti. E le folle di iracheni giubilanti hanno convinto molti della opportunità, se non della legittimità, di questa guerra. Così adesso gli istituti di statistica registrano che ormai più del 50% degli australiani è favorevole all'intervento e sostiene la politica del governo federale.

Al di la delle statistiche, è interessante vedere le opinioni dei cittadini. Le ampie rubriche delle lettere di tutti i quotidiani, piene di commenti sulla guerra, sono un osservatorio di grande interesse: la guerra è ormai da tempo l'argomento principale su cui la gente scrive.

Un confronto fra le lettere scritte ai quotidiani in quest'ultimo mese e mezzo, è impressionante. Il dubbio tormentava gli australiani prima dello scoppio del conflitto. L'indignazione è stato il tema predominante dei primi giorni di guerra, montata con le notizie dei massacri, assieme alla vergogna per aver portato il paese ad intervenire al di fuori da ogni legittimità. Pochi mostravano di appoggiare il governo, a fronte di una valanga di dissenzienti. Ma il tono è cambiato e i rapporti di forza si sono invertiti al momento in cui gli iracheni sono scesi per le strade a salutare le forze anglo-americane come liberatori. Allora i favorevoli e, forse, gli ex-contrari sono scesi in campo con veemenza e inusitata aggressività. Commenti trionfalistici sono stati conditi dall'urgente necessità di mettere alla berlina, con ogni sorta di aggettivo utilizzabile, i contrari, i pacifisti, descritti come patetici, risibili rappresentanti di una vecchia sinistra malata di inguaribili pregiudizi anti-americani. E gli USA sono stati santificati come portatori di civiltà e democrazia nel mondo, disposti a sacrificare le vite dei propri uomini a questi santi compiti.

In questo quadro, vedere alcuni resistenti che continuano a cercare di ragionare, inviando brevi lettere di sensati e moderati commenti, cercando di mettere in luce gli aspetti grotteschi e torbidi di questa guerra, è quasi commovente.

Bring The Troops Home (3): il movimento per la pace.

L'adesione dell'Australia alla politica statunitense del dopo undici settembre è stata immediata e pratica: il 18 ottobre 2001 il Primo Ministro Howard annunciò la partenza di un corpo di spedizione di 1550 uomini e mezzi per l'Afghanistan. I soldati australiani dovevano combattere a fianco degli americani e così fecero. Particolarmente addestrati per la guerra in condizioni tattiche difficili, quei militari si trovano ancora impegnati in territorio afghano.

All'epoca vi fu ben poca mobilitazione nel paese. L'ondata di emozione provocata dalla caduta delle torri gemelle era forse ancora troppo fresca e l'assalto all'Afghanistan sembrava avere una più solida legittimità.

Invece la paventata partecipazione all'intervento "preventivo" in Iraq ha provocato ben altra reazione. In momenti meno drammatici sarà importante analizzare la differenza fra questi due momenti, per chiarire quali radici e quale futuro abbia il movimento pacifista australiano.

Sta di fatto che, in questo caso, il fronte pacifista si è immediatamente attivato con grande efficacia. Si sono formati in tutto il paese comitati per la pace in cui hanno confluito associazioni e gruppi, sia laici che religiosi, nonché semplici cittadini indignati dalla piega che gli avvenimenti stavano prendendo. Fra questi anche veterani della prima guerra del golfo, che come gesto di protesta hanno restituito al governo le decorazioni conseguite all'epoca.

Sono state promosse assemblee, dibattiti, veglie, incontri e marce. La partecipazione alle manifestazioni precedenti l'intervento è stata massiccia: si calcola che complessivamente abbiano sfilato nelle strade delle città più importanti circa un milione di australiani. Quasi un australiano su venti ha espresso il proprio dissenso. Senza dubbio le maggiori manifestazioni pacifiste mai tenutesi in questo paese.

