La crisi del movimento antiglobal.
Le ragioni della crisi. qualche idea per uscirne. REDS. Luglio 2002.


 

Il movimento antiglobalizzazione è in crisi. L'affermazione è stata recentemente stigmatizzata da quanti, nel movimento, vi vedono il tentativo di far sparire dalla scena politica il "movimento dei movimenti". Non condividiamo questo atteggiamento difensivo. Quando si parla di ascesa o declino di movimenti (e lo stesso vale per sindacati, partiti, ecc.) non si può rinunciare a delle analisi per far posto ad auspici e scongiuri: il primo a rimetterci sarebbe proprio il movimento, che, non trovando le ragioni del proprio riflusso, non riuscirebbe nemmeno a immaginarne le vie d'uscita. In questo pezzo dunque concentreremo la nostra attenzione sui limiti del movimento antiglobal più che sui meriti, perché di questi, dentro il movimento, se ne è fin troppo parlato con un eccesso di presunzione che ha nuociuto al suo sviluppo.

I dati della crisi

Non parleremmo dei dati che dimostrano la crisi del movimento se non vi fosse, per l'appunto, chi tendesse a rimuoverli o a sottovalutarli. Vediamoli per sommi capi.

a) La manifestazione a Roma dell'8 giugno in occasione della riunione FAO non è andata bene. Purtroppo all'interno del movimento ha preso piede la vecchia e censurabile abitudine della sinistra di gonfiare i dati della partecipazione (come abbiamo più volte sottolineato si tratta di un boomerang, perché impedisce di fare seri bilanci sul successo o meno di una iniziativa), quel che è certo è che, a parte la cifra buona per i media di cinquantamila persone, i più ottimisti nel movimento hanno parlato di diecimila persone presenti al corteo. Se confrontiamo questa partecipazione con quella registrata in occasione delle altre numerose manifestazioni nazionali promosse dal movimento e se teniamo conto che si è trattato di un appuntamento preparato da tempo e al quale hanno concorso, chi più chi meno, tutte le componenti del movimento, possiamo definire la manifestazione qualcosa di abbastanza vicina ad un fiasco.

b) I luoghi di unità e coordinamento tra i soggetti del movimento sono andati sempre più diminuendo in termini di partecipazione. Il numero di Social Forum e di nodi della Rete Lilliput sono gli stessi del dicembre dello scorso anno, mentre sono diminuiti quelli che funzionano sul serio. La partecipazione ai Social Forum delle grandi città (Roma e Milano, tanto per fare due esempi) è precipitata, tanto che non è raro trovarsi in assemblee "generali" con nemmeno venti persone. Un simile calo di partecipazione l'abbiamo registrato anche in diversi momenti di coordinamento della Rete Lilliput.

c) Le campagne che stanno portando avanti il movimento o pezzi di movimento procedono stancamente. Fortunatamente la campagna "Tobin Tax", gestita sostanzialmente da ATTAC, sta andando a buon fine non certo per merito delle strutture che formalmente vi avevano aderito magrazie al lavorio di centinaia di piccoliorganismi locali che l'hanno adottata "sul serio". La campagna "Altromondiale" promossa sostanzialmente dalla Rete Lilliput ha avuto una scarsissima risonanza ed è stata caratterizzata da una travagliata gestione interna. La campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani portata avanti dai settori radicali del movimento non sta sortendo alcun effetto visibile, nemmeno tra gli attivisti. E, per finire, i referendum lanciati da PRC, verdi, cobas, sinistra CGIL, con l'adesione di molti Social Forum, vede la non gloriosa situazione di un PRC lasciato completamente solo nella faticosa raccolta di firme.

