Parte IV - Grandiose ebbrezze

 

BURROUGHS
VITA, OPERE, DROGHE

di Christian Vilà

In Francia, Les Éditions Du Seuil hanno recentemente pubblicato Gentleman Junkie. la vie et l’oeuvre de William S. Burroughs, saggio bio-bibliografico firmato dall’americano Graham Caveney e ampiamente illustrato. Bel libro, anche se la stampa, un nero spento su sfondo acquerellato rossastro, rende la lettura assai faticosa e finisce col dare al lettore la sensazione di avere la mixomatosi. Ignoro se Burroughs abbia potuto vedere questo libro prima della sua morte, ma l’idea di un testo che procuri la mixomatosi al suo lettore l’avrebbe sicuramente fatto ridere di gusto. Era proprio nel suo stile. A margine di questa pubblicazione, «Stupefacente!» ha ritenuto giusto richiamare le prese di posizione, sulle diverse droghe, del solo drogato giunto allo status di leggenda vivente nell’arco di questo mezzo secolo segnato dalla globalizzazione del fenomeno di consumo delle droghe

 

 

«Burroughs non ha creato solo metafore, bensì generazioni intellettualmente attive dotate di uno spirito loro proprio.»

Allen Ginsberg, prefazione all’edizione definitiva di Junkie (1977).

 

 

WSB in un flash

William Seward Burroughs (non sopportava di vedere scritto il suo cognome senza l’iniziale del suo secondo nome) nasce il 5 febbraio 1914 a Saint Louis, Missouri, in piena Bible Belt (la cosiddetta «Cintura biblica», gli Stati ultra-puritani che formano il «cuore» degli usa), dentro quella che lui chiama «società matriarcale malsana». Figlio di un commerciante timorato (erede dell’inventore delle macchine calcolatrici che portano il suo nome, ma le cui fortune familiari si erano volatilizzate nel crollo della Borsa del 1929) e di una bigotta terrorizzata dalle funzioni corporali ma affascinata dalla magia, WSB inizia a scrivere già all’età di otto o nove anni. Il suo primo testo si intitola Autobiografia di un lupo. Già a quest’epoca, il suo aspetto gracile e il suo look inquietante lo fanno passare per «un cane assassino di greggi». Più tardi, laureato a Harvard, tenta inutilmente di farsi assumere dai Servizi segreti. Negli anni Quaranta, si trasferisce a New York, dove lavora come sterminatore di scarafaggi. Qui il suo giovane amico Kerouac lo sprona a scrivere, attività che gli ripugna. Il suo primo romanzo, Junkie (La scimmia sulla schiena), viene tuttavia pubblicato nel 1953. Qualche decennio dopo, l’autore lascia dietro di sé una trentina di opere di fiction, una mezza dozzina di saggi o di libri di evasione, un’autobiografia e una discografia che comprende otto album. Howard Brookner gli ha dedicato un film documentario nel 1983. Il papa dell’underground, guru della Beat generation, maestro della controcultura, nonno dei punk e «musa» dell’heavy metal ha scoperto come liberarsi del proprio corpo il 23 agosto 1997, all’età di 73 anni.

 

 

 

La droga bianca

Nel suo Gentleman Junkie Graham Caveney afferma che i più grandi fan di Burroughs non hanno ritenuto necessario leggerne i libri. Questo atteggiamento è senza alcun dubbio ovvio in un contesto in cui il marketing prevale continuamente sull’opera. Vendendo così un autore di cui, presumibilmente, nessuno è obbligato a reggere la lettura, la bottega letteraria recupera comunque il più infrequentabile, il più detestabile, il più ignobile, diranno alcuni, dei romanzieri politicamente scorretti.
Paragonati a Burroughs, i Conrad, Genet, Céline, Bowles – tra gli autori che ammirava o ha frequentato – sembrano amabili angioletti: WSB rappresenterebbe il Grande Satana, colui che non ha mai esitato a farsi immondo testimone dell’assunzione di droghe pesanti, mentre i suoi illustri contemporanei si sono limitati a illustrare quelle «devianze» molto più veniali (perché tollerabili da parte di una borghesia per definizione illuminata) che sono l’anticolonialismo, l’omosessualità, l’oppiomania degli Anni folli, l’antisemitismo e la... canna. Ma, contrariamente alla diffusa idea che tenderebbe a farne un proselito della dopa, Bill Burroughs è prima di tutto – e attraverso la totalità della sua opera – uno degli avversari più radicali e feroci della sedicente morale puritana, ch’egli chiama la droga bianca. Incomparabilmente più tossica dell’ero, la droga bianca imprigiona i suoi tristi fruitori in un guazzabuglio psichico irreversibile. Questa malattia che colpisce il pensiero si propaga attraverso le parole. Se l’umanità è incapace di sbarazzarsi della parola, dice Burroughs, si estinguerà. Ora, questa malattia non può fare a meno né della parola né dello scritto. A queste parole virus, l’individuo in rivolta non può dunque che opporre delle parole adulterate, infette, che veicolano immagini insane e ripugnanti, blocchi di associazioni libere contorte e schemi di pensiero ostili. È dunque prima di tutto nel produrre parole dissociate, vettori di malattie aleatorie, che Burroughs, cattivo medico, inietta dei contro-virus nella bottega letteraria e, al di là di questa, dentro il pensiero moderno.

