A me pare che a questi dati (vedi L'infanzia nel mondo e nel nostro paese) si debba prestare una severa attenzione perché - in un tempo che non ha più profeti - la situazione di vita dei bambini e la follia distruttrice che si compie intorno a loro e contro di loro assume davvero, in qualche modo, la funzione che fu della profezia. Mostra e ammonisce. E mostra che troppe volte essi sono merce e troppe volte essi sono imbottiti di merci. Mostra che siamo una specie che attacca i nosti figli; non li proteggiamo davvero, non li aiutiamo a crescere e non sappiamo preparare né garantire un mondo migliore alla nostra discendenza.
E ammonisce su un destino fosco per le nostre civiltà.
Se vogliamo leggere i dati come una profezia, essa contiene un potente monito che chiama, però - se non si vuole restare indifferenti o impotenti - a una qualche reazione, a un riscatto di qualche tipo. Il riscatto può essere sognato oppure deve muoversi nel mondo del possibile.Che fare?
Come persone del nostro tempo, possiamo, certo, indignarci per un sistema economico e sociale dominante nel mondo che produce una realtà molte volte terribile e troppo spesso priva di prospettive per la nostra specie, possiamo studiarlo per capirne molti come e perché e, magari, per impegnarci per una via di uscita globale, se crediamo in questa possibilità.
Ma intanto siamo chiamati a continuare il nostro lavoro di educatori. E come educatori, forse, una descrizione sommaria della situazione può, in qualche modo, servire per riconoscere le nostre difficoltà entro un quadro ben più ampio e per riflettere utilizzando categorie che vanno ben oltre quelle imposte dal solo dibattito contingente nel nostro paese o dalla pratica nella nostra scuola. Forse possiamo dare maggiore senso al nostro mestiere, al nostro operare, se partiamo da categorie più universali, che, cioè, vengono utilizzate nel mondo transculturalmente, nei diversi contesti. Forse possiamo scegliere di far parte di un modo di essere maestre e maestri - che va diffondendosi nel mondo e soprattutto nei luoghi del disagio e dell'esclusione - che parte dalle esigenze, dai bisogni, dai problemi da risolvere e non dagli assetti della scuola già costituiti.
In tanti non crediamo più che ci siano strade predefinite, precetti sicuri e rassicuranti.
Ci servono nuove categorie a cui riferirci.
La categoria che vorrei proporre qui è quella dell'empowerment. Eccone una breve definizione: è un costrutto complesso che indica l'insieme di conoscenze, di modalità relazionali, di competenze che permette a individui e a gruppi di porsi obiettivi e di elaborare strategie per raggiungerli utilizzando le risorse esistenti. Questa definizione transculturale ci suggerisce gli ingredienti necessari per mettere in moto un processo attivo teso ad affrontare una situazione di disagio, per esempio, in Uganda, in Colombia, nella periferia di Liverpool o nel nostro quartiere.
E ci dice che dobbiamo sempre vedere i bambini e i ragazzi come possibili protagonisti, risorse partecipanti attive e creative e non come oggetto di misure e di dispositivi. Di più: dobbiamo noi stessi ogni volta ideare, costituire e fabbricare insieme ai bambini e ai ragazzi un campo di azione comune, un power/potere attivato insieme.
La nozione di empowerment non elide la funzione educativa adulta ma spinge gli adulti educatori a misurarsi sempre con quello che i bambini sono effettivamente, con quello che esprimono, con le loro aspirazioni e competenze e bisogni e sofferenze così come entrano in gioco nella relazione educativa e non secondo idee e piani stabiliti prima dell'incontro e indipendentemente dal lavoro educativo vivo.
Nell'empowerment l'attenzione si focalizza sulle risorse entro la relazione, sul muoversi e sul dislocarsi di competenze e conoscenze in un work in progress continuo, che cerca la soluzione dei problemi con molta determinazione ma passo passo e senza ricette né in base a modelli precettivi preparati. Cerca insieme risorse e soluzioni ma in modo non protetto e mai all'esterno del campo di azione.
Certo, si possono e si devono ipotizzare strategie, si possono e si devono immaginare piani e disegnare modelli, ma a condizione che si sia disposti a misurarli con i compiti che scaturiscono dall'azione che prende corpo nel campo comune.
