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_ Sulla pratica della Disobbedienza //02
Quando noi disobbediamo e affermiamo diritti, noi pratichiamo questa
coestensività e dunque stabiliamo una pratica di potenza. Per questo la
disobbedienza è un momento di produzione della moltitudine: perché è un
momento di aggiunta di potenza alla moltitudine e, allo stesso tempo,
mantiene il suo statuto originario di esistenza, cioè di resistenza a questa
revoca continua della moltitudine in molteplice, in molti separati, in molti
le cui differenze non organizzano incontri ma si oppongono riproducendo
dentro la soggettività la lotta mortale che la situazione di potere conduce
contro la potenza della moltitudine.
Facciamo alcuni esempi. Dal punto di vista di questa contingenza sia della
moltitudine sia della pratica disobbediente, un esempio di assoluta
importanza è il movimento dei migranti, che è il primo e il principale
movimento dei disobbedienti, al confronto del quale noi siamo davvero ben
poca cosa. Il movimento della migrazione è un movimento, per suo statuto,
disobbediente: dal momento della decisione della fuga al momento dell'
irruzione in una recinzione, scegliendo la clandestinità, quel moto, quel
movimento è disobbedienza dispiegata.
La contingenza di questa pratica disobbediente si dimostra col fatto che
ai migranti, una volta compiuto questo movimento, occorre una nuova pratica
disobbediente: quella della lotta per la produzione di diritti e della lotta
come classe, cioè della lotta come nuova figura del proletariato, della
lotta come figura del lavoro vivo. Dunque la disobbedienza, così come la
produzione di moltitudine, e in quanto tale, è continuamente ridislocata.
Ma chi e come, in un senso specifico, produce la maggiore efficacia della
pratica disobbediente' Se la pratica disobbediente è un momento di
produzione della moltitudine e, al tempo stesso, è resistenza che si fa
attacco all'ordine che la produce e non più solo resistenza agli attacchi
dell'ordine, è organizzazione degli incontri e decisione del comune. Lo
è solo figuratamente? C'è un'altra esemplarità di disobbedienza che sta nel
nostro percorso comune di questi anni, in cui ci siamo costituiti come
soggetti: ed è il movimento zapatista (9).
L'esempio, qui, è come quel movimento sia stato determinato nei suoi
contenuti dall'agire materiale delle comunità che aveva incontrato: sono
queste che si sono organizzate nell'incontro e che hanno prodotto il
contenuto del movimento zapatista.
Il caso più lampante è la trasformazione immediata, da parte della comunità,
dello slogan proposto dal primo nucleo di guerriglieri che arriva in Chiapas
nel 1984. Quello slogan, che un po' riprendeva il 'vogliamo tutto' usato
nel decennio precedente dal grande ciclo di lotte di questa latitudine, diventa
'todos para todos', 'tutto per tutti, nulla per noi'' per noi altri, per
noi separati.
Questa è l'affermazione del comune a partire da un principio di forza che
viene assegnato alla povertà. E questo ha a che fare con l'agire e con le
procedure materiali di imposizione dell'ordine imperiale.
Proprio a partire da questa pratica resistente, disobbediente e di
liberazione del movimento zapatista, è stato il subcomandante Marcos per
primo a insegnarci che dal punto di vista del controllo, delle pratiche
di disciplina e dei poteri imperiali la globalizzazione non è un tutto pieno:
ma, per forza di cose, è globalizzazione frammentata (10).
Sulla globalizzazione come produzione storico-materiale da parte della
soggettività e delle lotte del lavoro vivo - quale ce l'ha indicata Toni
Negri - , scorre una pratica del dominio che tende a stravolgerla, a
limitarla, a separarla, a frammentarla.
E' per questo che noi non possiamo dirci 'no global', nel senso di assegnare
alla globalizzazione un principio oppositivo all'insubordinazione, perché
essa è un prodotto delle insubordinazioni; ma al tempo stesso noi possiamo
dirci 'no global', certamente, rispetto alla globalizzazione frammentata.
Qual è il momento fondamentale di questa frammentazione? E' il movimento,
la procedura dell'esclusione: perciò - per quanto possa sembrare paradossale,
in un pensiero e in un'asse di ricerca che assegna alla cooperazione sociale
la totalità della produzione di valore - i discorsi sull'esclusione e sulla
povertà hanno una valenza fondamentale per la decisione del comune e cioè
per l'abbattimento di questo ordine imposto. Perché la povertà e l'
esclusione sono totalmente aperte alla dismisura: la povertà è la condizione
più aperta alla dismisura, dal momento che è la condizione su cui la misura
del valore, semplicemente e in modo eclatante, non può valere, eppure è
imposta. Dal momento, di converso, che su di essa questa misura è imposta,
ma non può valere (11).