d) Un altro segnale, tipico dei momenti di crisi, è la frammentazione. Nel caso di un'organizzazione la dinamica prende la forma della "scissione", nel caso dei movimenti quella di "ognuno per conto proprio". Non sono mancate le polemiche interne (quella dei cobas contro l'area PRC dei Social Forum in occasione della manifestazione "mancata" contro la riunione NATO, quella della Rete Lilliput contro la gestione dei Social Forum, ecc.), ma il dato più significativo è stato quello della divaricazione delle componenti interne al movimento, in una dinamica che porta queste al rafforzamento della propria struttura e dei propri appuntamenti. La dinamica procede in maniera estremamente prudente perché la storia di questo movimento ha dimostrato che quando una singola componente ha provato a fare da sola, non ha combinato gran che.
E' vero che vi sono realtà che funzionano: noi le troviamo soprattutto nei Social Forum dei quartieri delle grandi città e dei comuni più piccoli, oppure nelle commissioni o gruppi di lavoro delle grosse strutture, oppure nei nodi locali della Rete Lilliput. Ma queste realtà, più piccole, pur costituendo il grosso delle "truppe" del movimento, non riescono a influire sul suo andamento generale per la parzialità dell'intervento o la scarsa centralità "geografica". Del resto, uno dei segreti della loro persistenza è l'essersi tenuti alla larga dai "casini" delle strutture più ampie. Il loro successo però è locale, e non si riverbera sul movimento generale.

Tapparsi gli occhi di fronte a questa crisi e non chiamarla col suo nome non serve a nulla. Ancor meno trovare delle giustificazioni soft, come quella che l'anno in corso sarebbe stato troppo "faticoso" (come se la non corretta misurazione delle proprie energie non fosse a sua volta un indicatore di crisi).

Vediamo in sintesi le ragioni di questa crisi e poi, in fondo, una qualche indicazione per uscirne. Prima però un paio di premesse.


Premessa 1. Movimenti e organizzazioni

Prima premessa: i movimenti non sono eterni. Partiti, sindacati, associazioni - cioè organizzazioni - sono sorti quando le masse per la prima volta nella storia dell'umanità hanno preso permanentemente la scena politica, alla fine del XIX secolo. Le organizzazioni, ben più solide dei movimenti, nascono e muoiono continuamente, o cambiano completamente natura. I movimenti non organizzati, una realtà nata con gli anni settanta, hanno una vita media ancor più breve, che non è mai andata oltre i due-tre anni di esistenza (vedi la rassegna storica sui movimenti in Italia Venti anni di storia dei movimenti pacifista e di solidarietà internazionale).

Solitamente quando i movimenti si esauriscono i pezzi rimasti si sedimentano in organizzazioni (associazioni, reti, partiti, sindacati). Questo passaggio del resto sta già avvenendo. Il movimento si è strutturato intorno a organismi via via più solidi: Rete Lilliput, ATTAC, i disobbedienti... E' molto probabile che nel caso di un prolungamento della crisi del movimento tutta una serie di Social Forum locali o gruppi o commissioni di lavoro che stanno lavorando su temi specifici evolvano in associazioni o aderiscano ad organizzazioni già esistenti. Non è detto che, a certe condizioni, si tratti di una dinamica negativa, come poi vedremo più avanti.

I movimenti dunque non sono eterni, hanno una durata estremamente limitata nel tempo, e hanno la tendenza a disperdersi o a sedimentarsi in organizzazioni. Dire però che un movimento prima o poi declina, non significa trattare qualsiasi dinamica di declino con fatalistica indifferenza. E' importante individuare le ragioni di crisi sia perché ciò potrebbe produrre un "prolungamento" della vita del movimento stesso, sia perché non sono indifferenti i tempi e i modi attraverso i quali si passa dal movimento all'organizzazione, un passaggio cioè che può avvenire in un clima di sfiducia e disfatta o far parte consapevolmente di un progetto.


