pubblicato il 15.09.25
“Uno Bianca, rotto il muro d’omertà”. Caccia ai complici dei Savi, i testimoni iniziano a parlare ·
Dalle audizioni stanno emergendo importanti novità sugli eccidi di Castel Maggiore, Pilastro e via Volturno. Ludovico Mitilini: “Contenti che anche il generale Luongo riconosca che c’è altro oltre la sentenza del ’97”
Bologna, 15 settembre 2025 – “Finalmente quel muro di omertà che per anni ha accompagnato l’Uno Bianca sta cedendo”. Ludovico Mitilini, fratello di Mauro, il carabiniere trucidato dai fratelli Savi al Pilastro la sera del 4 gennaio del 1991, è con “il cuore pieno di speranza”. Per l’intitolazione della caserma di via Casini. E perché l’indagine bis sulla banda, aperta a seguito dell’esposto presentato dai famigliari, starebbe ingranando la marcia giusta.
Dalle indiscrezioni che trapelano, elementi importanti starebbero emergendo sia dagli esami irripetibili del Dna, sia dalle testimonianze acquisite in questi mesi. Testimoni vecchi e nuovi, semplici cittadini e appartenenti alle forze dell’ordine che oggi starebbero fornendo agli inquirenti scenari nuovi di indagine. Rompendo, appunto, quel “muro di omertà sul terrore alimentato dalla banda. Ros e Digos – dice Mitilini – lavorano in tandem e siamo fiduciosi che arriverà la verità completa. Il nostro fondato sospetto è che ci siano complici e mandanti ancora da individuare”.
E Mitilini, tornando sulle parole pronunciate dal comandante generale dell’Arma all’inaugurazione della caserma del Pilastro, intitolata proprio a suo fratello Mauro e ai suoi colleghi Otello Stefanini e Andrea Moneta, si dice anche “contento che il generale Salvatore Luongo veda anche lui dell’altro rispetto a quanto ricostruito nella sentenza del ’97 sull’eccidio”, che stabilì che i carabinieri erano stati uccisi per sottrarre loro le armi. “Una sentenza – dice ancora Mitilini – che cristallizzò come i militari siano stati vittime di un agguato. E questo è un punto fermo, stabilito da perizie e testimonianze. Ci sono però aspetti che devono essere ancora approfonditi. Come il movente, che i giudici del ’97 legarono al furto delle armi dei carabinieri: armi che invece i Savi, che avevano un arsenale, lasciarono lì. Quella del Pilastro fu un’azione pianificata nei dettagli con armi potenti, travisamenti e il kerosene per cancellare le tracce. E resta da capire perché mio fratello, Stefanini e Moneta si trovassero lì. Chi aveva detto loro di lasciare il presidio fisso davanti alle scuole Romagnoli, dove dovevano rimanere come da ordinanza del questore? Il foglio di servizio avrebbe potuto rispondere a questa domanda. Ma non è stato ritrovato”.
Vuoti che la nuova indagine sta cercando di colmare, con gli avvocati dei famigliari, Alessandro Gamberini e Luca Moser, impegnati “in un’attività incessante di indagini, presenziando agli esami irripetibili” disposti dalla Procura, che ha chiesto di analizzare, alla luce delle nuove tecnologie, materiale repertato tra le stragi di Castel Maggiore, via Volturno e Pilastro. “Siamo contenti – dice ancora Mitilini – per l’intitolazione della caserma, per cui ringraziamo il Comune, l’Arma e le istituzioni, che hanno onorato la memoria e il sacrificio di tre giovani carabinieri, oggi monito per le nuove generazioni. Carabinieri che diedero la vita, ma non si arresero e fino all’ultimo furono all’altezza della situazione, nonostante colpiti alle spalle da una pioggia di proiettili: risposero al fuoco con la pistola di ordinanza e la mitragliatrice M12, tanto che quasi esanimi riuscirono a colpire Roberto Savi. Cn quel proiettile che porta ancora nel fianco”.
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Uno Bianca, la nuova inchiesta. Castel Maggiore, Pilastro, armeria. Tre stragi legate da un filo comune
Procura e Ros si concentrano su questi grandi fatti di sangue: l’ipotesi è che i Savi avessero dei complici. Vecchi reperti, tracce, Dna, impronte, atti giudiziari, foto e filmati di allora: tutto viene riletto e rivalutato. .
Le vecchie foto, gli atti giudiziari, dai verbali alle sentenze, i vecchi filmati, le impronte e le tracce di Dna, i reperti come bossoli o vestiti. Insomma, tutte le prove conservate e ogni singolo foglio che rispunta da centinaia di polverosi faldoni. È un lavoro enorme e certosino quello che stanno facendo i carabinieri del Ros, affiancati dai colleghi del Ris, nell’ambito dell’inchiesta bis aperta dalla Procura sulla banda della Uno bianca. Una rilettura fatta con occhi diversi e nuove tecnologie, a distanza di 35 anni dai fatti. Tutto viene rivisto, ristudiato e riesaminato, ripartendo da zero attraverso una visione più organica rispetto a quella delle indagini di allora.
L’obiettivo, come è stato fatto nell’inchiesta sulla strage del 2 agosto 1980 che ha portato a nuovi processi e nuove condanne, è quello di arrivare a individuare persone che all’epoca parteciparono alle azioni criminali della Uno Bianca o che coprirono i fratelli Savi. Complici o fiancheggiatori, dunque, che finora sono sfuggiti alla giustizia. Sono tre, in particolare, i fatti di sangue finiti sotto la lente di carabinieri e Procura: l’eccidio di Castel Maggiore del 20 aprile 1988, in cui furono freddati i carabinieri Umberto Erriu e Cataldo Stasi, la strage del Pilastro del 4 gennaio 1991, in cui vennero ammazzati i tre militari dell’Arma Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini, e l’agguato all’armeria di via Volturno del 2 maggio ’91, quando furono uccisi la titolare Licia Ansaloni e il carabiniere in pensione Pietro Capolungo. La convinzione degli inquirenti, anche sulla scorta delle vecchie sentenze, è che a quelle azioni criminose abbiano partecipato altre persone rispetto a quelle scritte nelle sentenze di condanna. Il terzo uomo visto nell’auto con i Savi a Castel Maggiore, il quarto uomo sulla famigerata Alfa 33 notata al Pilastro, la persona vista in via Volturno che non somigliava affatto a Fabio Savi. Fantasmi a cui non è stato mai attribuito un nome. Per gli avvocati Alessandro Gamberini e Luca Moser, legali dell’Associazione dei parenti delle vittime della Uno Bianca autori dell’esposto che ha fatto riaprire le indagini, ci furono complicità a livelli istituzionali, anche di alto livello, a partire dai servizi segreti. Per il momento, gli investigatori si stanno concentrando sul primo livello, cioè quello di eventuali altri componenti della banda.
L’eventuale livello superiore, ammesso che sia mai esistito, verrà esplorato in seguito se emergeranno elementi. Quello che è certo è che, anche grazie alle nuove tecnologie del Ris nell’analizzare reperti e tracce organiche, si tenterà di rendere utili elementi che all’epoca non vennero utilizzati. Un po’ come sta succedendo in altri casi celebri finiti alla ribalta delle cronache. Dietro la Uno bianca c’era solo la targa? Difficile dirlo. Probabilmente, però, dentro la Uno Bianca non c’erano solo Roberto, Fabio e Alberto Savi e i loro complici già individuati.
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stragismo
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