Ci dobbiamo infatti domandare: che cos'è l'insubordinazione rispetto a un
ordine che non può dedurre più dalla produzione la legge del valore e
dedurre quella secondo questa ma - come preconizzava Marx nei Gründrisse
- fa di questa legge un'odiosa imposizione, una misura imposta sopra una
produzione del valore che è dedotta e generata dall'intera cooperazione
sociale (12)? Nel rispondere a questa domanda, troveremo precisamente che
la povertà e l'esclusione sono le condizioni più aperte alla dismisura: proprio
perché su di esse la misura si presenta nella sua forma più odiosa e più
estrema.
Perciò l'insubordinazione non acquista consistenza se non coinvolge queste
condizioni, che segnano la globalizzazione frammentata: non la acquista,
infatti, in faccia all'ordine imperiale e ai suoi processi, se non si pone
alla loro altezza e non corrisponde alla loro intensità, dunque se non
investe la globalità, nel senso della geografia globale dello sfruttamento
del lavoro vivo e nel senso della sua globale struttura soggettiva. Ed è
perciò che si è imposta la novità del movimento dei movimenti globale:
perché con esso ha fatto irruzione questa capacità, intanto sul piano della
produzione di senso e di immaginario.
Anche da questo punto di vista, ha ragione Mezzadra quando denuncia le
figurazioni mistificatrici che noi stessi assegniamo alla valenza del
movimento dei migranti: la multiculturalità, la multietnicità. Non sono
mistificatrici solo perché sono mistificanti le nozioni d'un certo
relativismo culturale e dell'etnos: ma anche e soprattutto perché la valenza
del movimento dei migranti origina da qui, dalla straordinaria capacità
di produzione di dismisura che è raffigurata materialmente nella epicità della
migrazione, nella titanicità della decisione comune di migrare, di fuggire,
di violare recinzioni e di riorganizzarsi poi in una disobbedienza per i
diritti e come classe (13).
Da qui possiamo ripartire per riproporre la domanda: la disobbedienza, che
cosa produce' Decisione politica sul comune, di nuovo. Ma lo stesso Hardt
(rispetto all'opera di Deleuze, che in quest'asse di ricerca è molto
presente) notava che di fronte a noi sono depositate delle aporie: la
decisione politica sul comune è un problema aperto, dalla sua definizione
ai suoi statuti costitutivi. Allora, forse, la riflessione va spinta più a
fondo, nel momento in cui si enuncia una formula come 'disobbedienza
costituente'.
E' chiaro, in effetti, che la disobbedienza è costituente: nel momento
stesso in cui è un momento di produzione della moltitudine, ed è
rappresentazione della produzione di una decisione politica sul comune,
essa rappresenta un movimento costituente. Ma cosa costituisce, cosa deve
costituire' Credo che in questo dobbiamo tornare a Spinoza, alla definizione
della 'potenza costituente della moltitudine' come potenza costitutiva di
un nuovo ordine civile (14).
Che cos'è in Spinoza l'ordine civile della moltitudine' E' la democrazia
assoluta: che non significa un'idea della totalità, come 'unicum' o peggio
'reductio ad unum', bensì un'idea di non-soluzione. Essa, la democrazia
assoluta non è risolta in nessun limite: essa tende ad un nuovo incontro,
alla co-decisione potente di quell'organizzazione degli incontri che fa
già la potenza della moltitudine. La moltitudine esercita un governo assoluto
per e su se stessa, esercitatile cioè dalle singolarità e in cui esse
possano realmente e liberamente determinarsi: dunque, contro ogni
alienazione trascendente di un potere, contro ogni ordine imposto.
Come facciamo noi a praticare perlomeno degli esperimenti di democrazia
assoluta' E li stiamo praticando' Credo che questa domanda ci porti a una
domanda precedente: quella cioè sul grado d'intensità, oggi, delle pratiche
disobbedienti che, abbiamo detto, sono al fondo dello stesso movimento
globale. Posta in altri termini: trova basi sufficienti, nello stato odierno
del nostro agire, la costituzione di una pratica comune della decisione,
capace di costituire democrazia assoluta?