Premessa 2. Le fasi del movimento

Il movimento ha attraversato in Italia una prima fase che va da "Seattle" sino a "Genova" e che potremmo chiamare di "ascesa". Il movimento in Italia era qualcosa di abbastanza fragile rispetto ad altri Paesi, ma vi erano consistenti segnali di crescita e che a suo tempo avevamo analizzato (Movimento antiglobalizzazione: cominciamo a fare paura?, La rete: una nuova forma di organizzazione politica?, Dopo Nizza). La seconda fase è quella che va da luglio a settembre 2001 ed è l'esplosione del movimento, che occupa l'intera scena politica, si struttura, cresce impetuosamente (Le componenti del movimento antiglobalizzazione, Dopo Genova. Che movimento costruire?, Genova: gli errori di gestione da parte del movimento, Genova e il dopo Genova negli editoriali del Corriere della Sera). Poi vi è una terza fase che potremmo chiamare di "stallo" durante la quale si ferma l'espansione, cominciano fenomeni di involuzione, diminuisce la partecipazione, si evidenziano i primi limiti (Il movimento antiglobal e le donne, Social Forum: quello che non va, Lo stallo del movimento antiglobal), ma che comunque permette il successo della Marcia Perugia-Assisi del 14 ottobre, il corteo del 10 novembre a Roma "contro ogni guerra senza se e senza ma" e giunge sino al gennaio 2002, quando ancora riesce a organizzare una buona mobilitazione contro la legge antimmigrati (19 gennaio "Per il diritto al futuro"). Poi la fase attuale, che deve essere appunto caratterizzata come "crisi" e in mezzo alla quale c'è stata la vicenda della divisione che si è prodotta nel movimento sulla questione palestinese.

Se vogliamo analizzare le ragioni della crisi dobbiamo concentrarci sulla terza fase, quella dello "stallo". In quella fase il movimento ha dovuto affrontare una serie di sfide su temi politici (la guerra in Afghanistan, la Palestina, la legge Bossi-Fini, l'art.18) e sulle modalità del proprio funzionamento. Le risposte date a queste sfide sono state insufficienti o francamente errate. Qui di seguito quelli che secondo noi sono stati i limiti nell'azione e nell'essere del movimento e che sono all'origine della sua crisi.


Ragioni della crisi. La parzialità sociale del movimento

L'essersi autodefinito "movimento dei movimenti" è il segnale che il movimento ha una percezione di sé che ha poco a che vedere con la realtà. Il movimento (in questo caso non è un problema dei suoi leader ma di gran parte dei suoi attivisti) fa fatica a comprendere di essere una "parzialità", da ogni punto di vista. Innanzitutto per la sua composizione sociale. Una interessante ricerca di Donatella Porta, Massimo Andretta, Lorenzo Mosca, Herbert Reiter (in Mappe di movimenti, Asterios Editore, maggio 2002) sulla base di un campione di interviste realizzate durante le giornate di Genova stima in circa il 50% la percentuale di studenti. La restante metà è costituita da "lavoratoti intellettuali", ma anche da "disoccupati e precari". Il 90% dei non studenti intervistati ha il diploma e la metà almeno una laurea. Dal punto di vista generazionale il 51% ha dai 19 ai 25 anni, il 17% oltre i 36. Dentro il movimento dunque non vi sono operai, pochi giovanissimi, vi è un alto livello di istruzione, la gran parte era già precedentemente impegnata in movimenti, associazioni, partiti, sindacati. Nella popolazione italiana un tale profilo è seccamente minoritario.