Prevedendo il precipitare degli avvenimenti, i comitati pacifisti hanno preventivamente stabilito orari e luoghi di riunione per il giorno il cui la guerra fosse scoppiata. Ed è così che quel giorno sono scesi in piazza decine di migliaia di cittadini, i primi a manifestare nel mondo in forza di questo stratagemma e del fuso orario.

Il movimento contro la guerra si è strutturato con notevole efficacia in comitati nazionali (nei vari stati della federazione) e gruppi locali. I comitati si occupano di coordinare gli eventi più importanti, diffondere le informazioni, pubblicizzare le iniziative, promuovere gruppi locali, predisporre e distribuire materiale informativo. I gruppi locali, comunque totalmente spontanei e indipendenti, organizzano iniziative rivolte al territorio in cui operano. Nelle scuole e nelle università è stata lanciata la campagna "Books not Bombs" (4), che ha portato più volte gli studenti nelle strade. Importanti sindacati si sono mobilitati.

Una presenza permanente di pacifisti è stata assicurata davanti ai più importanti consolati americani e i movimenti del primo ministro sono sottolineati da gruppi di manifestanti che si fanno trovare pronti davanti alle varie sedi che deve visitare.

Dopo lo scoppio della guerra hanno continuato a tenersi in tutto il paese marce per la pace, con una partecipazione a tratti piuttosto rilevante.

Il tema centrale è l'indignazione per un intervento che si ritiene illegittimo, ingiustificato e brutale. Gli interventi dei vari oratori sono sempre caratterizzati dalla denuncia degli orrori della guerra, dalla drammaticità di sentirsi complici dei massacri di civili perpetrati. Dall'urgenza di spingere il Governo a ritirare le forze impegnate sul teatro di guerra.

Se si tiene presente che dietro al movimento non ci sono i partiti con i loro apparati, bisogna ammettere che la partecipazione popolare è notevole. Si tratta di una partecipazione in gran parte spontanea, non dettata da un senso di appartenenza ai vari gruppi promotori ma dall'urgenza di esprimere la propria opposizione alla guerra. In tanti sfilano silenziosi con cartelli artigianali e slogan personalizzati.

La nonviolenza non rientra nel linguaggio utilizzato, ma le manifestazioni sono state fin qui ordinate e pacifiche, con dignità a compostezza anche davanti alle squadre antisommossa e ai poliziotti a cavallo. I soli incidenti di rilievo si sono verificati a Sydney, durante un marcia, ma ad essere messa sotto accusa è la polizia, responsabile di provocazioni e aggressioni che hanno causato feriti, contusi e centinaia di fermi, fra cui molti insegnanti. Tutta gente che è improbabile far passare per facinorosi estremisti e che ora mette sotto accusa, pubblicamente, il comportamento della polizia.

Il movimento contro la guerra, insomma, è cominciato con tempestività ed efficacia, sostenuto inizialmente da una grande maggioranza di australiani sfavorevoli all'intervento.

Ha retto agli appelli accorati e insensati dei molti che hanno richiamato all'unità nazionale nel momento in cui la guerra è scoppiata. Un coro di politici, intellettuali e semplici cittadini che in nome di un malinteso patriottismo hanno chiesto ai pacifisti di tacere, ritenendo che, iniziata la guerra, il ruolo del movimento fosse venuto meno.

Adesso il movimento sta attraversando la fase più difficile. L'urto della propaganda, particolarmente violento nei giorni della "caduta delle statue", ha fatto vacillare fortemente il sostegno. Ora che la maggioranza degli australiani sembra essere favorevole all'intervento, è diventato più difficile chiedere di continuare a sfilare per la pace. Si tende a ridicolizzare i pacifisti, accusandoli di aver difeso il regime iracheno. La ragionevolezza dei primi giorni sembra essere venuta meno.

