Genova:
gli errori di gestione da parte del movimento.
Come
redattori di REDS e militanti di diversi pezzi del movimento, abbiamo
condiviso le modalità di organizzazione del GSF, dunque ci sentiamo
corresponsabili degli errori che descriviamo. Individuare spietatamente gli
errori, anche se "col senno di poi", ci consentirà di fare
meglio la prossima volta. REDS. Agosto 2001.
Nelle giornate
di Genova si sono evidenziati alcuni limiti di questo movimento, limiti che,
se riconosciuti, possono essere superati per tempo. Come redattori di REDS
e militanti di diversi pezzi del movimento, abbiamo condiviso le modalità
di organizzazione del GSF, dunque ci sentiamo corresponsabili degli errori
che più sotto descriveremo. Individuare spietatamente gli errori, anche
se "col senno di poi", ci consentirà di fare meglio la prossima
volta. La gestione
politica del rapporto con la destra Il GSF ha
fatto molto bene, nel periodo precedente il vertice, a cercare e in qualche
maniera esigere una trattativa con il governo. Non solo è stato doveroso
sforzarsi di ottenere, in un'ottica di contrattazione sindacale, spazi
e agibilità per garantire l'arrivo e la permanenza dei manifestanti,
ma anche a livello di comunicazione mediatica ciò ha permesso di far
comprendere a larghi settori di "opinione pubblica" che il movimento
chiede cose ragionevoli ed esige diritti elementari, che la destra vuole negare.
Ciò non ha costituito fattore di secondaria importanza nella crisi
che si è aperta in CGIL e tra i DS riguardo ai rapporti con questo
movimento. Quel che si poteva evitare, crediamo, sono stati certi accenti
trionfalistici che portavano a immaginare che avessimo ottenuto chissà
che "vittorie", quando in realtà ci si stava preparando un
trappolone. In vari ambiti abbiamo inoltre ascoltato analisi che oggi appaiono
abbastanza ridicole sulla presunta esistenza di un'ala dura e un'ala
morbida del governo. Tutte le componenti del movimento (noi inclusi,
come ripetiamo), non hanno in alcun modo compreso qual era il disegno della
destra (vedi La logica della repressione). In qualche modo dei segnali
premonitori avrebbero potuto metterci sull'avviso, ad esempio certe segnalazioni
anche interne alle istituzioni repressive. Questa incapacità di previsione
ha fatto sì che si arrivasse non solo tecnicamente impreparati
a difendersi, ma soprattutto psicologicamente impreparati. L'incapacità
a comprendere il disegno della destra ha portato tutte le componenti a ritenere
che la questione politicamente centrale fosse violare o attaccare o circondare
la zona rossa, quando invece le cosiddette "forze dell'ordine" pensavano
a ben altro. La gestione
delle giornate La preparazione
e la mobilitazione in vista di Genova sono state affidate ad una serie di
assemblee che si svolgevano a Genova. Il GSF conta sulla carta sull'adesione
di più di 800 associazioni. Un numero altamente significativo, ma nei
fatti gran parte di queste non hanno potuto permettersi di seguire le assemblee
genovesi e dunque sono rimaste in concreto tagliate fuori dalla gestione dell'evento.
Nei fatti in queste assemblee giocavano un certo ruolo solo un numero molto
ridotto di soggetti organizzati. E più precisamente i loro leader.
