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Chiapas 2002
Disobbedienza
Migranti e territorio
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café REBELDE ZAPATISTA
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Comunicato unitario delle rappresentanze sindacali dell'Alfa e dei Disobbedienti
Lettera aperta di Francesco Caruso al movimento dal carcere di Viterbo
Comunicato del Disobbedience-lab contro gli arresti dei 22 compagni in Italia
Appello per Genova 2002
> Sulla pratica della disobbedienza
_ Sulla pratica della Disobbedienza //02

Quando noi disobbediamo e affermiamo diritti, noi pratichiamo questa coestensività e dunque stabiliamo una pratica di potenza. Per questo la disobbedienza è un momento di produzione della moltitudine: perché è un momento di aggiunta di potenza alla moltitudine e, allo stesso tempo, mantiene il suo statuto originario di esistenza, cioè di resistenza a questa revoca continua della moltitudine in molteplice, in molti separati, in molti le cui differenze non organizzano incontri ma si oppongono riproducendo dentro la soggettività la lotta mortale che la situazione di potere conduce contro la potenza della moltitudine.
Facciamo alcuni esempi. Dal punto di vista di questa contingenza sia della moltitudine sia della pratica disobbediente, un esempio di assoluta importanza è il movimento dei migranti, che è il primo e il principale movimento dei disobbedienti, al confronto del quale noi siamo davvero ben poca cosa. Il movimento della migrazione è un movimento, per suo statuto, disobbediente: dal momento della decisione della fuga al momento dell' irruzione in una recinzione, scegliendo la clandestinità, quel moto, quel movimento è disobbedienza dispiegata.
La contingenza di questa pratica disobbediente si dimostra col fatto che ai migranti, una volta compiuto questo movimento, occorre una nuova pratica disobbediente: quella della lotta per la produzione di diritti e della lotta come classe, cioè della lotta come nuova figura del proletariato, della lotta come figura del lavoro vivo. Dunque la disobbedienza, così come la produzione di moltitudine, e in quanto tale, è continuamente ridislocata.
Ma chi e come, in un senso specifico, produce la maggiore efficacia della pratica disobbediente' Se la pratica disobbediente è un momento di produzione della moltitudine e, al tempo stesso, è resistenza che si fa attacco all'ordine che la produce e non più solo resistenza agli attacchi dell'ordine, è organizzazione degli incontri e decisione del comune. Lo è solo figuratamente? C'è un'altra esemplarità di disobbedienza che sta nel nostro percorso comune di questi anni, in cui ci siamo costituiti come soggetti: ed è il movimento zapatista (9).

L'esempio, qui, è come quel movimento sia stato determinato nei suoi contenuti dall'agire materiale delle comunità che aveva incontrato: sono queste che si sono organizzate nell'incontro e che hanno prodotto il contenuto del movimento zapatista.
Il caso più lampante è la trasformazione immediata, da parte della comunità, dello slogan proposto dal primo nucleo di guerriglieri che arriva in Chiapas nel 1984. Quello slogan, che un po' riprendeva il 'vogliamo tutto' usato nel decennio precedente dal grande ciclo di lotte di questa latitudine, diventa 'todos para todos', 'tutto per tutti, nulla per noi'' per noi altri, per noi separati.
Questa è l'affermazione del comune a partire da un principio di forza che viene assegnato alla povertà. E questo ha a che fare con l'agire e con le procedure materiali di imposizione dell'ordine imperiale. Proprio a partire da questa pratica resistente, disobbediente e di liberazione del movimento zapatista, è stato il subcomandante Marcos per primo a insegnarci che dal punto di vista del controllo, delle pratiche di disciplina e dei poteri imperiali la globalizzazione non è un tutto pieno: ma, per forza di cose, è globalizzazione frammentata (10).
Sulla globalizzazione come produzione storico-materiale da parte della soggettività e delle lotte del lavoro vivo - quale ce l'ha indicata Toni Negri - , scorre una pratica del dominio che tende a stravolgerla, a limitarla, a separarla, a frammentarla.
E' per questo che noi non possiamo dirci 'no global', nel senso di assegnare alla globalizzazione un principio oppositivo all'insubordinazione, perché essa è un prodotto delle insubordinazioni; ma al tempo stesso noi possiamo dirci 'no global', certamente, rispetto alla globalizzazione frammentata. Qual è il momento fondamentale di questa frammentazione? E' il movimento, la procedura dell'esclusione: perciò - per quanto possa sembrare paradossale, in un pensiero e in un'asse di ricerca che assegna alla cooperazione sociale la totalità della produzione di valore - i discorsi sull'esclusione e sulla povertà hanno una valenza fondamentale per la decisione del comune e cioè per l'abbattimento di questo ordine imposto. Perché la povertà e l' esclusione sono totalmente aperte alla dismisura: la povertà è la condizione più aperta alla dismisura, dal momento che è la condizione su cui la misura del valore, semplicemente e in modo eclatante, non può valere, eppure è imposta. Dal momento, di converso, che su di essa questa misura è imposta, ma non può valere (11).