L'empowerment ci indica una strada reattiva. E ha il vantaggio di non avere ambizioni totalizzanti: noi o i nostri colleghi ugandesi o colombiani o inglesi - quando affrontiamo un processo di empowerment - non ci dobbiamo dare il compito di costruire una risposta onnicomprensiva a un mondo ingiusto ma di proporci obiettivi nell'ambito della nostra sfera di educatori in una data situazione ed entro il muoversi effettivo della relazione educativa. Dobbiamo semplicemente usare, con realismo, al meglio, da professionisti del nostro settore o, se vogliamo, da esperti del nostro mestiere, le risorse disponibili, concentrandone l'impatto sui problemi maggiori, moltiplicando tutte le pratiche che si rivelano buone e tralasciando, per economia della nostra azione, quelle meno buone.
Di fronte al disagio, a un tempo acuto e cronico, del nostro quartiere e all'esclusione di molti suoi bambini e ragazzi dalle opportunità della vita, dobbiamo costruire un nostro empowerment a cui attribuiamo collegialmente valore primario, al di là delle circolari che ci arrivano, delle abitudini che abbiamo dovuto o voluto consolidare in passato, delle pressioni e delle distrazioni esterne rispetto alle nostre priorità decise con l'attenzione rivolta ai bambini e ai ragazzi.
E' tempo di descrivere i nostri movimenti insieme a quelli dei ragazzi e dei bambini, di narrare la scuola a partire dai bambini e dai ragazzi e non a partire dalla scuola.
Si tratta di un capovolgimento di prospettiva a cui la logica dell'empowennent ci costringe: che fa Pasquale? Cosa sa leggere Francesca? Perché Anna va sempre nel bagno? Dove passa i pomeriggi Abdul? Cosa sa fare Mario che non ha mai fatto in classe? Cosa scrivono sui loro diari Antonia e Mara? Cosa fanno i ragazzi della classe quando organizzano il fantacalcio? Com'è che Salvatore non parla mai quando è interrogato e poi fa il narratore di storie quando gioca con i suoi compagni ai giochi di ruolo? Come mi inserisco io, come ci inseriamo noi in questo tessuto già così vivo e composito? O quale spazio intermedio proponiamo per offrire la cultura, il sapere, le conoscenze di cui vogliamo essere portatori?
Le risposte a queste e a mille altre possibili domande ci introducono in una catena di nuove domande e soprattutto di scoperte che a loro volta ci suggeriscono appunto uno spazio intermedio e delle strategie e dei percorsi veri entro cui esercitare la nostra funzione. E ci fanno di nuovo educatori e artigiani creativi capaci di comunicare conoscenze.
C'è sempre qualcuno che si alza e obietta: ma così noi non stabiliamo cosa si deve sapere, così non si imparano mai i fondamentali, così la vera cultura resta fuori dalla porta. A volte ha un vero e legittimo timore la persona che obietta. A volte vuole solo salvaguardare la sua posizione consueta o più comoda e più protetta. Che siano obiezioni in buona o in cattiva fede poco importa. Sono fuorvianti. Quando noi chiamiamo un idraulico ad aggiustare lo scarico del lavandino, vogliamo che il lavandino sia aggiustato, in un modo o in un altro e l'idraulico deve mettere in essere un processo di empowerment finalizzato a compiere la cosa per cui è lì. A noi non interessa se ha la chiave inglese appropriata, se si è dimenticato la stoppa o il grasso e nemmeno se il lavandino ha caratteristiche tali per cui, paragonato ad altri lavandini, è difficile aggiustarlo. Noi pretendiamo un risultato, poi siamo chiamati a riflettere se è buono davvero o no, se è costato molto o no. E un esempio stupido, in qualche modo provocatorio. Se ne può fare un altro, meno provocatorio e più prossimo al nostro mestiere. Se i bambini della periferia di Dar Ei Salam parlano in swahili e devono imparare l'inglese entro i 12 anni a un determinato livello di competenza scritta e orale, la relazione educativa, i mezzi materiali messi a disposizione, la competenza didattica del docente devono essere concentrati - secondo la logica dell'empowerment - su quel compito.Ancora. Immaginiamo qualcosa di più vicino a noi. Immaginiamo una classe di prima media nel nostro quartiere. E l'inizio dell'anno scolastico. Dalle prove d'ingresso - e per riferirci solo alle competenze cosiddette tradizionali - i docenti capiscono che, su 20 ragazzi, 18 parlano sempre in dialetto, 16 fanno continui errori ortografici e di sintassi nella lingua scritta, 11 leggono meccanicamente ma comprendono solo testi semplici mentre altri 7 leggono male meccanicamente e stentano anche a comprendere testi facili, 8 non hanno consolidato le quattro operazioni e 13 non sanno le tabelline. Da altri elementi che iniziano a scaturire dalla relazione, i docenti apprendono che tutti guardano molte ore la televisione e hanno una buona conoscenza passiva della lingua nazionale, che molte ragazze ballano, cantano con le amiche o in chiesa e 5 sanno cucinare mentre tutti i ragazzi giocano bene a pallone e 9 dicono di interessarsi della meccanica dei ciclomotori. Quale è un possibile procedere secondo la logica dell'empowerment?
