Parte II - Pensieri disintossicanti

NUOVE DROGHE
E VECCHIE BUGIE

di Matteo "Flipper" Marchetti

A che punto sono le ricerche sulla presunta neurotossicità della sostanza? A chi giova questo ennesimo allarmismo sociale?

 

  • Qualche numero
  • Qualche domanda

     

     

    Siamo alle solite, di nuovo sentiamo parlare di droghe e sostanze a sproposito. Mesi e mesi di lavoro buttati via per qualche articolo di giornale disinformato e bugiardo. Di nuovo l’emergenza, la repressione, le morti, i presunti colpevoli. Di nuovo i luoghi comuni, la forca, le bugie, le grida e lo sdegno. Poi il silenzio, appena trovata un’altra emergenza. Di nuovo buio e oscurantismo. Le droghe, si sa, sono un argomento spinoso. Soprattutto l’ecstasy che, con la sua diffusione, causata anche dalla lotta alla droga delle potenze occidentali negli anni Novanta, ha notevolmente cambiato le rotte commerciali del narcotraffico, collegando da vicino i cartelli e i produttori (non dimentichiamoci che l’MDMA è prodotta in laboratori clandestini della civilizzata e unita Europa), dando vita, secondo le parole del dott. Gatti del Ser.T di Milano, a “una nuova rivoluzione industriale”. Si gioca con la pelle dei ragazzi, si fa campagna elettorale, si spendono soldi. Il governo italiano dal 1990 a oggi ha speso ben 2 mila miliardi per il fondo antidroga con i risultati che conosciamo; peggio ha fatto l’allora presidente americano George Bush, che con la sua amministrazione diede vita all’operazione War on Drugs: 17 miliardi di dollari investiti; risultato: 1% di consumatori di cocaina in meno!. Chi lavora da anni nel campo dell’informazione sugli effetti e i rischi delle cosiddette nuove sostanze non può che essere indignato per come la questione è stata trattata. E allora facciamo un po’ di chiarezza, un piccolo passo indietro è necessario per poter ripuntualizzare le nostre strategie.

     

    Qualche numero

    L’MDMA fu sintetizzata nel 1898 e brevettata dalla Merck nel 1914 come farmaco dimagrante. Solo alla fine degli anni Settanta si ha un uso ricreazionale e di socialità della sostanza. Tra il 1975 e il 1980 viene usata in psicoterapia come coadiuvante della relazione tra paziente e terapeuta. Nel 1985 la dea statunitense la mette al bando dopo una discutibile ricerca su cavie animali (neurotossicità e danni cerebrali permanenti è l’altrettanto discutibile responso). L’uso in psicoterapia dura comunque fino al ’92 (addirittura fino al ’93 in Svizzera). Per quanto riguarda l’Italia, nel ’91 viene segnalato il primo paziente al Ser.T di Padova (diretto dall’equipe del dottor Schifano, all’avanguardia in Italia nella prevenzione dei rischi da abuso di “nuove” sostanze) per problemi dovuti all’assunzione di MDMA e nel ’92, sempre in Veneto, il primo morto accertato (overdose, 16 pastiglie ingerite).
    Che non sia un fenomeno emergenziale del nuovo millennio, almeno per quanto riguarda l’Europa, è dimostrato dal Criminal Justice Act varato nel 1995 in Inghilterra che vietava l’organizzazione di raves illegali per far fronte al dilagare del consumo di metanfetamine (ma anche per imbrigliare una generazione che aveva scelto di autorganizzarsi anche il divertimento); all’epoca veniva stimato che erano ben 500.000 le compresse consumate nei week-end inglesi. In Italia le cifre non toccano questi livelli (e neanche le misure repressive), comunque, secondo una recente indagine, sono circa 100 mila le persone tra i 15 e i 25 anni che fanno uso di MDMA.
    Il mai dimenticato Primo Moroni fece un’indagine in due fasi, nel 1989 e nel biennio ’91-92, sulle trasformazioni produttive del Nord-Est italiano disegnando già allora una situazione, per quanto riguardava i consumi di nuove sostanze, perlomeno preoccupante. Diecimila furono le persone contattate. Il quadro che ne veniva fuori era molto significativo: lavoratore giovane con una settimana lavorativa di 50-60 ore (sia dipendente, che autonomo, che in nero), alta percentuale di abbandono scolastico, vita in famiglia almeno fino ai 30 anni (il 70% degli intervistati), lavoro just in time, dipendenza da uno stile di vita, esibizione delle merci (auto di grossa cilindrata, vestiti firmati) per compensare lo status lavorativo e sociale e per annullare la propria condizione di dipendenza lavorativa. Questa categoria sociale fu seguita da Moroni e dagli altri ricercatori nei luoghi dove consumavano il loro tempo libero (bar e discoteche per lo più). Fu rilevato un considerevole consumo delle sostanze, o forse è meglio dire un policonsumo visto che nel corso di una serata (costo della serata 200-250 mila lire, che fa circa un milione al mese) venivano tranquillamente mischiati alcol, cocaina e le prime pasticche di ecstasy sul mercato. Primo Moroni concludeva la sua ricerca affermando che l’ecstasy era una droga legata a filo doppio con la società post-fordista, era un naturale complemento a questa situazione (ti sballi nel week-end, poi torni tranquillo al lavoro, poi ti risballi nel week-end e così via). Questa ricerca pioneristica già ci permetteva di affermare che la dipendenza da MDMA non è fisica (non dà crisi di astinenza) ma psicologica (dipendenza da un modello di vita, da uno status, da un evento).