Questa composizione sociale "parziale" è all'origine di consistenti errori di prospettiva. Vediamo qualche esempio.

a) Vi è una diffusa ignoranza sul vissuto, le aspettative e le simpatie politiche della classe lavoratrice classica (limite che ha contribuito, come vedremo, al mancato incontro con il movimento sindacale): molti attivisti del movimento ad esempio sono convinti che i contratti atipici siano la regola nel mercato del lavoro, quando invece sono una minoranza (e la "rigidità" della classe lavoratrice spiega l'attacco all'art.18).

b) Vi è un diffuso disinteresse verso forme di comunicazione che possano raggiungere settori sociali non intellettuali: la questione palestinese ad esempio ha diviso il movimento in "duri" e "morbidi", ognuna delle due ali preoccupatissima di "apparire" e organizzare LA manifestazione di solidarietà, sui propri contenuti. Peccato che mentre si davano questi bisticci i sondaggi informavano di una paurosa regressione di massa nella percezione della questione palestinese in cui risulta evidente che la grandissima parte della popolazione italiana considera parimenti responsabili della lotta in corso oppressi e oppressori. Eppure si fa fatica a trovare un gruppo preoccupato di spiegare, con materiali semplici e che non diano nulla per scontato, la storia della questione palestinese con un approccio comprensibile ai più (ad esempio agli studenti delle superiori). Quando se ne chiede ragione agli attivisti, questi sbuffano: essi hanno "già" letto libri sull'argomento, partecipato "già" a dibattiti sulla questione, e così il massimo di cui sono capaci è organizzare la "iniziativa" che raccoglie inevitabilmente chi già è convinto della giustezza della lotta del popolo palestinese. Non vi è stata la modestia, la pazienza e la lungimiranza di partire dal livello più basso di coscienza della popolazione italiana, su questa come su altre questioni. E un impedimento sta proprio nella scarsa coscienza da parte del movimento di essere costituito in buona sostanza da classe media bianca intellettuale.

c) Pensiamo poi a una forma classica di riunione di questo movimento: l'assemblea pubblica, dove dalla mattina alla sera intervengono gli "esperti", o i leader, o tutte e due insieme e che parlano parlano parlano senza che la base abbia una seria possibilità di influenzare il dibattito. Pensiamo che qualcun altro oltre a gente con formazione universitaria, cioè abituata a subire il chiaccherume baronesco, sopporterebbe tale tortura?

d) Gli attivisti del movimento sono immersi in una cultura biopoliticamente corretta, che è tipica da classe media e che rischia di degenerare verso modalità esistenziali da setta religiosa: gli acquisti equosolidali, la finanza etica, i prodotti da non comprare perché da boicottare, ecc. Ma dato che non esiste una "autorità centrale", non si riesce mai a capire se una campagna di boicottaggio è finita o no; alla fine ci si ritrova con una lista lunghissima per cui uno non dovrebbe comprare più nulla, o, come più spesso avviene, comprarlo di nascosto dagli altri attivisti. Pensiamo sul serio che una famiglia operaia o straniera, con tutti i problemi che ha, abbia voglia di ritenere che i suoi problemi si risolveranno se adotterà tali stili di vita?

Non vi è alcun peccato di origine nell'essere nati bianchi, satolli, laureati e biopoliticamente corretti. Il peccato è se, date queste condizioni, si ha la presunzione e la pretesa di voler rappresentare altri da sé, di essere i portatori della soluzione, di pensare di essere il mondo, quando invece se ne rappresenta un pezzetto. Il peccato è non porsi l'obiettivo di uscire dal ghetto della classe media.


Le ragioni della crisi. Il mancato incontro con il movimento sindacale

Il limite rappresentato dalla composizione sociale del movimento, si è fatto sentire soprattutto al momento del crescere della mobilitazione sindacale, non a caso cominciata a gennaio, mese dopo il quale il declino del movimento ha accelerato il suo corso. Prima di gennaio quello no-global era IL movimento. Dopo, la scena è stata scippata in forma durevole dalla CGIL e con una capacità di mobilitazione e di impatto sul quadro politico seccamente superiore.