Innanzitutto bisogna poter coinvolgere emotivamente i ragazzi: la relazione in qualche modo precede la comprensione o quanto meno la condiziona potentemente. Su questo c'è assoluta unanimità in campo scientifico. A Liverpool, a Bogotà, a Dar Ei Salam o a Napoli - oramai si insiste, transculturalmente - se la relazione educativa prende a funzionare, anche il curriculare funziona meglio e se nel gruppo-classe si instaura una buona relazione tra pari l'effetto domino nei processi di apprendimento si duplicheranno e diventeranno sempre più rapidi. Su questo c'è spesso un "ma": la relazione è importante ma... E invece è la relazione la chiave di volta, il centro. La logica dell'empowerment dà gli ingredienti, aiuta ad attivare le risorse, permette di dare un ordine di priorità ma a partire dalla relazione.
Nel caso della prima media nel nostro quartiere si può guardare insieme Beautiful alla Tv e procedere, poi, a decifrarne il linguaggio, studiarne i personaggi, ricostruirne la storia; si può fare un campo scuola che serva per aprire l'anno scolastico fondandolo su un piano (li immediatezza che favorisca la relazione; si può iniziare da una vasta gamma di manipolazioni, anche da quelle meccaniche e di cucina e da li formalizzare algoritmi logici, descrizioni scritte e orali e nella prima lingua, il dialetto e nella seconda lingua, l'italiano. In generale, si può compiere la scelta di partire dalle competenze esistenti, per esempio quelle incentrate sulla manualità o sul canto o sulla danza o sullo sport o sull'uso della telecamera per costruire e poi manipolare immagini decise attivamente anziché subite solamente. Da queste e molte altre possibili cose si può partire per poi arrivare alle competenze richieste per lo scrivere, leggere e far di conto. Ma intanto si sono anche iniziate a costruire altre competenze, quali quelle del corpo, della manualità, della multimedialità, che, come è nel mondo contemporaneo, estendono la capacità di presenza e di comunicazione dei ragazzi ben oltre il modello trasmissivo verbale tradizionale. E, insieme, si può lavorare sulla coesione solidale del gruppo, docenti e docenti, docenti e ragazzi, ragazzi e ragazzi, dedicando molto tempo alla conversazione libera o al passeggiare nel quartiere o in città, o a piccoli gruppi, guidati o no, di self-help in cui ci si sente protetti dalla reciprocità e si può parlare a scuola di sé.