Un importante banco di prova si è avuto la Domenica delle Palme, giornata in cui tradizionalmente si tengono in tutto il paese iniziative e marce per la pace promosse dalle varie chiese cristiane. La partecipazione quest'anno è stata al di sotto delle aspettative, inferiore a quella del 2002, quando il tema delle marce era la solidarietà con i rifugiati. Diecimila manifestanti a Sydney, cinque / seimila a Melbourne, dove un corteo "laico" si è unito a quello ecumenico per marciare assieme con grande compostezza e concludere con un comizio comune sotto una pioggia torrenziale, un vero fortunale sotto il quale nemmeno i tanti anziani e le mamme con bambini hanno fatto un passo indietro.

Un bell'esempio. Ma come ha sottolineato il commentatore di una TV nazionale: "la passione c'è ancora ma i numeri non ci sono più". I numeri parlano dell'attuale difficoltà del movimento pacifista a far sentire la propria voce nella generale gazzarra pro guerra.

Alla marcia di Sydney è intervenuta dal palco Donna Mulhearn, 34 anni, coraggiosa pacifista australiana rimasti a Baghdad sotto i bombardamenti per partecipare allo "Human Shield Project" (5). Il rimpatrio della Mulhearn è stato deciso affinché potesse portare fuori dall'Iraq la propria testimonianza. E la sua testimonianza è stata drammatica e chiaro il messaggio: "chiunque sia favorevole a questa guerra dovrebbe trascorrere qualche minuto in un ospedale di Baghdad, per vedere con i propri occhi gli effetti devastanti dei bombardamenti".

Il ruolo dei media

Del resto di che ci si deve stupire? Chi partecipa ad una di queste manifestazioni e corre poi ansiosamente a vedere come TV e giornali riportano l'avvenimento, resta inevitabilmente deluso. Trafiletti in cronaca, dopo sei, sette pagine interamente dedicate alla guerra. Brevi notizie nei telegiornali della sera dopo almeno venti minuti di cronache, commenti, reportage dal fronte. La notizia della manifestazione c'è, ma le motivazioni mancano. Nessun giornale dedica almeno una pagina o qualche editoriale alle motivazioni della pace. I giornali alternativi (Green Left Weekly, Socialist Worker, ecc.) non si trovano nelle edicole, si basano sulla diffusione militante ed hanno una circolazione limitata. Il movimento combatte contro un'informazione unilaterale, contro argomentazioni puerili ma di grande effetto (è più facile vestire i panni degli eroi che quelli degli invasori). Questa è apparentemente la fase più difficile e continuare ad avere un nucleo forte di aderenti, continuare a portare gente in piazza, nelle attuali condizioni, sarà di per se già un successo.

A questo quadro vanno aggiunti gli appelli che il governo ha inviato ai media verso la fine di marzo, quando ormai si era invasi da notizie e immagini di massacri di civili. Il governo ha ritenuto queste immagini lesive e controproducenti, richiamando alla memoria le accuse di "disfattismo" così comuni nella seconda guerra mondiale. Giornali e televisioni sono state invitate alla moderazione, ad evitare di insistere su immagini drammatiche, per non creare ostilità nei confronti delle forze armate. E i media si sono allineati, a dispetto delle proteste dei giornalisti operativi in prima linea.

Ipocrisie governative

E' appunto così che le difficoltà iniziali del governo Howard si sono tramutate nei suoi punti di forza.

Infatti l'adesione dell'Australia alla coalizione interventista è apparsa subito molto debole. Molti hanno temuto che il paese si coprisse di vergogna per un attacco ingiustificato, una guerra preventiva di cui mai prima si era sentito parlare. Alcuni osservatori hanno anche temuto un raffreddamento delle relazioni con i vicini paesi asiatici, che potrebbero preoccuparsi di un'Australia pronta ad appoggiare in maniera spregiudicata la dottrina americana.

Una volta saltata l'ipotesi di una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il governo ha cercato di puntellare la propria posizione in primo luogo sostenendo che la legittimità dell'intervento è assicurata dalle vecchie risoluzioni, ancora in vigore. In secondo luogo affermando che si trattava di una decisione a difesa della sicurezza nazionale, perché i legami fra il governo iracheno e Al Queda comportavano il rischio che l'organizzazione terroristica avrebbe potuto approvvigionarsi di armi di distruzioni di massa, da utilizzare poi anche contro l'Australia. Infine adducendo che l'attacco era comunque moralmente giustificato perché si trattava di aiutare il popolo iracheno a liberarsi dalla tirannia di Saddam Hussein.