Il movimento è rimasto spiazzato dalla estensione e dalla forza del movimento sindacale. Le ragioni sono molteplici. La prima è a causa della propria presunzione. Il fatto di autodefinirsi "movimento dei movimenti" unitamente all'adesione poco più che formale anche di pezzi della CGIL (Fiom, Lavoro/Società, ecc.) ha fatto illudere i suoi attivisti di far parte davvero di un movimento pigliatutto, e di contenere "al suo interno" anche il sindacato; come se strutture più o meno secolari con milioni di iscritti e una vita interna vivissima e complessa si facessero inglobare da un movimento nato da pochi mesi! La seconda ragione è che nel movimento milita gran parte del sindacalismo di base (Cobas soprattutto, ma anche SinCobas, RdB, CUB, ecc.): i giovani non lavoratori o lavoratori precari (e che sono, come abbiamo visto, la gran parte del movimento) hanno immaginato che il sindacalismo di base fosse lì in rappresentanza della "classe". Questi sindacati, ultraminoritari se confrontati a CGIL, CISL e UIL, hanno contribuito a diffondere tra questi giovani una visione assolutamente deformata della realtà sindacale presente nella classe lavoratrice: quella di masse di lavoratori inferociti contro i sindacati "concertativi". Con troppo ritardo è ora chiara a tutti la straordinaria e crescente influenza di cui tuttora gode la CGIL.

All'inizio dello sviluppo della mobilitazione sindacale c'è stato un primo momento di sconcerto, cui è seguita una dinamica disastrosa la cui intera responsabilità va imputata ai dirigenti del sindacalismo di base (e non ai suoi attivisti di base, molti dei quali hanno ignorato le indicazioni di vertice oppure hanno vissuto con molto disagio l'atteggiamento settario della propria organizzazione). All'interno dei Social Forum e fuori, questi settori, in occasione delle mobilitazioni promosse dalla CGIL, hanno agito per tenere separato il movimento antiglobal dalla massa dei lavoratori influenzati dalla CGIL. Quella che poteva divenire la grande occasione del movimento di incontrare una fetta di popolo (quello costituito dalle masse non laureate, operaie o impiegate di basso livello, poco bianche, ecc.) e cercare di diffondervi i propri temi e la propria sensibilità si è persa invece in sgradevoli discussioni, che vedevano una sempre più accentuata polarizzazione tra chi voleva partecipare alle manifestazioni CGIL e chi invece premeva per la partecipazione a quelle "alternative". Il tutto in un ambito dove, in realtà, la gran parte della gente era priva di esperienze sindacali significative. Il risultato concreto è stato che i milioni di lavoratori scesi in piazza in questi mesi con la CGIL non hanno fisicamente incontrato il movimento no-gloabl, nonostante che i primi nutrano una diffusa simpatia per il secondo. I giovani privi di esperienza sindacale sono stati coinvolti nei Social Forum in vecchissime diatribe tra i dirigenti dei sindacati di base e quelli che venivano accusati di "fare il gioco di Cofferati", con il risultato che altra gente si è persa per strada.

Troviamo comunque delle responsabilità anche tra i dirigenti del movimento no-global che, pure, comprendono la necessità di un collegamento forte con il movimento sindacale. Non ci è piaciuta la gestione della richiesta di parlare dal palco della manifestazione del 23 marzo. E nemmeno le decisioni "salomoniche" prese da vari Social Forum di partecipare in occasione delle manifestazioni regionali del 16 aprile sia ai cortei confederali che a quelli del sindacalismo di base con l'argomento che la posizione della CGIL sulla Palestina non era corretta. Non siamo d'accordo con questo metodo. La partecipazione del movimento no-global agli appuntamenti del movimento sindacale non deve dipendere dalla generosità o dalle buone posizioni dei dirigenti CGIL (che non sono generosi e hanno pessime posizioni su troppe cose), ma dalla volontà di "incontrare", di entrare in contatto con la massa che quei dirigenti influenzano. L'azione deve essere volta ad approfittare di queste occasioni per distribuire il proprio materiale, mescolare le bandiere, far sentire i propri slogan, intrecciare relazioni con "altri da sé", non per relazionarsi coi dirigenti. Su Palestina e CGIL, domandiamo: non sarebbe stato meglio proprio sul piano della necessità di diffondere una posione corretta sulla Palestina che gli attivisti no-global fossero stati presenti coi propri slogan e materiali in manifestazioni con milioni di persone invece che ritrovarsi in manifestazioni con gente che la pensa GIA' in maniera corretta riguardo alla Palestina? Come si fa a non comprendere che proprio questa sarebbe stata la soluzione più fastidiosa per i dirigenti CGIL? Perché continuare a misurare la propria politica verso la CGIL in base a quel che dicono i suoi dirigenti, e non in base a quello che fa il pezzo di popolo oppresso che quel sindacato organizza?