Ma con quali risorse fare queste cose in una prima media del nostro quartiere? Con quelle esistenti. C'è un'aula e ci sono vari spazi comuni a scuola, vi è il quartiere, e in esso associazioni e risorse con funzioni educative, e anche la città. Ci sono un tot di materiali didattici di facile consumo, un tot di laboratori già pronti quali la palestra o la sala computer. Ci sono, nel gruppo docente di questa classe, a disposizione 11 ore cattedra settimanali di materie letterarie, 6 di matematica e scienze, 3 di lingua straniera, 3 di educazione tecnica, 2 di educazione musicale, 2 di educazione fisica eccetera. Abbiamo 30 ore a disposizione, più eventuali altre in orario aggiuntivo, ogni settimana di docenti educatori. E i docenti posseggono, oltre alla loro specifica materia, anche competenze seconde e terze: tutti sanno l'italiano, tutti conoscono un minimo di matematica, alcuni sanno ballare o amano cantare o sanno cucinare eccetera. Il gruppo dei docenti, insieme, individua i problemi da risolvere e decide di concentrare l'impegno di tutti e di ciascuno che lavora con questa classe - secondo la logica dell'empowerment - sui nodi che i docenti dicono essere quelli cruciali: un comportamento accettabile, la coesione del gruppo, lo sviluppo graduale ma costante le abilità linguistiche in italiano, la formalizzazione dei procedimenti logici, il calcolo di base. E' a partire da questo che si formula l'orario scolastico dei ragazzi, le attività specifiche e i contenuti. E su attività e contenuti si elabora un iter che muove dalle competenze iniziali effettive e procede in avanti. Certo, vi saranno alcune invarianze: l'orario annuale che spetta ai docenti e quello che spetta ai ragazzi e una inclusione di ogni ambito disciplinare, sia pure entro una cornice davvero rinnovata. Se, invece - come quasi sempre è il caso - i docenti non formulano un percorso educativo fondato sulla logica dell'empowerment, non partono dai ragazzi ma partono dall'orario cattedra riferito alla sola materia di stretta competenza, dal giorno libero, dalla fissità degli spazi, dai programmi ministeriali, dalla programmazione scritta l'anno scorso o tre anni fa, dall'idea di sa si debba sapere in una prima media che avevano prima delle prove d'ingresso o a prescindere dai loro risultati, dalla scansione dei tempo scuola basato sull'orario generale già compilato, allora sorge la domanda fondamentale: dove sono i ragazzi e i bambini, quale è la loro posizione nella scuola? E' legittimo, a questo punto del ragionamento, pensare che una scuola che non tenta di abbracciare la logica dell'empowerrnent è una scuola che rappresenta se stessa anziché procedere verso soluzioni, è una istituzione autoreferenziale largamente fondata sul solo polo adulto della relazione educativa e che esclude la ragione per quale è nel quartiere. Con quel minimo di cultura dell'osservazione fattuale e non giudicante, che caratterizza i processi di verifica secondo la logica dell'empowerment, se 9 bambini su 27 non imparano che 3 parole di inglese a Dar El Salam e il 70 per cento della nostra classe prima media manifesta avversione o difficoltà, la narrazione sobria di ciò che davvero accade così come accade ci dovrebbe portare a dire che dobbiamo cambiare rotta, che non è possibile partire dall'orario generale, dai programmi ministeriali eccetera per fare ciò che stiamo lì a fare.Da dove può iniziare il nostro processo di empowerment?
Dalle cose che sappiamo dal vivo del nostro lavoro qui; dalle condizioni effettive di esclusione sociale e di esclusione culturale che noi maestre e maestri di questa scuola sappiamo riconoscere, con conoscenza e competenza. Ma anche dai molti saperi e dalla cultura materiale e linguistico-culturale dei nostri ragazzi, dalle loro abilità relazionali, da tutte le loro competenze, tutte cose da cui partire come risorse, energie, molle partecipative.
Quale può essere il punto di partenza? Può essere, per esempio, una mappa dei diritti da rendere effettivi. E' una procedura di empowerment che viene spesso usata nel mondo. Lega il diritto sancito internazionalmente e anche nazionalmente alla concreta battaglia contro una specifica situazione di disagio vissuta da un certo numero di bambini e ragazzi entro un contesto. E la mette in contatto con i bisogni le aspirazioni le sofferenze e le acquisizioni che i bambini e i ragazzi portano con sé in relazione a un dato diritto disatteso o ricercato o non conosciuto.