 

L’apporto principale di Burroughs romanziere

Burroughs è probabilmente l’unico romanziere del suo tempo che abbia evocato intimamente la vita quotidiana di un drogato. «L’intossicazione è una malattia metabolica e non un problema per la polizia più che la tubercolosi o l’avvelenamento da radio». Ha così fornito una serie di riferimenti culturali a una popolazione tradizionalmente deprivata del diritto di parola (se non di pensiero) – e questo sembra essere effettivamente l’apporto principale, se non cardinale, delle sue fiction. La sua cruda visione del mondo dei tossici gli ha d’altronde permesso di formulare una critica radicale del Sistema corrotto, ossessionato dal controllo ma obbligato a generare il caos per raggiungere i suoi fini: moltiplicare all’infinito gli strumenti di controllo. In ultima analisi, la proliferazione degli strumenti di controllo ordita dagli Stati non mira ad altro che ad accrescere l’alienazione e l’oppressione, «criminalizzando» consistenti fasce di popolazione – a cominciare dai fruitori di sostanze illecite –, continuando con i fumatori di... tabacco e altre sostanze inebrianti. Così, il sistema funziona a circuito chiuso, circolo vizioso perfetto che genera sempre più caos mentre moltiplica gli strumenti di repressione. E se noi tutti siamo incastrati in questo ingranaggio, il junky rimane la vittima tipo, l’antieroe sociale per eccellenza.

 


Il junky

Negli Stati Uniti dell’immediato dopoguerra, essere un drug-addict (tossicomane), un dope fiend («demone della droga») era peggio che essere comunista o gay.
Se le mentalità si sono (timidamente) evolute rispetto agli omosessuali, ciò non è avvenuto in materia di stupefacenti. Il drogato rimane un rifiuto (junk). Con la benedizione (anzi, la maledizione) dell’onu, che, mentre pretende di lottare contro un supposto flagello sociale, crea di fatto un mercato clandestino mondiale, fuori di qualsiasi controllo, e favorisce, più che ostacolare, la commercializzazione di prodotti adulterati, lo sviluppo delle mafie e di ciò che i russi chiamano tenevaya ekonomica (economia delle tenebre). Solo e unico portavoce letterario della moderna diversità, Burroughs non media con un sistema che, secondo lui, mira a criminalizzare i giovani. In The Job, scrive: «Io credo che l’opposizione istituzionale alle droghe sia una finta, che tutta la politica del Dipartimento narcotici americano, così come quella dei Paesi asserviti, sia espressamente concepita per diffondere l’uso della droga, e per creare allo stesso tempo delle leggi sconsiderate contro il suo impiego». E, più oltre: «Le droghe sono per lo Stato un eccellente strumento di controllo, tant’è che si batterà sempre accanitamente contro la legalizzazione, che evidenzierebbe questo stato di fatto».
Se non è affatto tenero con un sistema che diffonde la droga fingendo di combatterla (e, nello stesso tempo, glorificando agli occhi di giovani in rivolta continua i «ribelli» che vi sono dediti), se non risparmia i mass media che, secondo lui, veicolano su questo tema informazioni sistematicamente inesatte, «menzogne stupide e sinistre», Burroughs, che, sa di cosa parla, non si arrischia mai a edulcorare la vita del tossico, «preso nell’ingranaggio dell’eroina, che, essendo illegale, si appropria di tutto il suo tempo [...] e lo rende completamente inoffensivo».
Se WSB, il più celebre drogato del XX secolo, descrive la tossicomania come una malattia contagiosa, se non ha mai fatto l’apologia dell’eroina, non l’ha neppure demonizzata: «Un tossico può vivere fino a novant’anni. Io ne ho conosciuto uno. Il loro stato di salute generale è eccellente. L’eroina è più nociva della morfina ma non comporta risultati letali immediati, se la dose rimane ragionevole e se si evita di combinarla con la cocaina».
Ancora una volta WSB sa di cosa parla, lui che, a Tangeri negli anni cinquanta, è arrivato al capolinea. «Là dove buco –, scrive ne Il pasto nudo, – l’ago penetra dritto dentro la vena che resta aperta come una bocca oscena stillante dopo la puntura una goccia di sangue mista a pus».