Il sindacalismo di base, che tanti meriti ha avuto negli anni novanta (e dei quali abbiamo ampiamente trattato nella rivista) avrebbe potuto dire ai milioni di lavoratori scesi in piazza: "noi diffidiamo delle vostre direzioni sindacali, ma stiamo in mezzo a voi perché l'obiettivo è giusto ed è importante stare uniti in questo momento". La simpatia che avrebbe guadagnato sarebbe stata enorme, un tesoro utile nel caso la direzione Cofferati dovesse tradire o retrocedere. La strada scelta invece è stata quella della manifestazione separata, cioè del non incontro con la massa. E il risultato sono state manifestazioni modestissime, come quelle "alternative" del 16 aprile nelle quali il movimento si è fatto trascinare e nelle quali ha costituito il grosso delle ridotte truppe, vista la scarsissima presenza del sindacalismo di base nelle fabbriche.

A settembre non ci si deve più far sfuggire l'occasione rappresentata da milioni di persone che continueranno a scendere in piazza per i propri diritti.


Le ragioni della crisi. Le forme della partecipazione.

In altri articoli, in ottobre, abbiamo sottolineato i limiti di partecipazione e di democrazia del movimento (Il movimento antiglobal e le donne, Social Forum: quello che non va). Da allora le cose non sono migliorate: i giochi vengono sempre risolti tra contatti dei leader delle varie componenti, il maschilismo continua a produrre incontri (Porto Alegre II compreso) dove, pur in presenza di un pubblico costituito per lo meno per metà da donne, i relatori sono sistematicamente maschi, si assiste alle solite assemblee-passerella, ecc. Tutte le componenti anche al proprio interno sono afflitte da un leaderismo diffuso e inossidabile. Le modalità organizzative e l'ossessivo rincorrersi di riunioni inconcludenti e scadenze "irrinuniciabili" contribuiscono a selezionare un dirigente-tipo con le seguenti caratteristiche: maschio, scafatissimo di lungo corso, abile a parlare in pubblico e a "fare le mediazioni", con ampie relazioni e ancor più consistenti volumi di informazioni, e senza figli. Anche la Rete Lilliput, che pure pareva al suo interno quella più democratica e partecipativa, ha adottato modalità di funzionamento talmente complesse che solo chi ha a disposizione una gran quantità di tempo (come ce l'hanno funzionari di ong, insegnanti, universitari, pensionati, e gente senza figli o che vive coi genitori) ha la possibilità non diciamo di parteciparvi, ma semplicemente di comprenderne il funzionamento.

Per questo i gruppi di lavoro e i piccoli Social Forum e Nodi funzionano meglio: avendo poco peso politico e molto lavoro da fare, sono luoghi poco appetibili agli occhi di chi vuole emergere: i leader delle varie componenti se ne tengono alla larga, e così questi spazi, liberi dalle lotte intestine, non perdono gente.