Sì, una mappa di diritti su cui lavorare tutti insieme:
- diritto all'accoglienza, all'ascolto, all'osservazione e alla presa in carico continuativa da parte di un gruppo o di un singolo adulto;
- diritto a veri contratti formativi ad personam;
- diritto ai gioco, allo sport regolare e all'espressione creativa con l'uso di tutti i sensi e con molti linguaggi;
- diritto alla socialità adeguata all'età, senza ingerenza adulta;
- diritto all'indipendenza, alla guida nella graduale costruzione di progetti di vita e alla responsabilità delle proprie azioni;
- diritto all'aiuto specialistico psicologico lì dove è riconoscibile un bisogno o avviene una richiesta in tal senso;
- diritto alla vita all'aperto e alla frequente esperienza in contesti naturali;
- diritto alla memoria propria, familiare e collettiva sia gioiosa che dolorosa;
- diritto all'espressione del lutto e del dispiacere;
- diritto alle norme e ai limiti offerti con continuità e pacatezza da adulti, senza arbitrio;
- diritto alle esperienze e alle prove di passaggio, guidate ma non simulate, basate sul fare insieme e entro le quali periodi di esperienza di lavoro precoce ma protetto possono rappresentare un arricchimento e un sostegno della formazione e non una mortificazione della stessa;
- diritto alla piena acquisizione della lingua nazionale come seconda lingua e dunque lingua da apprendere secondo modalità di studio attivo, laboratoriale e intensivo, con lunghe fasi consolidamento delle acquisizioni, con grande cura di tutti i passaggi, anche in situazioni di didattica uno a uno e per un lungo periodo di tempo.L'empowerrnent è un processo di ri-costruzione della presenza educativa in un territorio: vengono esaminate insieme tutte pratiche finora attuate. Vengono vagliate, vengono scelte quelle che corrispondono agli obiettivi di riscatto dal disagio sociale acuto e cronico, alla effettiva acquisizione di diritti negati. Dobbiamo quindi contribuire tutti a un lavoro condiviso che prende in carico e offre vera e competente sponda adulta da O a 16 anni almeno in tutto il nostro quartiere e che quindi coinvolge anche i nidi e prima ancora le famiglie, i genitori e in particolare le mamme, le nostre colleghe delle scuole per l'infanzia, quelli della scuola media e del nuovo obbligo e gli operatori ed educatori attivi e creativi del privato sociale che usano da tempo un modello di azione aperto, flessibile, più simile a quello dell'empowernent. Il modello dell'empowerment, del costruire strategie e perrcorsi dall'interno di una situazione sociale ed educativa, è un modello in parte in conflitto con quello che vede la scuola dover sempre tenere conto innanzitutto delle sue rigidità sistemiche.
Forse la scuola, per affrontare davvero la mappa dei diritti, pur non rinunciando ai suoi compiti di istruzione, deve metter in ombra, almeno inizialmente, fare un passo indietro, riferirsi a categorie più ampie - sempre riconosciute internazionalmente, in modo transculturale - quali per esempio le life skills, competenze per la vita, proposte dall'Organizzazione mondiale della sanità e dai workshops interculturali dell'Unicef:
- possedere pensiero creativo;
- possedere pensiero critico;
- sapere verbalizzare il pensiero;
- avere capacità decisionali;
- avere consapevolezza di se stessi e capacità autovalutative;
- sapere gestire le emozioni;
- sapere risolvere problemi;
- sapere sostenere stress e contenere ansie;
- possedere capacità empatiche.
Non è prioritariamente sui programmi ministeriali o in risposta alle circolari o sugli assetti già esistenti a scuola che si deve a priori contare. E', invece, al contrario, dalla mappa dei diritti, dalle abilità per la vita/life skills che dobbiamo partire, capovolgendo tutto l'impianto tradizionale, come fanno nelle scuole di cultura popolare delle bidonville del Brasile, per esempio.
Si devono costruire percorsi dettagliati e fornire differenti men - e non è cosa semplice - valutabili sia in campo educativo generale sia nel campo specifico - proprio della scuola -delle competenze curriculari. Si tratta di abbandonare abitudini e setting protetti e rassicuranti. Le stesse soluzioni organizzative, l'uso degli spazi e del tempo, la dislocazione delle forze e l'utilizzo delle competenze, le priorità nell'uso delle risorse finanziarie e il procedere delle pratiche amministrative devono tutti partire da criteri di efficacia ed efficienza che hanno la loro pietra di paragone non più nella prassi consolidata bensì nel compito stabilito dall'empowerment intorno agli obiettivi scelti per affrontare i nodi critici della vita di questa infanzia, così come sempre più si fa in ogni angolo della terra. Certo, si tratta di ingaggiare una battaglia di lunga iena per piegare a questa prospettiva molte forze conservatrici: nell'amministrazione, nei sindacati, tra gli stessi educatori e, forse, in ciascuno di noi, nelle famiglie eccetera. Ma come altrimenti contrastare davvero una profezia così fosca, che soffia da tempo anche su di noi, sul nostro concreto dannarci a lavorare nelle aree dell'esclusione?
E forse è solo così che possiamo imporre una nostra vera, responsabile, forte autonomia scolastica, e dare un senso compiuto a questa parola.
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