 


Burroughs e gli allucinogeni

Essendosi distaccato dall’eroina grazie al trattamento di apomorfina del dottor Dent, del quale non smetterà poi di farsi promotore (con grave danno dell’Accademia di medicina e dell’industria farmaceutica, il cui ovvio interesse non è la salute ma la malattia), Burroughs sperimenta i funghi allucinogeni durante l’«estate psichedelica» del 1961, poi l’LSD nell’autunno dello stesso anno – il tutto, grazie, ovviamente all’ineffabile Timothy Leary. Rispetto all’LSD, Bill è tuttavia lontano dal manifestare lo stesso entusiasmo di Leary. Definisce come «progetto pestilenziale» le sue esperienze di disseminazione a tutto campo. «I giovani sono spinti deliberatamente in vicoli ciechi [...], cullati in morbosi stati d’amore, di armonia con il Tutto e di accettazione di qualunque cosa.» In quest’epoca «pionieristica», William non è affatto al suo primo incontro con gli allucinogeni più radicali.
Otto anni prima, nel 1953, grazie al botanico Richard Evans Schultes (ex di Harvard come lui), ha conosciuto quello che forse è il più potente degli allucinogeni naturali: lo yage o ayahuasca, provando (se ce ne fosse stato ancora bisogno), di essere effettivamente uno dei più grandi sperimentatori di droghe del suo tempo. Sembra sia stato il primo bianco a conoscerne in pieno gli effetti, visto che quelli che avevano tentato prima di lui non avevano descritto altro che «trip mancati», probabilmente dovuti a sotto-dosagi preparati da indiani diffidenti o al loro stesso atteggiamento da cavie impaurite! Dello yage, egli dice che è «la più perfetta negazione della rispettabilità».
La posizione di WSB circa gli allucinogeni è abbastanza ambigua. Se prova un certo interesse per i funghi magici, non ama le allucinazioni che ne derivano. Condanna lo spirito angelico del movimento hippy: «Il solo modo di dare fiori ai poliziotti che mi piace è dentro un vaso dall’alto di una finestra». E suggerisce di far bere del vino di yage ai banchieri americani – una provocazione al loro puritanesimo. Quanto alle droghe sintetiche, quali la benzedrina (sua moglie Joan ne era dipendente come un bel po’ di americani di allora), le anfetamine e altri barbiturici, è ancora più violentemente contrario, non trovandone giustificazione.

 


Apomorfina: il rimedio negato

Il vaccino capace di seppellire il virus della droga nelle profondità del passato, è stato effettivamente scoperto: è il trattamento ad apomorfina [...]. Testimonianza a proposito di una malattia, introduzione al Pasto nudo.
Nella sua critica senza mezzi termini alla topaia sanitaria, colpevole di non produrre che rimedi scientemente inefficaci, Burroughs mette allo stesso tempo in evidenza il valore terapeutico dell’apomorfina, classificata come stupefacente negli usa, ma autorizzata (sebbene per uso discreto) in Europa. Derivato morfinico, come suggerisce il nome, l’apomorfina è un emetico utilizzato per lo più nelle cure di disintossicazione dagli oppiacei. Da questo punto di vista, l’apomorfina sembra molto meglio del metadone, perché si comporta da autentico disintossicante senza provocare alcuna assuefazione.

 


Burroughs e la cannabis

L’unica sostanza psicoattiva che incontra il favore di WSB è alla fine la cannabis. «Senza dubbio, questa droga è utilissima all’artista perché attiva associazioni libere altrimenti inaccessibili. Devo molte scene del Pasto nudo proprio alla cannabis.»
A Tangeri, mentre scriveva quello che sarebbe diventato il suo capolavoro, Bill osservava una rigorosa igiene di vita: «Avevo l’abitudine di prendere del majoun un giorno su due; gli altri giorni mi accontentavo di ammucchiare sulla mia scrivania un mucchio di grosse canne che fumavo battendo a macchina».
Burroughs sottolinea la principale caratteristica per cui la cannabis è qualificata come droga leggera: «La cannabis fa da guida alle facoltà psichiche che possono poi essere ritrovate in sua assenza». Si spinge anche oltre nella critica al deficit scientifico-culturale provocato dal proibizionismo mondiale: «Mi sembra che la cannabis e gli altri allucinogeni forniscano una chiave dei processi creativi, e che uno studio sistematico di queste droghe aprirebbe la strada a processi non chimici verso gli stati modificati di coscienza». Tra questi, al di là dei suoi famosi «cut-up» e «fold-in» (ricombinazioni aleatorie di testi), WSB ha sperimentato la macchina dei sogni, messa a punto dal suo vecchio amico Brion Gysin, che modifica le onde alfa del cervello attraverso emissioni di luce.