Le dichiarazioni di Howard sulle presunte minacce all'Australia erano troppo vaghe e prive di elementi di sostegno e le preoccupazioni del governo per la pace e la libertà del popolo iracheno sono apparse a molti particolarmente risibili e ridicole. Persino intellettuali favorevoli alla guerra le hanno trovate insopportabili da parte di un governo che impedisce sistematicamente, da anni, l'approdo in Australia di navi piene di profughi afghani e iracheni.

Se il governo avesse voluto esprimere solidarietà al popolo iracheno, avrebbe dovuto anzitutto provvedere all'asilo di molti che hanno speso ogni avere e affrontato pericolose traversate per approdare sulle coste australiane. Ma questi richiedenti asilo, spesso oppositori del regime di Baghdad, sono stati sistematicamente respinti, trasportati in isole inospitali del pacifico e persino rimandati in Iraq, dove con ogni probabilità sono finiti tra gli artigli del regime. Allora da cosa deriva questo improvviso spirito umanitario che anima il governo? Perché questo slancio di solidarietà che si spinge fino a mettere a rischio la vita dei soldati australiani? Cosa ha spinto il governo a dividere gli australiani su una questione tanto delicata?

Il cagnolino di Bush fiuta affari d'oro

Rispondere a queste domande non è affare da poco e ogni risposta semplicistica rischia di essere riduttiva. Probabilmente si tratta di un complesso di motivazioni, che in parte devono ancora essere chiaramente enucleate. Proviamo ad esporne alcune.

L'alleanza strategica con gli USA, di cui abbiamo parlato in altre occasioni, resta un punto centrale e imprescindibile della linea politica di questo governo. Per mantenere questa alleanza il governo è disposto a perdere credibilità su altri fronti, incluse le Nazioni Unite e i vicini asiatici.

Il discorso con cui il primo ministro ha annunciato l'entrata in guerra dell'Australia a fianco di Usa e Gran Bretagna non lascia dubbi in questo senso. L'impegno australiano è stato richiesto personalmente dal Presidente Bush, che non si attendeva certo un rifiuto (6). Infatti è bastato lo spazio di una mattinata, una breve riunione del Consiglio dei Ministri, per decidere l'ingresso in guerra.

La certezza della vittoria, vista la preponderanza in uomini e mezzi dell'alleanza, ha spinto Howard ad assumere questa decisione anche contro la maggioranza del paese. Il leader dei Verdi, Bob Green, aveva detto: "Questa non è una guerra dell'Australia. E' una decisione impopolare e depreda gli australiani della possibilità di avere su questo tema un confronto democratico. Il primo ministro dice di parlare in nome degli australiani. Ma non è vero. Parla solo a nome del 22% della popolazione". Ma Howard ha affermato. "il tempo mi darà ragione e quelli che oggi sono contrari, cambieranno idea". Le statistiche sembrano dargli ora ragione.

Ma secondo alcuni osservatori l'alleanza con gli USA non è gratuita. Politici laburisti ed esponenti della Chiesa cattolica hanno affermato che il governo avrebbe negoziato la partecipazione delle truppe in cambio di una rapida definizione dell'accordo sul libero scambio fra Australia e Usa, le cui trattative sono state appena avviate. L'accordo, cui i protezionisti americani si oppongono, sarebbe una contropartita per i servizi resi sull'Iraq. Secondo Craig Emerson, ministro-ombra per il commercio, laburista, le due parti hanno esplicitamente, e in numerose occasioni, collegato i negoziati all'alleanza militare. Sullo stesso piano si muovono le dichiarazioni di Marc Purcell, direttore esecutivo della Catholic Commission. Ma naturalmente su questo punto il governo smentisce decisamente, sostenendo che i due aspetti non hanno nulla in comune.

