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ECSTASY:
NEUROTOSSICITÀ
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Il 17 giugno 1998 «Libération» titolava: Il verdetto degli esperti sulle droghe: Ecstasy: Condannato – Cannabis: Assolta, e riassumeva due rapporti appena resi noti, peraltro molto diversi tra loro, come segue: «Dodici ricercatori dell’Inserm rilevano che l’ecstasy, preso in qualunque dose, può comportare gravi conseguenze fisiche o psichiatriche. Per contro la cannabis, secondo le conclusioni del professor Roques nel suo rapporto al ministro Bernard Kouchner, è meno pericolosa del tabacco». Un anno dopo la pubblicazione del “Rapporto Inserm” (Ecstasy: des données biologiques aux context d’usage, 1997) e di quello della commissione Roques (La dangerosité des drogues, Éditions Odile Jacob, Paris, 1997) a che punto siamo e qual è l’idea che il non specialista può farsi dei termini del dibattito? La questione della tossicità
delle droghe di sintesi – definizione che sotto il nome generico
di Ecstasy raccoglie una larga gamma di sostanze, prima fra tutte il
(o la) mdma (metil-dioximetanfetamina) – continua infatti a suscitare
polemiche e controversie. Di primo acchito si potrebbe immaginare che
questa polemica sia solo un remake dell’eterno scontro tra i guerrieri
della droga sempre pronti a demonizzare le sostanze e gli antiproibizionisti
che, se non arrivano a farne l’apologia, continuano a proclamare
che «le droghe non sono vietate in quanto pericolose, ma sono pericolose
in quanto vietate». In tanti anni sono state enunciate tante di
quelle stupidaggini sulla droga da parte della scienza, che l’idea
secondo la quale «l’ecstasy distrugge i neuroni» suona
all’orecchio come «la solita musica». Ma le cose forse
sono meno semplici... La questione si pone diversamente quando si tratta di valutare la neurotossicità dell’«ecstasy». Essa è stata dimostrata in maniera probante, per alcune specie animali, dall’équipe di Ricaurte e da quella di McKenna e Peroutka, che hanno somministrato mdma a delle cavie (vedi “Rapporto Inserm”, pp. 30-36). Tale neurotossicità si manifesta nella distruzione più o meno reversibile delle terminazioni assonali dei neuroni serotoninergici, cioè dei neuroni che producono il neurotrasmettitore chiamato serotonina. Reversibile nel topo, la distruzione sembrerebbe irreversibile nella scimmia. Il problema, evidentemente, rimane quello di sapere se con gli esseri umani sia lo stesso. Anche gli scettici circa l’estensione all’uomo di risultati di ricerche condotte su animali – è il caso di Charles Grob, che nel 1994 ha condotto il primo studio approvato dall’fda americana sugli effetti dell’mdma sugli uomini («International Journal of Drug Policy», Vol. 8, n. 2, aprile 1998, pp. 119-124) – non contestano questi risultati. Si limitano a rilevare che la neurotossicità dimostrata sugli animali non è stata riscontrata sugli uomini. In ogni caso, ammesso che tale neurotossicità si dia effettivamente nell’uomo, essa si differenzia sotto ogni riguardo dalla tossicità acuta: infatti dipende dalla quantità di sostanza (è tanto più grave quanto più le dosi accumulate sono elevate), è una tossicità a lungo termine che interesserebbe un numero molto alto di persone e che si manifesterebbe in turbe cognitive (concentrazione e memoria) e dell’umore (depressione). Il “Rapporto Roques” riassume così la situazione: «[...] nulla permette attualmente di rifiutare (né di accreditare) l’ipotesi che somministrazioni ripetute di mdma inducano alterazioni irreversibili il cui carattere patologico si rivelerebbe solo dopo diversi anni» (p. 91). E ancora: «Uno dei rischi potrebbe essere che una lesione rimanga celata sul piano funzionale finché la restante popolazione neuronale riesce a compensare questa perdita, mentre i sintomi patologici comparirebbero solo più tardi, quando la degenerazione legata all’età della popolazione di neuroni serotoninenergici interessa una quantità sufficiente ad annullare questa compensazione [...]» (pp. 152-153). È fondamentale distinguere chiaramente