Ci dobbiamo infatti domandare: che cos'è l'insubordinazione rispetto a un ordine che non può dedurre più dalla produzione la legge del valore e dedurre quella secondo questa ma - come preconizzava Marx nei Gründrisse - fa di questa legge un'odiosa imposizione, una misura imposta sopra una produzione del valore che è dedotta e generata dall'intera cooperazione sociale (12)? Nel rispondere a questa domanda, troveremo precisamente che la povertà e l'esclusione sono le condizioni più aperte alla dismisura: proprio perché su di esse la misura si presenta nella sua forma più odiosa e più estrema.
Perciò l'insubordinazione non acquista consistenza se non coinvolge queste condizioni, che segnano la globalizzazione frammentata: non la acquista, infatti, in faccia all'ordine imperiale e ai suoi processi, se non si pone alla loro altezza e non corrisponde alla loro intensità, dunque se non investe la globalità, nel senso della geografia globale dello sfruttamento del lavoro vivo e nel senso della sua globale struttura soggettiva. Ed è perciò che si è imposta la novità del movimento dei movimenti globale: perché con esso ha fatto irruzione questa capacità, intanto sul piano della produzione di senso e di immaginario.
Anche da questo punto di vista, ha ragione Mezzadra quando denuncia le figurazioni mistificatrici che noi stessi assegniamo alla valenza del movimento dei migranti: la multiculturalità, la multietnicità. Non sono mistificatrici solo perché sono mistificanti le nozioni d'un certo relativismo culturale e dell'etnos: ma anche e soprattutto perché la valenza del movimento dei migranti origina da qui, dalla straordinaria capacità di produzione di dismisura che è raffigurata materialmente nella epicità della migrazione, nella titanicità della decisione comune di migrare, di fuggire, di violare recinzioni e di riorganizzarsi poi in una disobbedienza per i diritti e come classe (13).

Da qui possiamo ripartire per riproporre la domanda: la disobbedienza, che cosa produce' Decisione politica sul comune, di nuovo. Ma lo stesso Hardt (rispetto all'opera di Deleuze, che in quest'asse di ricerca è molto presente) notava che di fronte a noi sono depositate delle aporie: la decisione politica sul comune è un problema aperto, dalla sua definizione ai suoi statuti costitutivi. Allora, forse, la riflessione va spinta più a fondo, nel momento in cui si enuncia una formula come 'disobbedienza costituente'.
E' chiaro, in effetti, che la disobbedienza è costituente: nel momento stesso in cui è un momento di produzione della moltitudine, ed è rappresentazione della produzione di una decisione politica sul comune, essa rappresenta un movimento costituente. Ma cosa costituisce, cosa deve costituire' Credo che in questo dobbiamo tornare a Spinoza, alla definizione della 'potenza costituente della moltitudine' come potenza costitutiva di un nuovo ordine civile (14).