Le varie schermaglie tra componenti (prima blocco rosa contro le tute bianche,
poi il Network per i diritti globali contro gli altri) hanno in realtà
visto protagonisti un pugno di leader, ma in nessun momento questa discussione
ha riguardato un confronto alla base tra le diverse componenti, che
rimanevano e sono sempre rimaste rigidamente separate. La discussione riguardo
alla gestione delle giornate non si è mai diffusa sul territorio, e
la grandissima parte di chi è arrivato a Genova non aveva partecipato
ad alcun ambito dove la sua voce avrebbe potuto pesare sulla vicenda. I limiti
di questa modalità organizzativa, solo apparentemente aperta, sono
venuti al pettine il 20 e il 21 quando la repressione si è scatenata
così potente e inaspettata che è riuscita a disperdere tutti,
lasciando decine di migliaia di persone allo sbando, senza alcuna indicazione,
anche concreta, sul da farsi. Il pugno di leader che, sino a quel momento,
aveva deciso tutto, nell'assenza più totale di uno strato intermedio
tra loro e la massa, non sono stati in grado di far nulla di significativo,
nemmeno di improvvisare un servizio d'ordine degno di questo nome per il 21;
mancava totalmente, tra il gruppo di leader e la massa, un'area consistente
di persone che in qualche modo avesse partecipato democraticamente agli eventi
e fosse dunque in grado di portare avanti delle indicazioni. La gestione
delle differenze Ciò
che ha fatto nettamente diminuire le possibilità che la gestione dell'evento
fosse il più possibile diffuso sul territorio è stata anche
la lotta tra le varie componenti del movimento. Gran parte di queste erano
animate da un desiderio, che solo oggi purtroppo ci appare in tutta la sua
imprudenza, di visibilità. Come se ciò non bastasse si sono
inseriti in mezzo i più diversi e incredibili gruppi e gruppuscoli,
ognuno pretendendo chiassosamente il proprio pezzetto. Noi pensiamo, ancora
oggi, che, data la situazione, non vi era altra scelta se non quella che poi
è stata fatta: e cioè che ognuno si tenesse la sua bella piazza
tematica e che poi il giorno dopo si partecipasse al corteo unitario. Oggi,
però, dopo la durissima lezione, dovrebbe essere chiaro a tutti come
tale modalità è bene che mai più si ripeta. Il 20 poteva
essere un'occasione non per tentare di dare chissà che assalti, o per
mostrare quanto si è più bravi e capaci degli altri, ma per
tentare un confronto di massa, tra le basi delle diverse componenti,
che non c'è stato troppo di rado. I leader delle varie componenti si
sono visti e scontrati tra loro, ma le loro basi no. La scelta di dividersi
in piazze tematiche ha impedito che a livello di base le varie componenti
del movimento dialogassero tra loro senza il "tappo" dei rispettivi
leader. Dopo il 20 e 21 la massa dei giovani dello stadio Carlini tornavano
a casa senza aver scambiato una parola con i militanti delle botteghe del
commercio equo e, i militanti cobas senza aver discusso coi militanti FIOM.
Un'occasione persa, ma che ci deve insegnare in futuro che come base
dobbiamo esigere momenti che ci mettano insieme. La gestione
dell'autodifesa Tutte le
tattiche di presenza delle varie componenti sono saltate per aria. Nessuno
oggi si trova nelle condizioni di dire: la mia tattica e la mia maniera di
manifestare sono quelle giuste. Nella tragedia, è una fortuna. In tutto
il periodo che ha preceduto Genova da parte di tutte le componenti vi è
stata una paranoica esigenza di affermazione delle proprie modalità
di stare in piazza, e così di contenuti veri non se ne è parlato.
Ognuno faceva delle proprie modalità il nocciolo discriminante della
propria identità: il blocco rosa la nonviolenza, quello giallo la disobbedienza,
quello blu l'autodifesa attiva. In fondo il Blocco Nero non ha fatto cosa
diversa dal punto di vista del metodo: anche quello fonda la propria identità
sulla maniera di manifestare, con la sola differenza che l'ha praticato senza
tanti proclami alla vigilia (questi aspetti identitari li affrontiamo nell'articolo
Le componenti del movimento
antiglobalizzazione).
Ora comunque è chiaro cosa vuole la destra: l'eliminazione della piazza
come fattore di pressione politica sulle istituzioni (vedi La logica della repressione e Editoriale). Dunque certamente ci proverà di nuovo
e in maniera sistematica. Se non lo farà avrà perso, perché
vuol dire che la piazza è ancora in grado di condizionare, che
il clamore che avremo saputo creare riguardo al massacro di Genova l'avrà
fatta retrocedere. In ogni caso, da ora in poi dovremo essere preparati psicologicamente
e tecnicamente al peggio, senza fidarsi di alcun accordo politico o
di piazza.
In questo movimento ci sono componenti che hanno già dei leader consolidati:
ciò costituisce un limite, un "tappo" alle potenzialità
di crescita del movimento, perché contribuisce a mantenere le varie
componenti separate, ad esasperare i bisogni di visibilità, a ostacolare
l'ingresso di nuove forze, anche perché queste cattive abitudini da
vecchia politica si riproducono poi a livello locale. Non stiamo affatto ponendo
un problema di capacità dei singoli (tutti questi leader si
sono comportati personalmente in maniera coraggiosa, anche nei momenti più
critici), ma di modalità su come costruire il movimento.
Si era diffuso talmente lo spirito di delega nel movimento che nell'assemblea
affollatissima del 20 sera nel campo di Piazza Kennedy, dopo che alcuni leader
avevano parlato ribadendo la necessità di mantenere la manifestazione
per l'indomani ed erano poi spariti impegnati in varie questioni, nessuno
sapeva più che diavolo fare, non se ne è approfittato non solo
per organizzarsi dal basso, ma nemmeno per discutere, e, sino a notte fonda,
la gente ha vagato senza alcuna meta, nell'incertezza più totale.