     

    Qualche domanda

    Ma che cosa sta succedendo? Chi è il colpevole delle morti degli ultimi mesi strumentalizzate dai media? Esiste un’ecstasy killer? A che punto sono le ricerche sulla presunta neurotossicità della sostanza? A chi giova questo ennesimo allarmismo sociale?
    Innanzitutto va precisato che tre sono i fattori decisivi circa l’assunzione delle sostanze, grazie anche agli studi del ricercatore americano dottor Charles Grob (Conferenza di Parigi 1997 sulla riduzione del danno in Europa):

    1) Il set cioè l’umore, la personalità, le aspettative, lo stato d’animo di colui che assume sostanze entactogene. L’MDMA funziona da catalizzatore ed è evidente che persone che assumono questo tipo di sostanze in condizioni fisiche e mentali precarie possono incorrere in bad trip o avere conseguenze psichice rilevanti.
    2) Il setting cioè il terreno psichico, sociale e culturale ove si consuma l’esperienza. Un conto è assumere xtc in un bosco, in una situazione tranquilla e insieme ad amici, diverso è consumare all’interno di una discoteca affollata, senza spazi di aerazione e con scarsa possibilità di rinfrescarsi e di riprendersi (soprattutto se si è fatto anche uso di alcol e di altre sostanze).
    3) Il dosaggio, in ogni ecstasy il principio attivo (MDMA) dovrebbe variare dai 100 ai 120 mg (1,5 mg per kg di peso corporeo della persona che assume). Vi sono quindi delle differenze tra consumatori magri e consumatori robusti, tra maschi e femmine ecc. Il problema è che non si sa mai quanto principio attivo c’è in ogni singola pasticca, e soprattutto da quali altre sostanze questa è composta. L’ipotesi di allestire laboratori di analisi davanti ai luoghi di consumo (discoteche, ma anche stadi e centri sociali) è una soluzione che viene respinta dalle politiche proibizioniste vigenti in Europa (con la sola eccezione dell’Olanda).

    Molto importante, nell’assunzione di composti psicoattivi (non dimentichiamo che le cosiddette nuove droghe sono combinazioni di vecchie sostanze), è il rispetto di due tempi fondamentali: “l’equilibrio neurofisico” e “l’integrazione dell’esperienza” (Giorgio Samorini, psiconauta in “Percorsi Psicoattivi”, seminario di studio Leoncavallo, Milano 1997). Tra l’assunzione di un’ecstasy e l’altra dovrebbero passare 40 giorni (per i funghi: 5-7 giorni; per la mescalina: 15 giorni); è evidente che la combinazione e la poliassunzione delle sostanze complica il rispetto dei tempi. Sono i policonsumatori quindi i soggetti più a rischio dell’intera vicenda; infatti alcuni referti di decessi attribuiti all’ecstasy parlano di assunzione di più sostanze (alcol + xtc + eroina/cocaina). Per questo, come dice il dottor Edo Polidori del Ser.T di Faenza, “criminalizzare l’ecstasy significa distogliere l’attenzione, confondere, non fare informazione corretta”. Anche perché l’uso di ecstasy nell’arco della vita è transitorio e non dà intossicazione cronica come alcol ed eroina (quindi astensione dalla sostanza), ma acuta (quindi autocontrollo e regolamentazione della sostanza); perciò bisogna fare in modo che il minor numero di persone accusi problemi, muoia ecc. Importante è che tutti coloro i quali hanno a che fare con questo fenomeno (operatori del sociale e della notte, ravers, medici, sperimentatori, giornalisti ecc.) cerchino di convivere con la sostanza, piuttosto che criminalizzarla.
    Da una ricerca fatta nell’inverno dello scorso anno dal Ministero degli Interni italiano e pubblicata sulla rivista «Reset» emerge chiaramente che il luogo del consumo e dello spaccio per eccellenza rimane la discoteca (il 79 % degli intervistati pensa che si possa recuperare ecstasy in discoteca, un altro 45% afferma che ha visto circolare droga in discoteca, lo stesso campione di intervistati considera l’ecstasy una droga leggera: 23% le risposte in questo senso). Diventa quindi irrinunciabile che nel processo di sensibilizzazione e informazione sui rischi d’abuso delle nuove sostanze, la discoteca venga investita, cambiata nell’architettura e nella mentalità di chi la gestisce, ristrutturata. Sono contrario alla chiusura e alla criminalizzazione delle discoteche, ma è ora che tutti si diano una mossa per non essere schiacciati da una parte da politiche proibizioniste fallimentari e colpevoli, dall’altra dal menefreghismo e dall’approssimazione di coloro che gestiscono (controllano?) il mondo della notte.

     

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