Questa che indichiamo, evidentemente, è una strada che chiarisce la nozione
di esodo, ponendolo in una dimensione costituente. Esodo è innanzitutto
esodo dall'obbedienza: è movimento costituente, di costituzione di questo
governo assoluto della moltitudine per e su se stessa. E non si può pensare
che questo esodo, come nell'esodo biblico dalla schiavitù d'Egitto, possa
trascorrere oltre la capacità di repressione del Faraone per andarsene
altrove: perché abbiamo detto che questo movimento insorge in un mondo che
non ha più un fuori, perciò è un movimento che attraversa da una parte all'
altra questo mondo che non ha più un fuori, questo mondo definito così dal
dominio, per stravolgerlo.
Dunque, è un movimento che classicamente si direbbe rivoluzionario. Più
correttamente: il destino del movimento globale - proprio nel senso e nella
valenza della profezia, evocati nella metafora di Spinoza sui profeti che
"producono" i loro popoli (15) - nel momento in cui si identifica come
tale perché diventa l'incontro delle resistenze che le rende capaci di
portare l'attacco all'ordine e di non prodursi più come serie di resistenze
separate agli attacchi puntuali portati dall'ordine alla moltitudine, invoca
una procedura rivoluzionaria.
Quindi, la domanda sulla intensità e sulla sufficienza delle pratiche
disobbedienti oggi ha a che fare con la domanda sulla qualità materiale
delle pratiche politiche di questo movimento, sullo stato delle cose del
movimento. E poiché abbiamo detto che sia la moltitudine sia la pratica
disobbediente come pratica di produzione della moltitudine non sono mai
date una volta per tutte, ciò è allora oggetto di riflessione politica, per uno
sforzo creativo (16).
In breve: noi dobbiamo inventarci delle politiche sulla moltitudine, sul
movimento globale e sulla sua insorgenza rispetto all'ordine globale, sulla
sua capacità costituente, per produrlo ancora e per produrre quest'esodo
costituente, questa democrazia assoluta della moltitudine. Non abbiamo,
invece, per niente bisogno di pensare di attestarci su una massa critica
già raggiunta (o presupposta) di pratiche disobbedienti: di pensare che bastiamo
a noi stessi.
Ciò non significa che dobbiamo imprigionarci nei social forum. Al contrario,
dobbiamo attraversare criticamente e conflittualmente quegli spazi per far
sì che siano davvero sedi e segmenti utili alla pratica della decisione
comune della moltitudine su se stessa: quindi utili fuori da qualsiasi
illusione mistificatrice di sovrapposizione alla complessità ricombinata
del movimento, di conclusione in essi del movimento di movimenti.
Per far questo, dobbiamo affermare continuamente, nelle pratiche, che il
movimento è un fenomeno di resistenze poste in rete, le quali organizzano
il proprio incontro su un piano superiore: e che questo fenomeno è irriducibile
ad una rappresentanza racchiusa (17), che esso ha invece bisogno di momenti
fluidi di decisione politica continuamente riconducibili alla decisione
comune della moltitudine su se stessa e non all'astrazione della delega.
E dobbiamo cominciare a praticarlo noi, in primo luogo: per cui non bastano
più le enunciazioni iniziali del discorso della disobbedienza sociale e
le pratiche simboliche che le hanno ribadite nel suo percorso, fin qui.
In fondo, nella grande ricchezza di questo seminario si ripropone quel
limite, di forme ancora insondate. Credo però che l'immaginazione dei
compagni e delle compagne del nordest sia stata quella di produrre questo
scarto superiore allo stato della nostra discussione fin qui, per produrre
l'inizio di un discorso: l'apertura di una ricerca che si doti di strumenti
e di una verifica continua e che si mantenga aperta, esattamente come è aperto
il processo di costituzione della moltitudine e quella sua capacità
costituente di una democrazia assoluta. Così come aperti sono la democrazia
e il governo assoluto della moltitudine, per e su se stessa.
Noi abbiamo bisogno di continuare questa discussione, di aprirla a una
moltiplicazione delle pratiche di ricerca. Abbiamo, sopra ogni cosa, bisogno
di farlo nel modo e secondo l'impostazione che qui è stata scelta: e che
non attiene al contenuto e alle affermazioni, ma alla modalità di linguaggio,
cioè al tutt'uno tra le pratiche di ricerca sul terreno teoretico e le
pratiche di movimento.