La ragione di fondo di queste difficoltà risiede anche nella composizione generazionale di questo movimento. Come abbiamo visto il movimento è costituto da una massa di giovani e da un fascia di adulti ultraquarantenni. I primi formano (formavano) la massa: una massa con scarsa formazione politica, con poche esperienze di lotta e di movimento, ma molto generosa, capace, curiosa, seria. I secondi sono i sopravvissuti dei movimenti e dei partiti dei decenni passati e sono, mediamente, assai sgamati: il più giovane tra questi "ha fatto" il settantasette (qualcuno, qui e là "ha fatto" la "pantera"). In linea teorica la presenza di due generazioni è un fatto estremamente positivo. Il fatto che nella generazione che si è formata con il '68 non vi fossero adulti (erano tutti intruppati nel PCI) ha pesato non poco sui limiti di quel movimento. Ma sino ad ora il contributo degli adulti è stato, mediamente, più dannoso che utile. Molti adulti hanno portato gli "scazzi" che animavano l'angusta vita della sinistra nostrana prima di Seattle dentro il palcoscenico del movimento, coi giovani come pubblico. Troviamo troppi adulti animati semplicemente dalla voglia di rafforzare la propria organizzazione fagogitando un pezzo di gioventù, senza alcun riguardo per le necessità di crescita, ovviamente lenta e graduale, dei più giovani. Le discussioni nel movimento così ripercorrono vecchie spaccature delle quali i giovani non sono stati minimamente protagonisti: la questione sindacale, la questione palestinese, violenza/non violenza, ecc. Quando le discussioni imperversano lo scenario è lo stesso: i giovani ascoltano i più adulti litigare, se ne stanno zitti, e la volta dopo non si fanno più vedere.
La nuova generazione che sta emergendo non ha fatto esperienze significative, e gli adulti di cui sopra nei fatti glielo stanno impedendo sovrapponendovi le proprie vecchie frustrazioni e i propri inguaribili difetti.

Abbiamo un po' forzato per far comprendere il problema, ma è ovvio che la presenza di una generazione che ha vissuto grandi esperienze di lotta, probabilmente senza eguali nel mondo (perché l'Italia è il Paese dove storicamente sono stati più forti i movimenti e le lotte sindacali) sarebbe, a determinate condizioni, una enorme risorsa. Ma occorrerebbe un atteggiamento diverso, più discreto, più attento, meno teso alla strumentalizzazione e al controllo. I consigli di questa generazione sono utilissimi, ma sarebbe meglio poi lasciare ai giovani i ruoli di coordinamento, portavoce, referente ed anche di "esperto". Perché mai quando ci si deve informare su un tema si invitano gli "esperti" invece di dar vita a modalità partecipative, dove il sapere lo si costruisce insieme con lo studio collettivo e la discussione? La generazione più adulta nel movimento dovrebbe starci in punta di piedi, senza rendere "indispensabile" la propria presenza, senza assumere ruoli ed evitando di litigare al suo interno su argomenti riguardo ai quali i giovani non hanno fatto esperienza concreta.

Infine. Questo movimento ha cercato di praticare forme di democrazia più partecipata possibile. Eppure il bilancio da questo punto di vista non è esaltante. Non è vero che le assemblee siano il luogo più democratico: nelle assemblee vince solo chi è già organizzato, chi non è organizzato perisce. Ed emergono gli adulti e i maschi. Non è una novità di oggi, lo era anche nel '68, basta chiederlo ai leader di allora, gli stessi che oggi (non tutti ma troppi) occupano costose poltrone in Mediaset, nelle direzioni dei quotidiani o nel centrodestra. Non vi è vera democrazia se non si pratica allo stesso tempo forme di delega e rotazione. La delega senza rotazione si trasforma in burocrazia, ma l'assenza di delega fa sì che i leader che si sono guadagnati spazi nei gionali e nelle televisioni senza essere stati eletti da nessuno non ruotino mai.


Soluzioni? Ci si può provare.

Abbiamo detto che la natura dei movimenti è transitoria, ma pensiamo che la loro vita debba essere prolungata il più possibile, prima dell'inevitabile costituzione o rafforzamento di forme più strutturate, per una semplice ragione: i movimenti, essendo più larghi ed informali, permettono ad un maggior numero di persone di partecipare e fare esperienza politica concreta. Ma cosa dovrebbe cambiare perché davvero il movimento possa essere rilanciato?

