La cravatta

Che bella quella cravatta. Era un regalo di Lia. Ricordo quando la ricevette, Cristo! più di 20 anni fa, stavano da poco assieme. Ugo non era più lo stesso, pensava che la vita correva, forse troppo veloce. E non aveva torto. Era stanco, sul lavoro pareva non esistesse più. Un fantasma, ogni mattina sapevi che era lì, al suo posto dietro la scrivania, una soglia, un limite, un angoscioso buco nero. Mai un commento, mai qualcosa che gli andasse male, non c'era; rinchiuso nei suoi silenzi ed in quel tacito male che lo divorava giorno dopo giorno. Non mangiava più, colpa della testa che gli faceva pesare l'opulenza di sta civiltà. Era schifato dinanzi agli sprechi, mentre in gran parte del mondo la gente moriva di fame. Provai a parlargli dell'assurdità del suo gesto, che c'erano mille modi per dissentire da quel sistema che stritolava i più deboli. Non voleva sentire ragioni. Lo costringevo a forzate colazioni, sorrideva davanti un tiepido caffelatte e dolci che diventavano rancidi; subito dopo arrivava puntuale il pentimento, la punizione, l'espiazione. Due dita in gola e la coscienza a posto. Lia non sapeva più cosa fare, il dottore disse che era affetto da anoressia. Cercavano le cure adatte al suo tormento. Io lo sapevo, digeriva il niente, quel niente che sembrava persino troppo alla sua invisibile pienezza. Era un male diverso a tormentarlo. Lia piangeva, aveva capito che Ugo non voleva vivere più, ma non si rassegnava. Ugo volle dormire, dormire per sempre con la cravatta che tanto amava. Il nodo fu sciolto, ed un'umanità asfittica piangeva.

 

 

 

 

 

 

Anno Domini 1859

Daje, de qua, de qua! Febbrili correvano sull'erta alla vista dei primi mercenari. Avvertite il palazzo, presto. La pioggia cadeva costante sui destini degli uomini, da sempre presagio e lavacro. Il cardinale decise: pugno di ferro per l'Augusta città. I mercenari avevano il compito di fornire l'esempio a chiunque mostrasse in futuro disobbedienza. Dovevano distruggere, uccidere, saccheggiare. Era meriggio, al Frontone s'aspettava. Una trincea sulla ripida erta, poco prima delle mura, non placò la moltitudine predatrice. Dovettero ripiegare dopo nervosi scambi di colpi, erano troppi, addestrati alla guerra, ed in campo aperto. Daje de qua, su per la porta, daje, chiudete presto..... Dentro le mura si cercava di opporre una disperata, strenua resistenza, l'Augusta sapeva che era il tempo della punizione. La porta resistette anche alle potenti cannonate, non al tradimento. I mercenari irruppero da una porta dal monastero di S. Pietro, i difensori dovettero prendere la via del Bulagaio per scampare alla certa fucilazione. A tardo pomeriggio Augusta tacque, non si sentiva più un colpo, borgo S. Pietro era silente, era il preludio della vendetta. L'orda diede inizio al saccheggio, sfondando portoni, entrando nelle case. Dalle finestre cominciò la rivolta del borgo, dalle tegole si passò agli scontri a fuoco. Fu strage. I mercenari sparavano su tutte le case, iniziò la caccia all'uomo. Fu strage. Bandiera bianca dal palazzo, bandiera bianca cittadini, bandiera bianca soldati, s'affannava per Sant'Ercolano, e con essa fu ammazzato. Un sussurro tra le vie, i nervi, le case: il grifo c'ha l'ugne sulla tiara.

Giammarco De Vincenzo

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