la tossicità acuta da una possibile neurotossicità. Ed è tanto più disdicevole che nelle «quattro pagine» destinate a riassumere il “Rapporto Inserm” si affermi: «Date le proprietà farmacologiche della molecola mdma, l’ecstasy è un prodotto tossico indipendentemente dall’abuso» (paragrafo “Informare sulla tossicità dell’ecstasy”). Delle due l’una: o questa proposizione si riferisce alla tossicità acuta, e sembrerebbe questo il caso visto che il paragrafo cita le «complicazioni somatiche mortali», e allora bisognava ricordare quanto meno la rarità di tali complicazioni; oppure si riferisce all’eventuale neurotossicità, ma in questo caso è falso affermare che l’uso occasionale e l’abuso sono ugualmente rischiosi. In termini di prevenzione, tale proposizione è particolarmente disastrosa. Essa finisce infatti con l’accreditare l’idea secondo cui l’unico messaggio per la prevenzione debba essere: «Non consumatela» («Just say: No!») e vanifica ogni proposito di limitare i danni legati all’abuso. Il meccanismo interno della neurotossicità rimane ancora poco conosciuto, ma prevale un’ipotesi generale: caratteristico di prodotti come l’mdma è il fatto di favorire la liberazione congiunta di due neurotrasmettitori essenziali: la serotonina e la dopamina. Semplificando, si può dire che tale proprietà fa di queste sostanze un prodotto intermedio tra gli allucinogeni puramente serotoninergici (lsd, mescalina, psylocibina) e le anfetamine puramente dopaminergiche, ragion per cui alcuni Autori hanno sostenuto l’idea che le feniletilaminasi meritano di essere considerate come una classe particolare, proponendo definirle «entactogene» o «empatogene». Sottolineiamo che il successo di queste sostanze tra i consumatori è legato a un effetto misto: le proprietà allucinogene sono molto più «dolci» di quelle dei veri allucinogeni; mentre gli effetti «speed» restano «ragionevoli» e sono compensati da quelli leggermente allucinogeni. In breve: la sostanza è facilmente controllabile sul piano psichico, favorisce l’empatia, la comunicazione, la caduta delle inibizioni. Come al presidente di Act Up, a molti «giovani» l’ecstasy «piace». Esaminiamo ora le ipotesi
sulla neurotossicità. Semplificando, l’ipotesi più
probabile è la seguente: la neurotossicità sarebbe legata
alla ricattura di dopamina da parte dei neuroni serotoninergici. Di
fatto, più il rapporto tra serotonina liberata e dopamina liberata
è vicino a 1 (mdma, mdea, mda, per esempio), più la neurotossicità
è rilevante; minore è la quantità di dopamina liberata
rispetto alla serotonina liberata (mbdb, per esempio), più la
neurotossicità è limitata (per maggiori dettagli si può
consultare il “Rapporto Inserm”, pp. 25-30). Detto altrimenti:
l’effetto combinato serotoninergico e dopaminergico sarebbe la
ragione tanto del successo della sostanza tra i consumatori quanto della
sua neurotossicità. Assai imbarazzante, anche perché,
se la neurotossicità fosse accertata, l’ecstasy «si
collocherebbe automaticamente al primo posto fra le droghe tossiche»
(“Rapporto Roques”, p. 295). Ecco tutto, si direbbe.
Ma nelle feste in cui questi prodotti sono consumati, sotto il nome
di «ecstasy» circola di tutto e i consumatori non hanno alcun
modo di conoscere la composizione di ciò che consumano. Il «testing»
(o test di Marquis) permette soltanto di stabilire la presenza di una
metanfetamina, di una anfetamina o di una feniletilamina tipo dob o
2cb, ma non dice nulla né sulla presenza di altre sostanze né
sulla quantità (queste informazioni possono essere ottenute solo
attraverso un’analisi di laboratorio e per mezzo di tecniche sofisticate).
Inoltre, l’assunzione contemporanea di alcol, cocaina, lsd ecc.
rende difficile attribuire la causa degli effetti neurotossici al solo
«ecstasy». Certo, ma il «principio di precauzione»
rimane intatto. La neurotossicità, per quanto ipotetica, dell’mdma
e dei suoi derivati dev’essere nota ai consumatori. Nell’attesa, come dicono i consumatori avvertiti, «un ecstasy alla settimana è già troppo»!
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