Il movimento ha affrontato questioni politiche centrali: la guerra, il razzismo, la solidarietà internazionale, i diritti sindacali. Ma ha costruito queste battaglie puntando tutto, ogni volta, sulla grossa manifestazione. Esaurita la manifestazione, si passava ad altro. Il movimento sindacale riguardo all'articolo 18 insegna il metodo giusto: puntare su un tema e su quello battere, insistere, durare nel tempo, cercare di vincere. Occuparsi di un tema per due o tre mesi puntando su una sola iniziativa centrale prima o poi esaurisce chiunque, perché i risultati non arrivano, nemmeno in termini propagandistici. Dobbiamo uscire dalla parzialità per cercare di coinvolgere e influenzare le larghe masse che sono fuori da sé. Ma per far questo occorre cambiare stile di lavoro.

La prima condizione per raggiungere questo fine, è individuare dei temi che coinvolgano i bisogni delle persone, o di settori consistenti di popolazione, e sulla base di quei bisogni operare per farne comprendere il legame con i temi della globalizzazione. Si deve individuare un obiettivo di lotta che appaia realisticamente raggiungibile, e su quello articolare una campagna che duri nel tempo, cercando di vincere. Va da sé che all'interno di una tale campagna trova posto anche la manifestazione nazionale, ma come una delle tante attività necessarie. Proprio come sta facendo il movimento sindacale sull'art.18, scioperando, ma anche sensibilizzando, propagandando, cercando alleanze...

Una campagna possibile è quella contro la Legge Bossi-Fini, oppure quella a difesa della scuola pubblica, di estrema attualità a partire da settembre.

Il fine ultimo di una campagna però non dovrebbe essere il raggiungimento dell'obiettivo in sé, ma quello dell'aumento del livello di autorganizzazione dei settori oppressi. Di nuovo si affaccia l'esempio dell'art.18. Può darsi che l'obiettivo del ritiro della legge delega sul mercato del lavoro o dello stralcio delle modifiche all'art.18 non venga raggiunto, ma la campagna ha comunque sortito un effetto fondamentale: ha aumentato il livello di combattività dei lavoratori e il loro grado di organizzazione. Il movimento antiglobal ha portato avanti in maniera saltuaria la lotta contro la Bossi-Fini, ma questo impegno non ha prodotto alcun sedimento organizzativo tra gli immigrati.

In poche parole il successo di una campagna lo misureremo se alla fine avremo lasciato "sul terreno", una associazione, una rete, una struttura organizzata che prima non esisteva e che si occupa di portare avanti nel tempo i temi agitati da quella stessa campagna. Alla fine di una campagna a favore degli immigrati dovremmo veder sorgere anche in Italia una struttura nazionale autorganizzata di immigrati, o una associazione mista tipo SOS racisme. Alla fine di una campagna in difesa della scuola pubblica dovremmo aiutare alla costruzione di strutture e reti che leghino gli studenti e/o gli insegnanti, ecc.

Insomma: costrunedosi su un tema specifico si sarà meno preoccupati di "apparire" in quanto movimento, e di costruire invece qualcosa di nuovo, di accrescere la rete di relazioni tra oppressi e la loro determinazione a combattere le ingiustizie. E qui ci ricolleghiamo alle considerazioni che facevamo all'inizio: i movimenti non durano in eterno, e un movimento che si occupa di tutto ha ancor meno possibilità di durare senza trasformarsi prima o poi in una sorta di partito politico. E allora la via che segnaliamo permette invece di durare come movimento e di andare via via formando o rafforzando strutture che in maniera più solida possano occuparsi dei temi tipici di questo movimento coinvolgendo strati più ampi di cittadini.