Che cos'è in Spinoza l'ordine civile della moltitudine' E' la democrazia assoluta: che non significa un'idea della totalità, come 'unicum' o peggio 'reductio ad unum', bensì un'idea di non-soluzione. Essa, la democrazia assoluta non è risolta in nessun limite: essa tende ad un nuovo incontro, alla co-decisione potente di quell'organizzazione degli incontri che fa già la potenza della moltitudine. La moltitudine esercita un governo assoluto per e su se stessa, esercitatile cioè dalle singolarità e in cui esse possano realmente e liberamente determinarsi: dunque, contro ogni alienazione trascendente di un potere, contro ogni ordine imposto. Come facciamo noi a praticare perlomeno degli esperimenti di democrazia assoluta' E li stiamo praticando' Credo che questa domanda ci porti a una domanda precedente: quella cioè sul grado d'intensità, oggi, delle pratiche disobbedienti che, abbiamo detto, sono al fondo dello stesso movimento globale. Posta in altri termini: trova basi sufficienti, nello stato odierno del nostro agire, la costituzione di una pratica comune della decisione, capace di costituire democrazia assoluta?
Questa che indichiamo, evidentemente, è una strada che chiarisce la nozione di esodo, ponendolo in una dimensione costituente. Esodo è innanzitutto esodo dall'obbedienza: è movimento costituente, di costituzione di questo governo assoluto della moltitudine per e su se stessa. E non si può pensare che questo esodo, come nell'esodo biblico dalla schiavitù d'Egitto, possa trascorrere oltre la capacità di repressione del Faraone per andarsene altrove: perché abbiamo detto che questo movimento insorge in un mondo che non ha più un fuori, perciò è un movimento che attraversa da una parte all' altra questo mondo che non ha più un fuori, questo mondo definito così dal dominio, per stravolgerlo.
Dunque, è un movimento che classicamente si direbbe rivoluzionario. Più correttamente: il destino del movimento globale - proprio nel senso e nella valenza della profezia, evocati nella metafora di Spinoza sui profeti che "producono" i loro popoli (15) - nel momento in cui si identifica come tale perché diventa l'incontro delle resistenze che le rende capaci di portare l'attacco all'ordine e di non prodursi più come serie di resistenze separate agli attacchi puntuali portati dall'ordine alla moltitudine, invoca una procedura rivoluzionaria.

Quindi, la domanda sulla intensità e sulla sufficienza delle pratiche disobbedienti oggi ha a che fare con la domanda sulla qualità materiale delle pratiche politiche di questo movimento, sullo stato delle cose del movimento. E poiché abbiamo detto che sia la moltitudine sia la pratica disobbediente come pratica di produzione della moltitudine non sono mai date una volta per tutte, ciò è allora oggetto di riflessione politica, per uno sforzo creativo (16).
In breve: noi dobbiamo inventarci delle politiche sulla moltitudine, sul movimento globale e sulla sua insorgenza rispetto all'ordine globale, sulla sua capacità costituente, per produrlo ancora e per produrre quest'esodo costituente, questa democrazia assoluta della moltitudine. Non abbiamo, invece, per niente bisogno di pensare di attestarci su una massa critica già raggiunta (o presupposta) di pratiche disobbedienti: di pensare che bastiamo a noi stessi.
Ciò non significa che dobbiamo imprigionarci nei social forum. Al contrario, dobbiamo attraversare criticamente e conflittualmente quegli spazi per far sì che siano davvero sedi e segmenti utili alla pratica della decisione comune della moltitudine su se stessa: quindi utili fuori da qualsiasi illusione mistificatrice di sovrapposizione alla complessità ricombinata del movimento, di conclusione in essi del movimento di movimenti. Per far questo, dobbiamo affermare continuamente, nelle pratiche, che il movimento è un fenomeno di resistenze poste in rete, le quali organizzano il proprio incontro su un piano superiore: e che questo fenomeno è irriducibile ad una rappresentanza racchiusa (17), che esso ha invece bisogno di momenti fluidi di decisione politica continuamente riconducibili alla decisione comune della moltitudine su se stessa e non all'astrazione della delega. E dobbiamo cominciare a praticarlo noi, in primo luogo: per cui non bastano più le enunciazioni iniziali del discorso della disobbedienza sociale e le pratiche simboliche che le hanno ribadite nel suo percorso, fin qui. In fondo, nella grande ricchezza di questo seminario si ripropone quel limite, di forme ancora insondate. Credo però che l'immaginazione dei compagni e delle compagne del nordest sia stata quella di produrre questo scarto superiore allo stato della nostra discussione fin qui, per produrre l'inizio di un discorso: l'apertura di una ricerca che si doti di strumenti e di una verifica continua e che si mantenga aperta, esattamente come è aperto il processo di costituzione della moltitudine e quella sua capacità costituente di una democrazia assoluta. Così come aperti sono la democrazia e il governo assoluto della moltitudine, per e su se stessa.

Noi abbiamo bisogno di continuare questa discussione, di aprirla a una moltiplicazione delle pratiche di ricerca. Abbiamo, sopra ogni cosa, bisogno di farlo nel modo e secondo l'impostazione che qui è stata scelta: e che non attiene al contenuto e alle affermazioni, ma alla modalità di linguaggio, cioè al tutt'uno tra le pratiche di ricerca sul terreno teoretico e le pratiche di movimento.
Noi dobbiamo fare in modo che sia davvero attivata questa riappropriazione del 'general intellect' su se stesso, dentro di noi, per poter agire riappropriazione all'interno del movimento globale. Non è il momento delle secessioni dal movimento globale: è il momento di una secessione, davvero esodante nel senso attivo, rispetto alle illusioni e alle riprecipitazioni nel passato che dentro questo movimento possono presentarsi. E' il momento di agire una disobbedienza rispetto all'ordine che viene ricostituito anche all'interno del movimento (18).