 


Burroughs facile

Leggere la maggior parte dei romanzi di Burroughs è considerato a buon diritto un esercizio arduo, ma il lettore curioso potrà ripiegare su fiction più brevi, come Le ultime parole di Dutch Schultz, oppure Sterminatore!, raccolta di novelle buttate giù velocemente, di facile lettura. Il primo romanzo, Junkie (La scimmia sulla schiena) è scorrevole come un romanzo giallo un po’ particolare. Comunque, a chi volesse prendere di petto Burroughs si suggerisce naturalmente Il pasto nudo. Il segreto per abbordarlo sta nel consiglio che un secondino messicano aveva dato all’Autore dopo che questi aveva ucciso la moglie con un maledetto colpo di pistola: «Necesita mucha calma y resignation».
Il vero lettore «fatto» di Burroughs, ve ne consiglierà la trilogia Nova (La morbida macchina, Il biglietto che è esploso, Nova Express), dei quali si potrebbe dire, parafrasando i seguaci della droga bianca, che una ragazza che li abbia letti non è più veramente ragazza.

 

A mo’ di conclusione: WSB, premio Rebel 1999

Un tardivo comunicato proveniente dal pianeta Lurida Topaia ci informa che il 32 dicembre scorso è stato attribuito a William S. Burroughs per l’insieme della sua opera il premio Rebel per la letteratura 1999. Stamattina un vecchio topo di fogna mi ha consegnato il verdetto ufficiale della giuria, appositamente drogato, come esige la legge del luogo. Per un ritardo dovuto a un interminabile sciopero dei tecnici del subcosmo, la povera bestia incaricata di portare il messaggio, a noi altri abitanti della profonda TransPlutonia, fu obbligata a servirsi di parte del dispaccio come dose personale, strappando disgraziatamente il commento del vincitore. Citando un brano di The Job, Burroughs avrebbe probabilmente dichiarato: «È quando cade ogni interesse, che scompare la vergogna»... O ancora, come scrive in My Education (l’autobiografia pubblicata negli Stati Uniti nel 1994): «Per diventare uno scrittore venerato, basta sintonizzarsi, con il proprio posto riservato in un ristorante discreto e molto raffinato. Magari anche all’Accademia. Perché no?». In ogni caso, alle onorificenze Burroughs ha preferito «immergersi nei bassifondi della società, veloce, agile, micidiale come un barracuda»... Probabilmente così «la vergogna scomparirebbe». Quale vergogna? Quella di essere un pornografo, perdio, e anche peggio...: un junky, il Junkie, rappresentante adulterato di una banda di Terrestri con i quali non c’è ombra di empatia: «Molto semplicemente, non posso sopportare gli indigeni di questo pianeta». Quanto alla leggenda, Paul Bowles dice di lui: «Imparando a conoscerlo, ho capito che la leggenda esisteva malgrado lui e non per sua volontà: se ne fotteva».

 

Fonti (per sapere tutto su Burroughs... senza averlo mai letto)

  • W.S. Burroughs, The Job, Interviews with William S. Burroughs by Daniel Odier, Grove Press, New York, 1970
  • Victor Bockris, Con Burroughs, Arcana, Roma, 1979
  • Gérard Georges Lemaire, William Burroughs: una biografia, SugarCo, Milano, 1983
  • John Calder (ed.), A William Burroughs Reader, Pan Books, London, 1982
  • Ted Morgan, Fuorilegge della letteratura. La vita e i tempi di William Burroughs, trad. it. di Wonder Poncetta, SugarCo, Milano, 1991
  • Brion Gysin, William Burroughs, «Re/Search», edizione italiana, Shake Edizioni Underground, Milano, 1992
  • Prof. Bad Trip, Il pasto nudo, fumetto ispirato a The Naked Lunch
  • di William. S. Burroughs, Shake Edizioni Underground, Milano, 1992
  • Christian Vilà, William S. Burroughs, le génie empoisonné, Éditions du Rocher, Paris, 1992
  • My Education, Autobiography of W. S. Burroughs, Ch. Bourgois, Paris, 1994
  • Graham Caveney, Gentleman Junkie, la vie et l’Ïuvre de William S. Burroughs, trad. fr. di Marc Voline, Éditions du Seuil, Paris, 1999

    Su Internet

  • http://metalab.unc.edu/mal/MO/wsb/links.html
  • http://users.aol.com/swoon/4.wsb1978.htm

 

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