Un terzo aspetto che naturalmente non può essere sottovalutato riguarda il periodo post-bellico. Come è facile intuire l'Australia è in prima fila per la ricostruzione. Accordi in tal senso sono già stati conclusi. Vari esponenti del governo hanno rilasciato dichiarazioni in tal senso. Non sarà certo un caso che la grande industria sia fra i sostenitori più convinti di questo governo conservatore. E non bisogna trascurare il fatto che l'economia australiana, sempre in crescita nel decennio precedente, sta ora dando segnali di crisi.

Ed ora?

Il sostegno alla strategia statunitense globale da parte dell'Australia è fuori discussione. Il governo australiano non ha neanche intentato i sottili distinguo che hanno differenziato la posizione britannica sulla questione della Siria.

La mancanza di vittime fra i soldati australiani, l'apparente sostegno delle popolazioni irachene e il tempo giocano a favore del governo, che conta su questi fattori per rafforzare il sostegno da parte della popolazione.

Se la guerra preventiva inventata da Bush sarà la cifra interpretativa di questo scorcio di secolo, se l'aggressione tesa a ridisegnare i rapporti di forza continuerà in Siria e altrove, indubbiamente l'Australia sarà ancora in prima linea.

Quale sarà la tenuta del movimento contro la guerra è difficile dirlo. Nei prossimi giorni si vedrà se a sfilare per le strade resteranno pochi irriducibili o se la partecipazione sarà nuovamente ampia. Molto dipende dalla piega che prenderanno gli avvenimenti. Ma anche dalla capacità del movimento di far giungere al pubblico australiano un messaggio chiaro, una analisi seria capace di incrinare le certezze sorte in tanti grazie alle immagini degli iracheni in festa. Un messaggio che deve rompere il semplice e puerile schematismo per presentare la complessità della situazione, che la grande maggioranza degli australiani ignora (a partire dalla questione curda, qui pressoché sconosciuta).

Si dovranno anche trovare i canali adatti per trasmettere questo messaggio, che fatica a passare attraverso i media ufficiali.

Ci si dovrà anche chiedere in che modo consolidarsi come movimento autenticamente pacifista, anche oltre l'attuale fase di emergenza. In questo paese il movimento pacifista emerge in occasione di situazioni di crisi per poi scomparire e riemergere alla crisi successiva. C'è invece bisogno di un movimento che resta, che continua a elaborare piattaforme e proposte pacifiste, portando nel dibattito le sue molte anime. Ce n'è bisogno per contrastare questa militarizzazione del pensiero che ha riportato ormai il tema della guerra giusta a pieno titolo nella politica, con grande soddisfazione delle elite militari e dei commercianti di morte, che anche qui non mancano.

 

Note

(1) "I thought you were our servant, not the poodle of Bush". Difficile rendere efficacemente in italiano l'espressione inglese che si basa su vari doppi sensi. "Servant" è colui che è al servizio del popolo ma anche il domestico. E "poodle" (barboncino) si usa anche nel senso di leccapiedi o peggio. torna al punto
(2) Si veda in merito l'articolo pubblicato sul sito di REDS su "Indipendenza di Timor Est e ipocrisia dell'Australia". Avevamo previsto, all'epoca, che la nomina di Cosgrove a capo delle forze armate era il preludio di nuovi e più incisivi interventi militari dell'Australia.torna al punto
(3) "riportiamo a casa le truppe", è lo slogan del movimento contro la guerra. torna al punto
(4) "Libri, non bombe". torna al punto
(5) Progetto scudi umani, di cui la stampa ha ben poco parlato. I coraggiosi pacifisti si recano in aree civili durante i bombardamenti come deterrente e per recare un messaggio di solidarietà agli iracheni. torna al punto
(6) Nel messaggio alla nazione Howard ha detto esplicitamente: "la decisione di impegnare le nostre truppe è stata presa nel corso del consiglio dei ministri, questa mattina, a seguito di una conversazione telefonica fra me e il Presidente Bush". torna al punto