Noi dobbiamo fare in modo che sia davvero attivata questa riappropriazione
del 'general intellect' su se stesso, dentro di noi, per poter agire
riappropriazione all'interno del movimento globale. Non è il momento delle
secessioni dal movimento globale: è il momento di una secessione, davvero
esodante nel senso attivo, rispetto alle illusioni e alle riprecipitazioni
nel passato che dentro questo movimento possono presentarsi. E' il momento
di agire una disobbedienza rispetto all'ordine che viene ricostituito anche
all'interno del movimento (18).
E' con l'apertura di questo discorso che noi dobbiamo misurarci, rispetto
agli appuntamenti politici che importano nel movimento procedure di
costituzione di quell'ordine. Le abbiamo di fronte a noi. Se ad esempio
quel discorso che faceva Mezzadra sulla costruzione processuale di uno sciopero
del lavoro migrante, con la sua qualità specifica e così importante per
individuare un orizzonte costituente a partire dalle pratiche di
insubordinazione del lavoro vivo, se quello sciopero del lavoro migrante
diviene oggetto di discussione accademica e separata da ciò che accade in
queste settimane, al contrario di consolidare praticamente l'
ttraversamento - che noi abbiamo provato a sostenere - dello sciopero
generale: bene, allora noi avremo molte difficoltà a battere questa
re-immisione degli elementi dell'ordine dentro il movimento.
Badiamo bene: l'allarme non scatta perché qualcuno si mette in coda premendo
alle porte, che non esistono, del movimento globale. Nessuno si sogna questo
dentro quelle concrezioni del passato che sono nostre avversarie, a partire
dagli apparati della sinistra moderata che hanno generato la stagione contro
cui questo movimento globale è insorto. Nessuno di questi apparati fa il
'pigia-pigia' per entrare nel movimento. Ma questi apparati tentano di
ricostituire la procedura dell'ordine intorno e sopra il movimento. E' il
movimento, così, che viene messo alla prova.
Noi dobbiamo essere capaci di ritornare a quell'elemento fondamentale delle
soggettività che muovono queste resistenze all'incontro e alla loro nuova
qualità di disobbedienza: e cioè alla dismisura. Se anche sul conflitto
scorre il tentativo della misura, come con la limitazione della qualità
dello sciopero generale (la limitazione delle parole d'ordine dello sciopero
generale, la limitazione della visibilità dei soggetti investiti dallo
sciopero generale, la limitazione delle pratiche che afferiscono ad una
qualità e capacità ed efficacia diverse dello sciopero generale), allora
noi dobbiamo essere capaci di eccedere quella misura. Dobbiamo essere capaci
di vivere e attraversare passaggi come lo sciopero generale con una
moltiplicazione della disobbedienza: precipitarli, per quanto possiamo,
dentro una stagione di moltiplicazione delle pratiche disobbedienti (19).
Questo non basta dirselo, va agito: non si deposita con una sequenza di
azioni esemplari, perché non è questo che ottiene la rappresentazione di
una dismisura dei soggetti materiali. Non è con una sequenza di azioni esemplari
che possiamo evocare, come un'avanguardia separata, l'entrata in azione
di quei soggetti: è, invece, considerandoci noi dentro quei soggetti, come
in effetti e materialmente lo siamo (20), nella nostra vita, considerando
insomma la nostra azione come immediata produzione di soggettività.
E' dunque questa azione disobbediente, di qualità nuova, che va moltiplicata
e diffusa. Solo così noi riusciremo a fare i conti con la Cgil e con quegli
apparati che si muovono sulla prospettiva post-ulivista, che tentano di
dare un futuro (che per noi è un ritorno al passato e che è la negazione dell'
avvenire della moltitudine) alla sinistra moderata dopo la sua crisi. Solo
così riusciremo ad affrontarli: non ponendoci in una logica di petizione
politica e non facendo discorsi che delimitano la capacità di azione, perché
quella limitazione è tutt'uno con la procedura riordinatrice che le
relazioni di potere innestate sulla biopolitica (21) dell'impero, cioè sulla
politica della vita dominata (22), stanno agendo rispetto alla novità del
movimento globale.
Dunque, un seminario come questo si può concludere solo con un appello all'
azione. Un appello che abbia presente la necessaria qualità dell'azione.
Hardt citava, a proposito del lascito di Foucault in ordine alla
biopolitica, una frase di Deleuze, a colloquio proprio con Foucault,
estremamente importante per il futuro di questa discussione. E' una frase
che vorrei ripetere qui, come una nostra bussola: "Nessuna teoria può
crescere senza incontrare un muro. E ci vuole una pratica per aprire una
breccia in quel muro" (Gilles Deleuze - Intellettuali e Potere - 1977).
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