E' con l'apertura di questo discorso che noi dobbiamo misurarci, rispetto agli appuntamenti politici che importano nel movimento procedure di costituzione di quell'ordine. Le abbiamo di fronte a noi. Se ad esempio quel discorso che faceva Mezzadra sulla costruzione processuale di uno sciopero del lavoro migrante, con la sua qualità specifica e così importante per individuare un orizzonte costituente a partire dalle pratiche di insubordinazione del lavoro vivo, se quello sciopero del lavoro migrante diviene oggetto di discussione accademica e separata da ciò che accade in queste settimane, al contrario di consolidare praticamente l' ttraversamento - che noi abbiamo provato a sostenere - dello sciopero generale: bene, allora noi avremo molte difficoltà a battere questa re-immisione degli elementi dell'ordine dentro il movimento.
Badiamo bene: l'allarme non scatta perché qualcuno si mette in coda premendo alle porte, che non esistono, del movimento globale. Nessuno si sogna questo dentro quelle concrezioni del passato che sono nostre avversarie, a partire dagli apparati della sinistra moderata che hanno generato la stagione contro cui questo movimento globale è insorto. Nessuno di questi apparati fa il 'pigia-pigia' per entrare nel movimento. Ma questi apparati tentano di ricostituire la procedura dell'ordine intorno e sopra il movimento. E' il movimento, così, che viene messo alla prova.

Noi dobbiamo essere capaci di ritornare a quell'elemento fondamentale delle soggettività che muovono queste resistenze all'incontro e alla loro nuova qualità di disobbedienza: e cioè alla dismisura. Se anche sul conflitto scorre il tentativo della misura, come con la limitazione della qualità dello sciopero generale (la limitazione delle parole d'ordine dello sciopero generale, la limitazione della visibilità dei soggetti investiti dallo sciopero generale, la limitazione delle pratiche che afferiscono ad una qualità e capacità ed efficacia diverse dello sciopero generale), allora noi dobbiamo essere capaci di eccedere quella misura. Dobbiamo essere capaci di vivere e attraversare passaggi come lo sciopero generale con una moltiplicazione della disobbedienza: precipitarli, per quanto possiamo, dentro una stagione di moltiplicazione delle pratiche disobbedienti (19). Questo non basta dirselo, va agito: non si deposita con una sequenza di azioni esemplari, perché non è questo che ottiene la rappresentazione di una dismisura dei soggetti materiali. Non è con una sequenza di azioni esemplari che possiamo evocare, come un'avanguardia separata, l'entrata in azione di quei soggetti: è, invece, considerandoci noi dentro quei soggetti, come in effetti e materialmente lo siamo (20), nella nostra vita, considerando insomma la nostra azione come immediata produzione di soggettività.
E' dunque questa azione disobbediente, di qualità nuova, che va moltiplicata e diffusa. Solo così noi riusciremo a fare i conti con la Cgil e con quegli apparati che si muovono sulla prospettiva post-ulivista, che tentano di dare un futuro (che per noi è un ritorno al passato e che è la negazione dell' avvenire della moltitudine) alla sinistra moderata dopo la sua crisi. Solo così riusciremo ad affrontarli: non ponendoci in una logica di petizione politica e non facendo discorsi che delimitano la capacità di azione, perché quella limitazione è tutt'uno con la procedura riordinatrice che le relazioni di potere innestate sulla biopolitica (21) dell'impero, cioè sulla politica della vita dominata (22), stanno agendo rispetto alla novità del movimento globale.

Dunque, un seminario come questo si può concludere solo con un appello all' azione. Un appello che abbia presente la necessaria qualità dell'azione. Hardt citava, a proposito del lascito di Foucault in ordine alla biopolitica, una frase di Deleuze, a colloquio proprio con Foucault, estremamente importante per il futuro di questa discussione. E' una frase che vorrei ripetere qui, come una nostra bussola: "Nessuna teoria può crescere senza incontrare un muro. E ci vuole una pratica per aprire una breccia in quel muro" (Gilles Deleuze - Intellettuali e Potere - 1977).
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