Le modalità organizzative devono cambiare (e di ciò parliamo
nell'articolo Che movimento
costruire?), ci si deve attrezzare territorialmente a partire dalla base,
in modo da impedire che il "tappo" costituito dalle leadership
delle varie componenti impediscano alle diverse basi di comunicare
tra loro e crescere insieme. Solo una strutturazione che parta dalla base
e sia radicata territorialmente può garantire una presa sulla
cittadinanza che per ora è ancora prigioniera della TV.
La repressione ci ha dato una mano. Ora siamo più uniti di prima. Dobbiamo
approfittare di questa magica situazione di disorientamento per costruire
dal basso, a partire dal più piccolo livello territoriale, strutture
di coordinamento, comunicazione e dialogo tra basi.
Tutte le tattiche sono fallite dunque, con l'eccezione di quella del Blocco
Nero e per la semplicissima ragione che faceva comodo alle cosiddette forze
dell'ordine. A ben poco è servita la preparazione di strumentazione
difensiva del blocco giallo, strumentazione che nelle due giornate è
anzi divenuta una facile forma di identificazione da parte di poliziotti e
carabinieri, per chi andava in giro a piccoli gruppi. Gli attivisti del blocco
rosa sono stati colti del tutto impreparati e non hanno avuto alcun ruolo
significativo di resistenza nelle due giornate. Non hanno dato miglior prova
di sé i compagni del Network che pure avevano annunciato forti intenti
difensivi. I metodi duri non sono serviti a difendere il corteo, ma al massimo
qualche suo spezzone, del resto le mani alzate della Rete Lilliput hanno spesso
ridestato i più profondi istinti sadici di molti componenti delle cosiddette
forze dell'ordine.
Il GSF non è stato in grado di approntare un servizio d'ordine unificato.
Oguno aveva il suo, e ognuno si è mostrato drammaticamente insufficiente.
Il 21 l'unica misura che si è presa, a noi è parsa francamente
inutile: i vari servizi d'ordine doveva "circondare" i propri
spezzoni tenendosi per mano e impedire l'entrata e l'uscita di estranei. Il
problema è che le tute nere si muovevano benissimo anche fuori da questi
cordoni, a pochi metri di distanza, e continuavano a fare quel che pareva
loro. Un così fragile cordone inoltre non riusciva in alcun modo a
garantire dagli attacchi della polizia. Infine la gran parte del corteo era
formata da gente non organizzata e che dunque non ha formato alcun cordone.
In coloro che hanno fatto gli anni settanta le parole servizio d'ordine
evocano ricordi inquietanti. I servizi d'ordine delle organizzazioni di estrema
sinistra (ma noi serbiamo spiacevolissimi e dolorosi ricordi anche di quelli
sindacali e del PCI) hanno visto sorgere al proprio interno vari vizi e qualche
degenerazione: una atmosfera viriloide con forte spirito di banda, spoliticizzazione,
esaltazione del dato tecnico-militare, autonomizzazione dall'organizzazione
che dovrebbe tutelare, ecc. Del resto l'assenza di un servizio d'ordine comporta
conseguenze anche più gravi: se non si è in grado di garantire
la sicurezza, tantissima gente rimarrà a casa e la destra avrà
raggiunto uno dei suoi obiettivi: eliminare il potere di pressione della piazza.
Nelle prossime occasioni dunque il movimento crediamo debba dar vita ad un
servizio d'ordine unificato, perché i servizi d'ordine che garantiscono
solo il proprio pezzo, come abbiamo visto, non servono a nulla. Il
servizio d'ordine deve prendersi in carico la sicurezza dei manifestanti,
il che significa impedire a chiunque di utilizzare la copertura delle manifestazioni
per fare i propri comodi in prossimità del corteo, e che fisicamente
si incarichi di assorbire la prima spinta dell'eventuale aggressione poliziesca,
e infine che dia indicazioni, accompagni e aiuti il resto del corteo negli
eventuali arretramenti. In poche parole un servizio d'ordine che garantisca
il diritto democratico di manifestare e che si assuma come unico suo scopo
la protezione della gente. Per far fronte alle possibili degenerazioni si
dovrà attuare in modo che vi figurino delle donne, che non si sedimenti
un corpo stabile ma venga garantito un certo ricambio, che venga stroncato
ogni tentativo di creare uno spirito di banda.
Non vorremmo con ciò dare l'idea che il problema del movimento è
solo di tipo tecnico-militare. Sarebbe una follia. I compiti principali sono
squisitamente politici e culturali, e ne parliamo diffusamente in altra parte.
Non ci sfugge inoltre che dietro all'incapacità di dar vita ad un servizio
d'ordine unificato si annidano problemi politici (l'esistenza di una lotta
tra componenti), senza risolvere i quali ben difficilmente si riuscirà
ad affrontare i problemi legati alla sicurezza di chi vuol esercitare il diritto
democratico alla protesta.